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venerdì 8 ottobre 2010

I costi standard e il servizio differenziato sulla sanità

Il governo ha approvato la bozza di decreto sui costi standard in sanità. Saranno applicati solo dal 2013 e potrebbero aprire la strada a tagli al budget del Sistema sanitario nazionale. Ma la vera sorpresa è che i costi standard diventano irrilevanti per la ripartizione dei fondi e per stimolare l'efficienza delle Regioni, tanto che lo stesso risultato si può ottenere applicando qualsiasi costo standard, basso o alto.

Il governo ha approvato la bozza di decreto sui costi standard in sanità. La buona notizia è che saranno applicati solo dal 2013, la cattiva notizia è che potrebbero aprire la strada a tagli al budget del Sistema sanitario nazionale. Ma il vero scoop è che i costi standard non c’entrano proprio nulla con il calcolo dei fabbisogni regionali di spesa. Tanto che la stessa quota regionale si ottiene sia applicando un costo standard basso (delle Regioni più virtuose) sia uno elevato.

LA SIMULAZIONE
Si è simulata la ripartizione delle risorse disponibili per il 2012 (che si suppone siano uguali a quelle del 2010: 102 miliardi) secondo i nuovi criteri, per semplicità senza suddividerle per i tre livelli essenziali di assistenza (Lea) indicati.
I passaggi logici della bozza di decreto si possono così riassumere:

1) il costo standard è rappresentato dalla spesa media ponderata delle tre Regioni più “virtuose” , su una rosa di cinque;

2) sono le Regioni che nel secondo esercizio precedente hanno chiuso il bilancio in pareggio e rispettato i parametri di qualità, appropriatezza ed efficienza;

3) la spesa benchmark coincide con il finanziamento ordinario, perché si escludono sia le entrate da sforzo fiscale autonomo, sia le spese per prestazioni oltre i Lea;

4) il finanziamento pro-capite, che serve da costo standard, è quello ponderato per classi di età (ad esempio, nel 2010 la Campania ha ricevuto 1.636 euro pro-capite e la Liguria 1.861 euro);

5) in via teorica, il requisito dell’equilibrio di bilancio si può riscontrare sia in Regioni con alti livelli di spesa sia in Regioni con bassi livelli di spesa (ed è quindi casuale);

6) se il costo standard, calcolato sulle Regioni virtuose, fosse inferiore alla media nazionale e applicato sic et simpliciter a tutte le Regioni, i fondi disponibili potrebbero apparire eccessivi: ad esempio, il budget potrebbe essere di 99 miliardi. Viceversa, se fosse superiore, risulterebbero insufficienti, e servirebbero 106 miliardi;

7) a prescindere da ciò, conta la percentuale di ogni Regione sul valore teorico ottenuto dalla moltiplicazione tra il costo standard e la popolazione regionale pesata (art. 22, comma 6, lett. e, comma 8), che si applica al budget del nuovo anno (art. 22 comma 9), fissato dal “Patto per la salute”, i 102 miliardi nell’esempio.
Ma così facendo il costo standard non diviene altro che una costante moltiplicativa della popolazione pesata (vedi colonne 5 e 7 della tabella), per cui la quota di finanziamento regionale riflette solo la percentuale di popolazione pesata rispetto alla popolazione nazionale.

Il costo standard diventa perciò irrilevante per la ripartizione dei fondi e per stimolare l’efficienza delle Regioni, tanto che lo stesso risultato si può ottenere applicando qualsiasi costo standard, basso o alto.
Ne risulta che i costi standard non sono i veri meccanismi per l’assegnazione delle risorse sanitarie alle Regioni. Il decreto sembra prigioniero dei suoi stessi limiti, dovuti all’identificazione dei costi standard con i finanziamenti standard e alla definizione di “virtuosità” basata principalmente sul pareggio di bilancio.

Se si fa coincidere il costo standard efficiente con il finanziamento delle Regioni con popolazione più giovane, Lombardia e Veneto per esempio, solo perché chiudono il bilancio in pareggio, e poi lo si applica anche a quelle con popolazione più anziana, si entra in un circolo vizioso. E si commette una grave ingiustizia sul piano dei diritti. Di sicuro, il metodo proposto del governo non porta al risultato sperato.

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