Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

venerdì 31 dicembre 2010

DICHIARAZIONE D’INTENTI DEI COMPAGNI E DELLE COMPAGNE DELLA TOSCANA

LAVORO SOLIDARIETA’ PER LA FEDERAZIONE DELLA SINISTRA:

Nessun esponente della sinistra di classe italiana siede più nel Parlamento nazionale e nel Parlamento europeo. E’ dalla fine dell'Ottocento, quando fu eletto il primo deputato socialista nel parlamento, fatto salvo il periodo fascista, che questo non accadeva. Il lavoro è privo di rappresentanza politica anche sul piano squisitamente istituzionale. Le forze presenti nel Parlamento all’opposizione del governo Berlusconi sostengono l’equidistanza tra capitale e lavoro come tratto costitutivo (PD), oppure si caratterizzano per un populismo demagogico che affida alla “legalità” la risoluzione dei conflitti fra impresa e lavoro (IDV). Vi è il fondato rischio che l’Italia approdi definitivamente ad una “americanizzazione” del quadro politico e sociale, dove interessi sociali e rappresentanza politica si riferiscano a frazioni della borghesia e dei gruppi industriali ed editoriali, in concorrenza si, ma esclusivamente all’interno del medesimo riferimento sociale e culturale. Il mercato, la libera concorrenza, la proprietà privata, l’equiparazione tra lavoratore ed imprenditore: il dominio del capitalismo e la sua sacralità. Lo stesso sistema istituzionale, attraverso una legge elettorale maggioritaria con premio di maggioranza, e l’accentramento negli esecutivi della residua dialettica politica, a scapito delle assemblee rappresentative, si organizza coerentemente con l’esclusione del lavoro come soggettività politica autonoma. L'iniziativa di Marchionne - antidemocratico, illiberale e autoritario, così definito dalla segretaria generale della CGIL Susanna Camusso - sul piano sociale è complementare a quella di Berlusconi sul piano politico-istituzionale. La firma di CISL e UIL li trasforma, oggettivamente, in sindacati aziendalisti che propagandano la posizione della FIAT. L'esclusione della Fiom-CGIL dalle fabbriche del gruppo FIAT, voluta da Marchionne ed appoggiata e difesa da CISL e UIL, rappresenta un ritorno agli anni Cinquanta, quelli della cacciata dei comunisti dalle aziende e dei reparti confino. La costituita Federazione della Sinistra, momento fondamentale di aggregazione della sinistra anticapitalista, deve assumere in pieno la gravità storica di questo passaggio. Una sinistra anticapitalista che non rinunci ad una teoria generale della transizione al socialismo e ad una idea di modello alternativo di società, pena l’essere subordinata alla cultura borghese e condannata a confliggere all’interno del recinto della società capitalista. Prc, Pdci, Socialismo 2000 e Lavoro-Solidarietà, consapevoli della necessità di dar vita ad un nuovo soggetto politico, hanno dato prova di umiltà, nel riconoscere che ciascun soggetto era singolarmente inadeguato alle necessità, e di grande generosità, affidando alla Federazione della Sinistra il compito di invertire la tendenza alla divisione ed alla frammentazione che tanto danno ha arrecato alla sinistra e soprattutto alla classe operaia. A questa unità non c’è alternativa, pena una miseranda lotta fratricida fra quel poco che resta delle tradizioni della sinistra di classe. Nella Federazione vivono i momenti più alti della storia del movimento operaio italiano, la tradizione comunista (proveniente dal PCI e dalla nuova sinistra) e quella socialista (con particolare riferimento alle capacità di analisi del capitalismo italiano “maturo” degli anni ’60 e ’70), l’antifascismo e le grandi lotte dei movimenti per la pace ed i diritti civili. La Federazione della Sinistra riafferma, finalmente, la centralità del lavoro. La sinistra italiana si è infatti progressivamente trasformata da soggetto rappresentativo di forti interessi di classe e portatore di un progetto di società alternativa, in un’area politico culturale definita da valori: una forza d’opinione non radicata nella classe. Gli operai - e più complessivamente il lavoro dipendente privato e pubblico-, venuti meno i partiti politici di massa, sono privi di potere politico. Si crea così uno squilibrio fra le classi sociali che mina la stessa Costituzione repubblicana. A opporsi in prima linea, nei luoghi di lavoro, è rimasta solo la CGIL come grande organizzazione di massa. Appare evidente come l’unica grande forza di contrasto alla distruzione dei diritti dei lavoratori, allo loro frantumazione, al razzismo e a tutela della democrazia come sintesi non solo di libertà e diritti politici ma anche di diritti materiali sia proprio la CGIL. Ma senza una forza politica che rappresenti e organizzi il lavoro la stessa tenuta della CGIL è messa a dura prova. La stessa CGIL, in assenza di una prospettiva di trasformazione generale della società e di un adeguato partito che rappresenti gli interessi di classe, è da troppo tempo sulla difensiva. I sindacati infatti, anche quando si muovono al meglio delle loro potenzialità, in assenza di un partito dei lavoratori di ispirazione socialista e comunista, sono destinati a muoversi su un piano di subordinazione e di resistenza. La presenza dei partiti di massa nei luoghi di lavoro alimentava infatti la diffusione tra i lavoratori di una cultura e di una progettualità che vivificavano l’azione dei sindacati. Questa è la precondizione per una ripresa dell’offensiva da parte della CGIL. Questa è per noi l’importanza strategica della Federazione della Sinistra, che va fatta vivere senza remore e titubanze come soggetto politico unitario ed autonomo. Per noi che abbiamo dato vita all’associazione Lavoro-Solidarietà, sindacalisti e delegati della CGIL che ritengono fondamentale mettere la propria faccia direttamente anche sul piano dell’iniziativa politica, la Federazione merita tutto il nostro impegno e la nostra passione. Allargare l’adesione alla proposta politica e ideologica di Lavoro-Solidarietà a tutti quanti e tutte quante ne condividano il profilo è il nostro impegno per l’oggi.

1. Per la difesa della Costituzione repubblicana, nata dalla Resistenza
antifascista, organizzata sui partiti di massa e sulla libera espressione del conflitto di classe, fondata sul lavoro.

2. Per il ripristino di una legge elettorale proporzionale senza sbarramento che ridia centralità del Parlamento e renda possibile la rappresentazione nella sfera istituzionale di forze politiche fondate sul lavoro.

3. Per un sistema di rappresentanza delle forze sindacali basato sul consenso ottenuto nelle votazione nelle RSU - da estendere obbligatoriamente a tutto il mondo del lavoro - e dalle adesioni certificate, in modo che nessuna minoranza possa sottoscrivere contratti validi per tutti i lavoratori, stabilendo altresì la possibilità che in caso di disaccordo da parte di forze sindacali rappresentative possa essere indetto, anche a fronte della firma di organizzazioni sindacali rappresentative dalla maggioranza dei lavoratori, un referendum sull’intesa eventualmente sottoscritta.

4. Per una politica industriale che impedisca la marginalità dell’Italia all’interno della divisione internazionale del lavoro, nella consapevolezza che la borghesia nazionale è totalmente incapace di svolgere questo ruolo, affidando i propri guadagni alla rendita e a forme di monopoli privati figli della svendita del patrimonio e delle competenze del pubblico.

5. Per l’intervento diretto dello Stato nei settori industriali strategici, ripubblicizzando altresì tutte le attività che rivestono un interesse collettivo prioritario, come le imprese a rete (energia, trasporti, acqua, rifiuti, telecomunicazioni) ed i beni comuni.

6. Per la riconquista di un sistema contrattuale di regole certe ed universali per tutti i lavoratori, che riunifichi il mondo del lavoro e che operi un recupero salariale reale, anche attraverso una distribuzione di una quota della crescita di produttività, tale da portare, in un tempo ragionevole, il monte salari globale al 50% del reddito nazionale, a fronte della quota attuale del 40%. Non c’è difesa della Costituzione possibile se non difendendo il ruolo politico del lavoro, e quindi il suo potere, a fronte del potere dell’impresa. Questione democratica e questione sociale per noi si tengono reciprocamente.

7. Per una proposta elettorale che metta in campo uno schieramento ampio, di alleanza democratica, a fronte della presenza di una destra eversiva come quella rappresentata dall’attuale maggioranza di Governo.

8. Per una proposta elettorale che contenga altresì elementi programmatici qualificanti sul piano sociale, come l’abolizione di tutte le normative che precarizzano il lavoro, distruggono l’Università e la scuola pubblica, aboliscono “di fatto” il diritto del lavoro sostituito dalla norma sull’arbitrato.

9. Per una politica industriale che una volta individuati i settori manifatturieri sui quali puntare utilizzi anche l’intervento diretto dello Stato nella proprietà, come accade in molti paesi europei.

10. Per una tassazione delle rendite e dei grandi patrimoni in modo da finanziare sia l’estensione e la riforma degli ammortizzatori sociali che politiche di sviluppo e infrastrutturali che indichino una via alta dello sviluppo, da accompagnare con maggiori investimenti in istruzione e ricerca.

11. Per la creazione di una cultura di governo di sinistra, per dire non solo cosa non bisogna fare, ma cosa si deve e si può fare e soprattutto cosa faremmo se riuscissimo ad ottenere i consensi necessari a governare. Per cosa dovremmo essere votati e soprattutto quale dovrebbe essere la tangibile utilità sociale per i soggetti che vogliamo rappresentare. Organizzare anzi, non solo rappresentare.

12. Per aprire da subito una offensiva politica nei confronti di Sinistra Ecologia e Libertà, per costruire una piattaforma programmatica comune in modo da riempire di contenuti più avanzati l’alleanza democratica.

13. Per la riunificazione, all’interno della Federazione, di tutti i comunisti e le comuniste, che vada oltre il necessario superamento della divisione del Prc e del Pdci, due partiti che nel nome si dicono comunisti e nel simbolo hanno la falce e martello. Processo che non sia esclusivamente organizzativistico, ma si confronti sull’analisi del capitalismo attuale e sulla storia del movimento comunista internazione, in modo da indicare quale prospettiva possa assumere l’indicazione del Socialismo del XXI° secolo.

Stare nella Federazione con le posizioni di Lavoro Solidarietà significa quindi rafforzare gli elementi di classe del progetto, rafforzare una visione maggioritaria della nostra iniziativa politica e del nostro radicamento sociale, comprendere la centralità della CGIL nello scontro sociale attuale, valorizzandone le iniziative, ponendosi come interlocutore privilegiato all’interno delle varie forze politiche. Per una forza di classe che organizzi la classe, facendo particolare attenzione alla forza lavoro precaria ed a quella immigrata - operai, 8 milioni e 149 mila secondo la rilevazione Istat del 2008, larga parte del lavoro dipendente pubblico privato d’altro genere, 7 milioni 301 mila sempre Istat 2008, giovani lavoratori atipici, gran parte del falso lavoro autonomo, migranti, disoccupati, gran parte dei pensionati: pur rappresentando la maggioranza della popolazione e ciò che dovrebbe costituire il blocco sociale della sinistra sono ad oggi divisi ed egemonizzati da 250 mila imprenditori privati e dalla parte abbiente di 3-4 milioni di lavoratori autonomi -, che faccia del marxismo il proprio strumento di analisi, che valorizzi il pensiero di Antonio Gramsci, che non sia né settaria né minoritaria – quando necessario magari estremista - , che sfidi la SEL sul terreno dell’unità della sinistra ed il Pd sul piano dell’alleanza democratica contro la destra eversiva. Una forza che riprenda il ripudio della guerra come risoluzione delle controversie internazionali, così come sancito nella Carta Costituzionale, ma soprattutto così come vive ed è sempre vissuto all’interno del movimento dei lavoratori, riprendendo anche una battaglia antimilitarista. Che stia sempre dalla parte della ragione: quella dei lavoratori e delle lavoratrici, della loro dignità, dei loro diritti e del loro potere organizzato.
Questo è il tempo della semina.

Firenze, dicembre 2010

lunedì 13 dicembre 2010

La crisi economica aumenta le disuguaglianze

Lo tsunami della crisi economica si sta abbattendo sui paesi che meno hanno contribuito a scatenarla. A questo ritmo, l'obiettivo di sradicare la fame e la povertà entro il 2015 rischia di rimanere un miraggio per la maggior parte dei paesi nel mondo. Lo denuncia la rete internazionale Social Watch nel rapporto “People First” diffuso in questi giorni. “Studiando l'impatto sociale della crisi a livello internazionale, emerge che a pagarne le conseguenze più dure sono i paesi impoveriti e le persone più vulnerabili, molte delle quali sono nuovi poveri”, afferma Jason Nardi, portavoce del Social Watch Italia. “Fra le prime vittime del crollo dei mercati finanziari vi sono i più poveri che, spendendo dal 50 all’80% del loro reddito in beni alimentari, risentono maggiormente dell'aumento del costo delle derrate agricole. Ma anche le donne, spesso impiegate in lavori precari o a cottimo, con minori salari e più bassi livelli di tutela sociale”. Tramite l’Indice delle Capacità di Base (BCI), il rapporto analizza lo stato di salute e il livello dell’istruzione elementare di ciascun paese. I risultati sono preoccupanti: al 2009, quasi la metà dei paesi analizzati (42,1%) ha un valore dell'Indice BCI basso, molto basso o critico. La maggioranza della popolazione mondiale vive in paesi in cui i principali indicatori sociali sono immobili o progrediscono troppo lentamente per raggiungere un livello di vita accettabile nel prossimo decennio. “Le cifre rivelano una situazione di disuguaglianza drammatica in tutto il mondo, sebbene i dati elaborati si riferiscano a un periodo in cui la crisi economica doveva ancora produrre i suoi effetti più profondi”, afferma Jason Nardi. “La crisi finanziaria offre un'opportunità storica per ripensare i processi decisionali in politica economica attraverso un approccio basato sui diritti umani”.

Il BCI è un indice alternativo che definisce la povertà non in termini di reddito, ma in base alla possibilità di godere di alcuni diritti fondamentali. In particolare, l’indice è costruito attraverso l'analisi di alcuni fattori determinanti per lo sviluppo di un paese: la percentuale di bambini che arriva alla quinta elementare, la sopravvivenza fino ai cinque anni di età e la percentuale di nascite assistite da personale qualificato. A livello mondiale, emerge che nel 18% dei paesi è in atto una regressione in alcuni casi accelerata. Tra questi, il 41% fa parte dell’Africa subsahariana. Un dato preoccupante per una regione che già in precedenza registrava i valori più bassi. L'Asia meridionale sta invece progredendo rapidamente, pur partendo da valori molto bassi, mentre in America Latina e nei Caraibi non si registrano miglioramenti. Al ritmo di sviluppo attuale, solo Europa e Nord America potrebbero raggiungere entro il 2015 valori accettabili dell'indice. Ciò significa che, in mancanza di cambiamenti sostanziali, per tale data gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio concordati a livello internazionale non verranno raggiunti.

Lo scenario desta ancor più preoccupazione se si considera che solo Danimarca, Norvegia, Svezia, Olanda e Lussemburgo hanno rispettato gli obiettivi delle Nazioni Unite, destinando almeno lo 0,7% del Pil all’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (Aps). Nonostante le ripetute promesse del nostro governo, si prevede che l'Aiuto Pubblico allo Sviluppo in Italia subirà un drammatico taglio, scendendo dallo 0,2% del PIL a meno dello 0,17%. Al pari della Grecia e di poco al di sopra della Repubblica Ceca, l'Italia si ritrova così agli ultimi posti tra i paesi industrializzati.

Le differenze tra uomo e donna non si riducono, mentre cresce la distanza tra i paesi più virtuosi e quelli in cui la discriminazione è maggiore. Lo rivela l'Indice di Parità di Genere (GEI), sviluppato e calcolato per il 2009 dal Social Watch. Il GEI analizza la disparità tra i sessi, classificando 157 paesi in una scala in cui 100 indica la completa uguaglianza tra donne e uomini.

I valori più alti nell'Indice di Parità di Genere sono attribuiti alla Svezia (88 punti). Seguono Finlandia e Ruanda - entrambi con 84 punti nonostante l'enorme differenza in termini di ricchezza tra i due paesi. Poco al di sotto si classificano Norvegia (83), Bahamas (79), Danimarca (79) e Germania (78). L’indice dimostra quindi che un alto livello di reddito non è sinonimo di maggiore uguaglianza e che anche i paesi poveri possono raggiungere livelli di parità molto elevati, sebbene uomini e donne vivano in condizioni non facili. In questa speciale classifica, l’Italia scende rispetto al 2008 dal 70° al 72° posto, con un valore di 64 punti, collocandosi subito dopo paesi come Grecia, Slovenia, Cipro e Repubblica Dominicana (66). Confrontando il dato dell’Italia con la media europea (72), emerge il ritardo del nostro paese nel raggiungere un’effettiva uguaglianza di genere.

“L’indice della parità di genere rivela se una società sta evolvendo verso una maggiore equità di genere o rimane ferma. La mancata riduzione del divario nei diritti tra uomo e donna conferma la miopia dei governi. La distinzione tra paesi del cosiddetto Sud del mondo e quelli del Nord sviluppato è sempre più sfumata”, afferma Jason Nardi, portavoce del Social Watch Italia. “La promozione della parità tra i sessi è uno degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio: i nostri dati dimostrano che quell’obiettivo invece di avvicinarsi si sta allontanando”. Nelle prime 50 posizioni dell’indice sono compresi i due terzi dei paesi dell’Unione Europea, ad esclusione di paesi come Irlanda, Slovacchia, Repubblica Ceca, Grecia e Italia. Tra i primi 50, c’è inoltre una significativa rappresentanza di paesi in via di sviluppo, tra i quali Filippine, Colombia, Tanzania e Thailandia. L’insufficiente progresso nella riduzione della disparità di genere ha portato, in molte realtà, a una crescente polarizzazione: mentre nei paesi dove l'uguaglianza è maggiore si registra una tendenza verso il miglioramento, gli Stati con livelli di discriminazione più elevati evolvono in modo negativo. É il caso dell'America Latina e dei Caraibi, da una parte, e dell'Asia Orientale e del Pacifico, dall'altra. Crisi economica: donne più vulnerabili

La situazione di estrema disuguaglianza tra uomo e donna è stata aggravata dall'attuale crisi economica. Le donne, infatti, sono più esposte alla recessione globale perché hanno minore controllo della proprietà e delle risorse, sono più numerose nei lavori precari o a cottimo, percepiscono minori salari e godono di livelli di tutela sociale più bassi. L'ONU riferisce che il tasso globale di disoccupazione femminile potrebbe arrivare al 7,4%, contro il 7,0% di quella maschile. Ciononostante, il Social Watch ricorda che la crisi non presenta soltanto sfide, ma anche l’opportunità di cambiare l'architettura finanziaria globale e definire politiche innovative, basate sull’equità e sul rispetto dei diritti.

L'indice GEI è composto da una serie di indicatori della disparità di genere che coprono tre dimensioni: l'istruzione, la partecipazione all'attività economica e l'empowerment (concessione di pieni poteri alle donne). L'analisi del divario nei tassi di alfabetizzazione e di iscrizione a scuola dei diversi paesi mostra che i progressi registrati nella sfera dell'istruzione sono di gran lunga maggiori rispetto a quelli registrati nelle altre dimensioni della parità di genere. Nell'accesso agli spazi decisionali e nell'esercizio del potere, invece, la disuguaglianza tra uomini e donne è più evidente: non c'è un solo paese dove le donne abbiano le stesse opportunità degli uomini di partecipare ai processi economici o socio-decisionali. I progressi nella partecipazione all'attività economica registrati nel 2008, infine, sono stati completamente azzerati nel 2009. In particolare nella regione dell'Africa subsahariana.

domenica 12 dicembre 2010

Resoconto Consiglio Comunale del 29 novembre 2010

Dopo due mesi dallo scorso consiglio comunale ci siamo ritrovati a dover affrontare un ordine del giorno di 15 punti, dove negli ultimi giorni, fino un ora prima del consiglio, abbiamo sostenuto un tour de force per le commissioni che si sono susseguite una dopo l’altra.

Al primo punto ci sono state due mozioni, simili nell’argomento, ma distanti nella richiesta, visto che si parlava della ZTL all’interno del castello di Monteriggioni dove già esisteva, ma non era più sostenibile il transito e la sosta dei privati e degli operatori commerciali e andava rivisto il regolamentato.
Ovviamente per il suddetto regolamento ha competenza la giunta ma l’indirizzi gli devono essere forniti dal consiglio, quindi sono approdate in consiglio le due mozioni, dove quella del centro sinistra prendeva quello di buono che era stato fatto finora apportando gradualmente altre regolamentazioni alla circolazione e alla sosta, nello specifico a rilasciare permessi in misura agli stalli di sosta, a rilasciare permessi ai residenti senza scadenza, a prevedere il carico e scarico merci soltanto nella mattina, ad intensificare i controlli con la polizia municipale, ecc.

Quella del Polo, riconosceva che la pratica della pedonalizzazione è necessaria nei centri di interesse storico, che ovviamente questo apporta una riqualificazione ambientale utile per il luogo stesso e per i turisti che ne usufruiscono, e che in sostanza i parcheggi all’esterno delle mura erano sufficienti per l’uso esclusivo sia dei residenti sia degli operatori commerciali, quindi le loro richieste erano di limitare la totalità del transito, con il divieto assoluto di sosta e di fermata, compreso ai portatori di handicap, cosa secondo me veramente discriminatoria e inaccettabile, per non parlare della rimozione totale della segnaletica orizzontale e verticale.

Ne è scaturita una discussione molto variegata, con spunti di riflessione, ma al momento del voto è passata la linea della maggioranza, che in questa circostanza condivido, in quanto il luogo è si di interesse storico, architettonico, turistico, ma è cosi attrattivo perché all’interno ancora vivono delle persone, molte delle quali anziane, e per le quali delle forti restrizioni alla circolazione e alla sosta possono portare a dei disagi non indifferenti, quindi il passaggio va fatto gradualmente.

La mozione successiva è stata voluta e sottoscritta da tutti i gruppi consiliari con la richiesta di moratoria sulla pena di morte, rievocando la vicenda Sakineh Mohammadi Ashtiani, che è stata condannata nel maggio 2006 per aver avuto una "relazione illecita" con due uomini ed è stata sottoposta a 99 frustate, come disposto dalla sentenza.
Successivamente è stata condannata alla lapidazione per "adulterio durante il matrimonio", accusa che lei ha negato.

Questo esempio ancora una volta mette in evidenza le condizioni in cui versano i diritti delle donne, che sono ancora una volta negati, e questo fa si che si possa perpetrare le più feroci violenze nei loro confronti.
Sullo slancio di questa vicenda, del suo caso umano, che il Comune di Monteriggioni tutto, vuole riaffermare il diritto universale alla vita chiedendo nelle sedi preposte la moratoria della pena di morte, per accelerare un processo che ha già visto dagli anni 90 oltre 50 paesi rinunciare al suo uso e il suo uso restringersi in molti paesi per un accresciuto rispetto della vita umana e per riaffermare il diritto fondamentale di ogni individuo alla vita.
Permette di fermare un sistema giudiziario che non è mai infallibile. Permette di introdurre misure alternative sempre aperte alla riabilitazione umana, capaci di risarcire la società e di scoraggiare ogni senso di vendetta.

Non si può togliere quello che non si può restituire.
Non si può aggiungere una morte alla morte già avvenuta.
Non si può legittimare, da parte dello stato, il diritto a infliggere la morte mentre si vorrebbe sostenere il diritto alla sicurezza della vita.

Lo stato e la società civile non può mai scendere al livello di chi uccide. Una giustizia capace di essere sempre dalla parte della vita è la via per riconciliare interi paesi e popoli dopo sanguinose guerre e atroci sofferenze, come mostra la scelta coraggiosa contro la pena capitale di paesi come Ruanda, Burundi, Cambogia, che hanno vissuto un terribile genocidio, come indica il Sudafrica che è uscito dall’apartheid senza pena di morte e indicando la strada di una giustizia senza vendetta.
E’ passata all’unanimità.


Al punto successivo dopo l’approvazione dei verbali della seduta del 29 di settembre c’era il riordino degli uffici e dei servizi, adeguamento alla normativa che fa riferimento alla famosa legge Brunetta, che è stato rimandato alla seduta successiva per aggiungere un comma, voluto dal PdL.
Su questo punto all’ordine del giorno farò al momento opportuno due considerazioni distinte, una tecnica perché come ci ha illustrato il segretario in commissione, è stato fatto un lavoro di riordino di tutti gli allegati e integrazioni che facevano parte del vecchio regolamento ma erano state approvate in tempi diversi e portate dentro allo stesso, che la disciplina in materia di riordino degli uffici va contestualizzata sulla dimensione del nostro comune e sulle esigenze degli uffici perché il tutto sia più armonioso possibile, ma del resto esisteva già qualcosa con il dlgs del 2000, dove già si parlava di valutazioni e il riferimento era il “peg”.
L’altra considerazione è più politica in quanto il dlgs del 2009 non è altro che il recepimento della legge Brunetta in materia di riordino degli enti locali e quindi non posso che fare una critica nella sua impostazione di massima dove nelle parole “merito, performance, trasparenza, si nasconde un solo risultato, ed è specificato nella norma stessa come indicatore primario, cioè “collegamento tra obbiettivi ed allocazione delle risorse” cioè ancora una volta una norma circolare dove l’una è complementare al’altra, di conseguenza il badget diventa un pilastro portante della norma, dove nel riordino si nasconde una sempre più costante riduzione dei costi, limitazione e controllo della spesa degli uffici, e quindi di conseguenza una limitazione all’autonomia dell’ente, perché abbiamo già visto con il patto di stabilità quante restrizioni alla spesa e quindi all’autonomia, delle scelte degli enti locali, alla faccia del federalismo, questo riordino non è altro che la continuazione di questa politica di tagli e controllo della spesa, che portano in primo luogo alla limitazione di autonomia dell’ente da parte del governo centrale con delle leggi ad ok.
Al punto7 c’è stata la modifica del regolamento di contabilità sulla disciplina alla prestazioni di fideiussioni, accollo, subentro, e di altro genere da parte del Comune, per operazioni di indebitamento destinate ad investimenti di interesse pubblico da parte di aziende speciali, consorzi di cui fa parte, società di capitali di cui è socio e da altri enti da esso dipendenti diversi dalle società di capitali.

Al punto 9 c’è stato il piano delle opere pubbliche in quanto è strettamente legato al bilancio, per cui erano state fatte delle variazioni di spesa e sulle stesse dovevano essere portate in consiglio per la votazione.
L’unica nota stonata, è stata la convocazione della commissione un ora prima della seduta consiliare, senza nemmeno l’invio della documentazione ai commissari delle voci per cui facevamo la variazione di importo, che denota una scarsa organizzazione e una scarsa considerazione dei commissari dei gruppi di minoranza che ne fanno parte.
Le variazioni apportate, anche se di lieve entità e magari opportune, non hanno permesso nient’altro che la mera presa d’atto di quello che ci illustrava l’assessore, quindi anche per questo il mio voto è stato negativo.
Le variazioni erano sulla rifiuterai del pian del Casone, un piccolo aumento di spesa, sul museo della Francigena dove veniva tolto l’intero importo di 400mila euro, sul progetto a Badesse di “cose comuni”, che anche questo progetto veniva azzerato, le recinzioni dei campi sportivi che venivano aumentato il capitolo di 20 mila euro, il rifacimento delle strade asfaltate che passava da 100mila a 138 mila euro, il completamento delle opere di urbanizzazione del Rugio, avendo escusso la fideiussione a suo tempo stipulata con l’impresa costruttrice, e il capitolo della protezione civile al quale veniva tolto 10mila euro in quanto nel mese di dicembre non era previsto nessun intervento.

Al punto 10 c’era il bilancio di previsione 2010 e piano esecutivo di gestione ratifica delibera di giunta n° 190 del 04 novembre 2010
Al punto 11 l’estinzione del mutuo di 1milione e 200mila euro contratto con la banca MPS, utilizzo avanzo di amministrazione 2009
Al punto 12 bilancio di previsione 2010 assestamento generale – variazioni - approvazione
Su questi punti trattandosi di bilancio, per coerenza, visto che avevo votato contro al bilancio di previsione scorso, ho ridato il mio voto contrario sul punto 10 e sul punto 12, dove comunque farò una riflessione sul consuntivo del 2010, dove non ci saranno previsioni ma sarà il risultato amministrativo di quest’anno, e come ho ripetuto, il mio voto sarà sull’insieme delle voci che formano il bilancio e non sulle singole variazioni che possono essere forvianti e improcrastinabili sul momento.
Sul punto 11 mi sono astenuto visto che con il patto di stabilità l’avanzo d’amministrazione non può essere usato se non per estinguere i mutui ho trovato legittimo che venisse fatto quest’operazione in quanto era l’unico mutuo che gravava sulle casse del comune, nonostante l’accordo della fondazione MPS, che garantiva il pagamento delle rate.
Quindi con l’estinzione

Ai punti 13, 14, e 15 ci sono state due convenzioni urbanistiche e una variante puntuale sul comparto TU 26, dove viste le caratteristiche delle delibere il mio voto è stato di astensione, in quanto sul punto 13 la modifica sostanziale era nell’accordo tra il costruttore a cedere un appartamento al comune in cambio della variazione di destinazione di parte del fabbricato, il punto 14 si riferiva al termine dei lavori per un sovrappasso pedonale e la stipula della fideiussione congrua con l’opera da realizzare.
L’ultimo punto è una variante puntuale in quanto si ridefinisce le opere che sono a carico del lottizzante, in questo caso l’accesso al lotto con la corsia di accelerazione interna al comparto per garantire la sicurezza dell’ingresso e uscita delle autovetture della stessa.

domenica 5 dicembre 2010

Un colpo di spugna per cancellare il diritto di sciopero!

Dopo che la legge detta “Collegato lavoro” ha posto in essere l’attentato
permanente ai diritti dei lavoratori, come sanciti nei contratti collettivi e
nelle leggi, compresa quella processuale, il governo, in conto proprio e per
conto di Confindustria, ha messo sotto tiro il diritto di sciopero.
A differenza di altri paesi europei, le procedure di sciopero nei servizi
pubblici in Italia sono già macchinose e lunghe, per rendere meno efficace lo
strumento e indebolire il potere di contrattazione dei lavoratori e delle
lavoratrici italiane.
La legge n. 146/90, infatti, stabilisce già oggi che, per poter effettuare la
prima azione di sciopero, tra procedure di raffreddamento e di conciliazione e
proclamazione, occorre che passi almeno un mese. In pratica se il padrone
licenziasse un lavoratore dei trasporti, la risposta di solidarietà e di lotta
per lui potrebbe scattare solo dopo un mese ...
Ma al peggio non c'è limite. Così, ecco che il 27 febbraio 2009 il Consiglio
dei ministri approva un disegno di legge delega in materia di sciopero nei
trasporti, che continua il suo cammino senza che nessuno lo fermi o si
opponga.
Il disegno di legge stabilisce il requisito minimo di rappresentatività del
50% per poter proclamare uno sciopero. Il sindacato che non lo possiede, ma
raggiunge una soglia di rapresentatività superiore al 20% può proclamare
sciopero solo se prima indice un referendum e ottiene il consenso di almeno il
30% dei lavoratori interessati. Una volta raggiunto il quorum, lo sciopero
dovrà rispettare le procedure previste dalla legge n. 146/90.
Il sindacato che ha meno del 20% di rappresentatività non potrà né indire il
referendum né proclamare sciopero.
Dietro la cortina fumogena delle dichiarazioni a favore dei diritti degli
utenti dei trasporti, risulta chiaramente che Sacconi (ormai prossimo al
“premio Nobel” come ministro contro il lavoro!), il suo governo, i partiti
concorrenti del cosiddetto centro-destra attivo per sfiduciarlo e, sotto sotto,
anche quelli di centro sinistra vogliono rendere impraticabile ogni forma di
sciopero nel settore, malgrado esso sia un diritto individuale e indisponibile,
cioè non sottraibile alla disponibilità di ogni singolo lavoratore.
E’ chiaro che non è democratico far dipendere l’esercizio del diritto di
sciopero dalla cosiddetta rappresentatività, in genere basata sulla debolezza
in cui si trovano oggi i lavoratori e sul clientelismo sfrenato delle “grandi”
centrali sindacali a caccia di iscritti cui offrire briciole di diritti.
La democrazia, infatti, consiste nel libero diritto di ogni formazione
sindacale di proclamare sciopero e nel libero diritto di ogni lavoratore di
aderirvi o non aderirvi.
Se si vedono anche alcuni altri aspetti del disegno di legge, non si può non
arrivare alla conclusione che l’obiettivo che esso si prefigge consiste nella
pratica cancellazione del dirito di sciopero.
Per esempio, l’obbligo di dichiarazione preventiva di adesione allo sciopero,
che costringe il lavoratore a dichiarare se ha intenzione di aderire allo
sciopero o no, col rischio di sanzione nel caso non rispetti quanto dichiarato.
E’ chiaro che quest’obbligo mira a scoraggiare il lavoratore dal partecipare
agli scioperi, perché, in tempi bui come gli attuali, lo pone nella condizione
di esporsi in prima persona, sottoponendolo alle intimidazioni e ai ricatti
della gerarchia aziendale e (perché no?) alle promesse di premi all’ “onore
crumiro”.
O l’inasprimento delle sanzioni in caso di azioni fuori dalle regole. Sanzioni
per migliaia di euro, che rappresentano minacce in stile “terroristico”,
perché precipitano tutti nella paura e nell’abbandono di ogni volontà di
lotta.
O lo sciopero virtuale: un ennesimo colpo di perfida fantasia del ministro,
che comporta la prosecuzione dell'attività lavorativa con perdita della
retribuzione per il lavoratore e il versamento da parte del datore di lavoro di
un contributo a un “fondo con finalità sociali”.
Con buona pace di chi pensa che lo sciopero dovrebbe essere uno strumento
utile a spostare a favore dei lavoratori i rapporti di forza col padrone!
Ma il Sacconi-pensiero ha già manifestato l’intenzione di partire dal settore
dei trasporti, per addomesticare tutto il resto del lavoro dipendente, non solo
pubblico (già disciplinato dalla legge n. 146/90), ma anche privato.
In questa prospettiva, il suo ministero ha già avviato il lavoro di
elaborazione di una disciplina generale anti-sciopero (una specie di “testo
unico” della materia), con la finalità di colpire tutti i settori lavorativi e
chiudere in una gabbia autoritaria il conflitto sindacale e quello in genere
sociale, per esempio sanzionando il blocco del traffico con multe di migliaia
di euro sulla testa di ogni manifestante.
Cosa che, se fosse in vigore già oggi, farebbe sganasciare dalla gioia il
ministro Gelmini, con tanti studenti e precari a bloccare strade e autostrade,
ponti, binari, piste aeroportuali!
Il 10 dicembre, giorno in cui i sindacati di base hanno proclamato uno
sciopero nazionale di 4 ore degli autoferrotranvieri contro i tagli al
trasporto pubblico locale e contro il disegno di legge anti-sciopero, non
sarebbe male che il movimento degli studenti e dei precari volesse dire la
sua.

mercoledì 17 novembre 2010

Con una sinistra unita si volta pagina

La vittoria di Giuliano Pisapia nelle primarie di Milano non è un caso, è una vittoria netta che parla di un popolo della sinistra che si è stancato delle mediazioni centriste. Una vittoria resa possibile dall’unità della sinistra. Pisapia infatti era sostenuto oltre che da numerose forze della società civile, dalla Federazione della Sinistra e da Sel. Larga parte dei mass media fa finta di non vedere questo dato ma la realtà è inequivocabile. La vittoria di Pisapia su Boeri è stata possibile unicamente grazie alla mobilitazione di tutte le forze della sinistra e la Federazione della Sinistra, che è la forza con il maggior radicamento territoriale, è stata determinante per questo risultato.


Quella nelle primarie di Milano è quindi la vittoria della credibilità di Giuliano e del sostegno compatto della sinistra unita. Da qui, la prima indicazione politica: proponiamo a SEL di presentare una lista unitaria alle comunali di Milano. Abbiamo sostenuto lo stesso candidato e abbiamo vinto; per quale ragione non fare una lista unitaria che si ponga l’obiettivo di dare una risposta a quella voglia di sinistra che è emersa nelle primarie? Il risultato di Pisapia – e di Onida – ci parlano di una vera e propria crisi politica del PD. Il modo migliore per incidere positivamente su questa crisi è proprio quella di offrire uno sbocco a sinistra, con una sinistra unita.


Così come, per uscire dalla grande palude della crisi politica nazionale, proponiamo alle forze che hanno partecipato alla manifestazione del 16 ottobre di costruire un programma comune con cui aprire il confronto con il centro sinistra. Proponiamo di costruire questo programma di sinistra a partire dalla piattaforma della Fiom che tutti condividiamo. La lotta alla precarietà, per la difesa dei contratti collettivi di lavoro, per la redistribuzione del reddito, per la riconversione ambientale dell’economia, per l’acqua pubblica, contro la guerra in Afganistan rappresentano punti condivisi da cui partire. Facciamolo e diamo continuità alla mobilitazione del 16 impegnandoci a sostenere le posizioni su cui quelle centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza.


Le primarie di Milano ci segnalano però anche un altro elemento. La partecipazione è stata inferiore non solo rispetto alle attese ma anche rispetto alle primarie fatte per scegliere il segretario del PD. Un quarto di voti in meno concentrati nelle periferie, nei quartieri popolari. Questo dato ci parla della crisi della politica, del fatto che il teatrino a cui è ridotta la politica viene visto dalla nostra gente sempre meno come il terreno attraverso cui modificare in meglio la propria condizione sociale. In questo contesto sarebbe ridicolo per noi pensare di recuperare questo distacco tra i ceti popolari e la politica unicamente attraverso la pur necessaria azione unitaria. Occorre mettere al centro – a Milano come in tutta Italia – il lavoro di mobilitazione ed organizzazione sociale. Occorre costruire lotte, comitati, mobilitazione per lo sciopero generale. Occorre costruire il partito sociale su tutto il territorio.


Solo se non lasceremo nessuno solo nella crisi, potremo porre le basi per ricostruire una fiducia nella nostra azione politica e nella possibilità di cambiare lo stato di cose presente. La crisi della politica non si risolve con la delega a leader carismatici ma con la ripresa di una soggettività di massa che dia senso e vigore ad una robusta concezione della democrazia.

giovedì 11 novembre 2010

L’Italia non è un paese per le donne

Da Liberazione:

Non ci voleva certo l’Istat a dimostrare dati alla mano, quanto l’Italia non sia un “Paese per donne”, riprendendo il titolo del celebre romanzo di Mc Carthy. Ma i dati servono e danno un quadro disastroso nella distribuzione dei carichi di lavoro all’interno del tanto santificato “nucleo familiare”.

Il 76,2% del lavoro familiare risulta infatti a totale appannaggio femminile- 1,4% in meno rispetto a 5 anni fa – ma comunque di una asimmetria spiazzante, su cui non è possibile trovare giustificazioni di sorta. Una asimmetria trasversale, che tocca tutto il Paese e che si riduce sensibilmente solo nelle coppie al nord in cui non ci sono figli ed entrambi i componenti del nucleo lavorano.

Agghiacciante anche la comparazione se si prende in esame il cosiddetto tempo libero: se anche a causa della crisi sia uomini che donne hanno dovuto rinunciare in gran parte a questo bene prezioso, la fotografia di una giornata femminile dovrebbe far drizzare i capelli, coloro che sono occupate dedicano al lavoro retribuito 17 minuti in più esattamente quanto cala quello domestico.

Aumenta anche il tempo che gli uomini debbono dedicare al lavoro retribuito, si è passati dalle 5 ore e 44 minuti del 2002/3 alle 6 ore e 19 minuti del 2008/9, diminuisce il tempo libero in maniera ancora più netta e aumentano sia per gli uomini che per le donne i tempi dedicati agli spostamenti verso i luoghi di lavoro, segno di una vita in città impossibili. Scendendo nei dettagli, oltre 9 donne su 10 risultano ancora relegate alla cucina, addirittura il 97,8 per le donne non occupate, la pulizia della casa impegna l’82,7% delle donne occupate e il 94,8% delle non occupate.

E gli uomini? Risultano selettivi nel tipo di contributo, laddove selettivo risulta essere un eufemismo. In un giorno medio, fra i partner di donne occupate, il 41,7% cucina, il 31,4% partecipa alle pulizie della casa, il 29,9% fa la spesa, il 26,6% apparecchia e riordina la cucina mentre vere e proprie rarità da collezione sono coloro che stirano e lavano i panni. Ovviamente se la partner non lavora tutte queste percentuali si dimezzano. Che trarre da questi dati?

La semplice e ovvia conclusione che i rapporti sociali fondamentali non hanno risentito che poco o nulla dei mutamenti degli ultimi 50 anni, non ne hanno risentito nelle condizioni materiali di vita e di organizzazione della vita familiare. Come se, nonostante la mutazione della società intera, del modo di produzione, della vita quotidiana nei suoi aspetti più minimali, sia rimasta una struttura arcaica e immutabile.

Sarebbe un tema di profonda riflessione non solo culturale o sociale ma anche politica, una riflessione che permetterebbe di guardare anche con occhi diversi la crisi che attraversa il modello di produzione capitalista partendo dai suoi gangli fondamentali. Si si tratterebbe di parlare anche alla luce di questi semplici dati per definire il patriarcato e provare a scardinarlo. Ma lo si vuole realmente. E se ci si prova, a smontarne la struttura poi, chi cucina?

martedì 9 novembre 2010

Quando la crisi è Pubblica, c'è aria di agitazione...

Stamani sono venuto a conoscenza, che il personale dipendente del comune di Monteriggioni è in stato di agitazione, a causa del mancato rispetto sull’erogazione di parte del salario variabile del 2009, come definito dal CCNL.
Vista la situazione ho chiesto lumi al Sindaco….

Buongiorno, vorrei sapere come mai non sono stato avvertito, in quanto consigliere, riguardo allo stato di agitazione indetto dai dipendenti del comune di Monteriggioni, i quali con un volantino della R.S.U. rivendicano, come recita il volantino il fatto che lo stesso comune si è riservato di non erogare la parte di salario variabile dovute ai dipendenti, il tutto, nella riunione tenutasi tra le delegazioni trattanti all’inizio di ottobre.
Mi sembra un fatto grave e pretestuoso quello di non erogare il restante premio, e ancora di più di non prendere posizioni in merito, lasciando intendere che la responsabilità è da cercare altrove, forse nel famoso patto di stabilità oppure dallo scellerato decreto Brunetta.
Mi dispiace pensare che dietro a questa posizione intransigente, si possa nasconda la compiacenza dell’amministrazione, a non riconoscere quanto dovuto ai lavoratori.
L’Ente non può nascondersi dietro un dito, lasciando in questo momento di crisi i dipendenti, soli, per un premio che si aggira intorno ai 13mila euro complessivi, quindi, fatti i dovuti calcoli, per una cifra finale procapite di 250euro, quando il bilancio dell’Ente non presenta particolari criticità.
Al Sindaco piace ricordare nei comunicati che il nostro comune è attento sia al bilancio sia alla qualità dei servizi che riesce a offrire, quindi un comune virtuoso, in merito anche al rapporto cittadini/dipendenti, una media al di sotto di tanti altri comuni, dove, ( mi preme ricordargli ), proprio grazie al loro lavoro, all’impegno e alla loro serietà, che il nostro comune è riuscito a raggiungere tali risultati.
Mi sembra che l’atteggiamento intrapreso non sia dei più costruttivi, quindi auspico che il Sindaco prenda posizioni su questa vicenda, anzi che si adoperi, visto che può farlo, per la risoluzione dello stato di agitazione indetto dai dipendenti, anche perché non si infranga il rapporto di fiducia che ogni amministrazione deve avere tra dipendenti e rappresentanti dello stesso.

Gianni Polato.

La presa di posizione del Sindaco, come avevo chiesto, è stata solerte nei miei confronti, un po' meno per gli operai.....


- Secondo quanto valutato dai ns. Uffici non è legale erogare tale fondo se si supera la percentuale massima di accrescimento degli stipendi prevista dalla Legge Finanziaria
- Abbiamo chiesto pareri ai soggetti deputati (Corte dei Conti, ecc.) per avere una interpretazione autentica che consenta al Comune di erogare quanto è stato "autonomamente" immesso in tale Fondo, evidentemente con l'intenzione di riconoscerli ai dipendenti
- Non sopravvaluterei il "potere" del Sindaco rispetto alle norme di legge vigenti e, soprattutto, al fatto che sono i funzionari dell'Ente ad assumersi la responsabilità di porre in essere gli atti effettivi, mentre all'Amministrazione spettano gli indirizzi generali fra cui, appunto, l'implementazione dei fondi salariali
- Quella in oggetto non è l'unica novità in materia di personale, vedi le norme sul blocco degli scatti di anzianità e quelle, di portata "devastante", sul sostanziale blocco delle assunzioni: dal 1 gennaio 2011 si potrà assumere solo un dipendente su 5 che cessano
- Le relazioni sindacali con i lavoratori e con le loro rappresentanze si sviluppano ogni anno su molti aspetti, che spesso si concludono con accordi fra le parti, e questa vicenda, evidentemente molto sentita dai dipendenti, è solo una di queste. Negli incontri con le rappresentanze sindacali l'Ente è rappresentato da tecnici interni ed è presente solo l'Assessore al Personale, in rappresentanza del sindaco, quale uditore. L'insieme delle norme vigenti tende palesemente a tenere distanti la politica dall'amministrazione del personale, proprio per evitare, come dire, condizionamenti alle scelte in materia.

Bruno Valentini

venerdì 5 novembre 2010

Il gioco delle tre carte sull'acqua

Su Il Sole 24 Ore a pagina 20 odierno si parla della discussione in Commissione del Senato sul Federalismo.


Leggo che il PD (partito democratico), in sede di Commissione in Senato, avrebbe proposto modifiche a un decreto legislativo in fase avanzata sui fammisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province, ma, non avendole ottenute, voterebbe contro.

Si sa che al momento della legge n. 42/2009 istitutiva del federalismo fiscale da cui il decreto legislativo "recante disposizioni in materia di determinazione dei fabbisogni standard di comuni, città metropolitane e province" di cui parla Il Sole 24 Ore odierno, il PD si astenne.


Non le avevo lette, oggi corro a leggerle. Sorpresa, scopro che il PD lascia pari pari il punto 5 del comma 1 dell'articolo 2 del predetto decreto legislativo. E cosa dice questo punto 5? Dice che ai Comuni vengono tolti: "servizio di edilizia residenziale pubblica e locale e piani edilizi nonché ... il servizio idrico integrato".

Se sottrarre ai comuni l'acqua è togliere ai cittadini il governo di quanto costituisce il 70% del loro corpo, sottrarre agli stessi il territorio, o il PRG o Piani strategici e Operativi ( Piano del Sindaco) come legiferato già da più Regioni (mi sembrano passare alle Province), io penso che ci troviamo non già di fronte al "fallimento pilotato dei Comuni italiani", come scriveva Pietro Raitano l'11/11/2009 per Altraeconomia, ma molto più in la'.

Cioè, alla loro "chiusura"; almeno alla chiusura dei Comuni così come li conosciamo e come ci provengono dalla quasi millenaria tradizione dei Liberi Comuni di origine popolare. Va da se che con questa chiusura scompaiono non pochi pezzi di articoli della nostra Costituzione in tema di Autonomie Locali: 5, 114, 117, 118 e 119.

Un Comune, come uno Stato, ci hanno insegnato che si reggono, prioritariamente, su: 1) popolo, 2) territorio e 3) identità culturale; con una semplice astrazione, se noi togliamo uno di questi punti, il Comune, o lo Stato, non ci sono più. Pertanto, se togliamo al Comune la gestione del territorio il Comune non c'è più. I beni comuni non sono altro, si può dire, che la sintesi di questi 3 elementi.

Ma se i beni comuni, i servizi di interesse generale, finiscono in mano, "in via ordinaria ... a favore di imprenditori o società ... mediante procedure competitive..." (art. 23-bis comma 2 - l'articolo che con il nostro Referendum vogliamo abrogare e per il quale tra pochi giorni mi sembra che partirà una campagna per la moratoria), di quale Comune si sta più parlando?


In una comunicazione di Mario Collevecchio (della Bocconi e sovente su Il Sole 24 Ore) nel recente incontro di Viareggio della Lega delle Autonomie Locali scrive in un documento: "il disegno di legge AS 2259 (ndr quello sulla Carta delle Autonomie) ha assunto quasi un valore marginale incalzato dai decreti delegati suddetti e dalle norme relative alle manovre di finanza che finiscono per stravolgere l'autonomia istituzionale degli enti locali".

Se due più due fa quattro, a me sembra che si possa concludere che oramai non sono più i Comuni Province e Regioni a governare i beni comuni o i servizi di interesse generale, ma le società quotate e non quotate spa, con relativi Consigli di Amministrazione e top manager; che hanno preso in mano i servizi.

Si ricorda che a fine 2008 Confservizi pubblicava, molto esaltata, che le società partecipate degli Enti Locali avevano raggiunto un fatturato, nell'anno di 48 miliardi di euro.

In questi ultimissimi giorni si è letto che in Liguria, in Lombardia e anche in altre Regioni, i Comuni si stanno accorgendo dell'incredibile attacco alle loro funzioni fondamentali e alle loro autonomie. Oggi si è anche letto su Il Manifesto che Nichi Vendola ha aperto un confronto diretto nella sua Regione con il PD con cui sappiamo che governa la Regione. Vendola, titola Il Manifesto: "Blinda l'acquedotto pugliese e sfida i democratici" e dichiara: "io milito dalla parte di chi è contrario all'acqua mercificata e privatizzata".

Per tutto questo, il lavoro di ritessitura della tela della democrazia a me sembra grande, e, se si considera che ancora in troppe realtà molti, anche a noi vicini, non si accorgono che certe lacerazioni sono state fatte anche da e dentro le istituzioni pubbliche più vicine al cittadino, i Comuni, il lavoro, pensando anche ai begli articoli di Asor Rosa e di Pierluigi Sullo, a me sembra molto più grande e articolato.

lunedì 1 novembre 2010

Ricordando Pasolini

Nel trentacinquesimo anniversario dell'omicidio di Pier Paolo Pasolini con un estratto dall'ultimo libro di Giorgio Galli

«Occuparsi oggi di Pasolini pensatore politico significa anzitutto ricordarne e ammirarne la preveggenza.

Gli scritti pasoliniani più anticipatori riguardano un periodo, tra il 1968 e il 1975 (anno della tragica morte del poeta-regista), nel quale parve possibile, in termini politici, un cambiamento che, se si fosse verificato, avrebbe reso l'Italia odierna ben diversa dal Paese degradato e decadente che è. Pasolini riteneva quel cambiamento auspicabile, senza però realmente crederlo possibile: la sua preveggenza lo induceva a nutrire sfiducia.

Forse lo scorrere dei decenni e il fatale affievolirsi della combattività lo avrebbero reso meno pessimista. Ma è stato ucciso. E oggi rimane il suo pensiero politico, che va ricostruito a partire dagli anni Cinquanta.

Un pensiero politico, quello pasoliniano, utile anche per comprendere meglio il presente, e da utilizzare come quadro concettuale in base al quale ipotizzare possibili scenari futuri per la sinistra».


PASOLINI NEL DUEMILA

Alberto Asor Rosa, storico e cattedratico della letteratura italiana, di formazione marxista, aveva pubblicato nel 1965 Scrittori e popolo, saggio su un tema caro proprio a Pasolini. Era stato molto letto in chiave sessantottina, e sembrava collocare Antonio Gramsci più vicino al populismo che al marxismo. Asor Rosa è dunque uno studioso particolarmente attrezzato per valutare Pasolini come pensatore politico. Eppure, dopo aver rilevato che «egli descrive, con gli strumenti propri dell’analisi linguistica, una condizione peculiare, storica e profonda al tempo stesso, della nazione italiana nel suo complesso, e cioè la sua imperfetta e manchevole unità politica, e le crepe sociali non mai rimarginate, da cui essa è stata ed è tradizionalmente contraddistinta», approda a questa conclusione:

«Pasolini accetta fin da allora, fin dai lontani, operosi e tutto sommato “positivi” anni Cinquanta... di sperimentare tutta la durezza del contatto, del confronto, del conflitto, dell’aspra contesa con il mondo. Negli anni Cinquanta in prospettiva ancora positiva: in seguito, in maniera sempre più sconsolata, e poi sempre più disperata, fino alla tragica uscita di scena di vent’anni dopo».
L’uscita di scena non è né sconsolata né disperata, se è quella del saggio per il congresso del Partito radicale. Pone, con "durezza”, i temi attuali, si è visto, sulla possibile immodificabilità dei rapporti sociali e sul ruolo degli intellettuali. Se gli intellettuali non “tradiranno" - è l’ipotesi “positiva” - i rapporti sociali potranno continuare a essere modificabili, come nella storia e, particolarmente, negli ultimi “cento anni”, quando gli intellettuali hanno svolto appieno il loro ruolo critico per annunciare e conquistare diritti civili (saldandosi a comportamenti e movimenti collettivi di masse che cominciano a capire questi diritti, anche se inizialmente non ne sanno).
Questi i giudizi di un altro autorevole prefatore, Alfonso Berardinelli:

«I poveri e i senza potere non aspiravano ad avere più ricchezza e più potere, ma ad essere in tutto e per tutto come la classe dominante, divenuta culturalmente la sola classe esistente. A questi discorsi [di Pasolini] la cultura di sinistra italiana reagì con un’alzata di spalle spesso al limite dell’irrisione. Pasolini scopriva cose risapute e le caricava di enfasi... Era davvero possibile, in buona fede, scoprire solo ora la “tolleranza repressiva”, “l’Uomo a una dimensione” di Marcuse?

Nonostante lo schematismo concettuale, Scritti corsari resta uno dei rari esempi in Italia di critica intellettuale radicale della società sviluppata. Se non può sostituire da solo una sociologia spregiudicata... è almeno in parte riuscito a salvare l’onore della nostra cultura letteraria... È questa saggistica politica d’emergenza la vera invenzione letteraria degli ultimi anni di Pasolini»
È vero che il suo pensiero politico non può sostituire, «da solo», una «sociologia spregiudicata»; tuttavia è molto di più di un fenomeno letterario che «ha salvato l’onore», o una altrettanto letteraria invenzione di «saggistica politica». Pasolini ha un pensiero politico organico in evoluzione, che è stato grave errore della cultura di sinistra l’aver considerato con superficialità.
Sempre Berardinelli amplia il discorso:

«Non c’è Paese occidentale moderno nel quale la cultura letteraria e filosofica non abbia giudicato male l’avvento della modernità borghese e capitalistica... L’ossessività monotematica e il carattere testamentario di Lettere luterane ha fatto dimenticare che il libro è solo il punto culminante di una lunga serie di attacchi alla modernizzazione che nella nostra letteratura si sono moltiplicati soprattutto dopo il 1955...
In un Paese più civile e libero un libro come Lettere luterane non sarebbe stato scritto. Pasolini parla con la persuasione e l’autorità morale di chi ha la certezza di avere intorno un ceto intellettuale e politico non solo vergognosamente inadeguato ai suoi compiti, ma perfino al di sotto di un livello decente di autocoscienza. Così, uno scrittore “solo in mezzo alla campagna”, si assume il fardello di responsabilità enormi... Deve immaginare e proporre, con paradossali metafore swiftiane, che cosa è moralmente e politicamente necessario fare. È come se Pasolini dovesse surrogare da solo una classe dirigente che non c'e»
Questo approccio è valido, ma ancora prevalentemente letterario. Pasolini non è l’ultimo dei critici letterari della modernità. Ha un pensiero politico che distingue, si è visto, il “Consumismo” italiano da quello, in generale, della “modernità”, la democrazia italiana da quella, in generale, della modernità. Le sue proposte di ciò che è «politicamente necessario fare» non sono solo «metafore swiftiane» (come il Processo): sono proposte precise (anche se singolari) sulla scuola e sulla tv, riformabili in vista di uno sviluppo che renda l’Italia un poco più civile e un poco più libera (magari avvicinandola alle altre democrazie continentali).

Quanto il ceto intellettuale e politico italiano sia inadeguato a questo modesto riformismo, il primo decennio del Duemila lo conferma ben più del 1975. Ma Pasolini non ha mai pensato di surrogare da solo una classe dirigente che non c’è. Puntava sul ruolo collettivo di intellettuali che non tradissero e sull’ultima generazione della sinistra italiana. Non intendeva scrivere un monito “testamentario”. Non voleva farsi massacrare a Ostia. Si preparava a proporre al congresso del Partito radicale un messaggio di critica, ma anche di implicita speranza.

L’opportunità di far uscire Pasolini dalla dimensione quasi esclusivamente letteraria, per dargli una dimensione propriamente politica, è resa necessaria e urgente dal vuoto culturale, prima ancora che politico, di quanto resta della sinistra italiana. Si potrebbe pensare che l’Italia odierna della cosiddetta Seconda repubblica (cioè la Repubblica berlusconiana) sia diventata quel Paese degradato del quale egli parlava a metà degli anni Settanta.

mercoledì 27 ottobre 2010

Nucleare? piatto ricco mi ci ficco!!

Le centrali nucleari richiamano alla mente un tipico proverbio toscano "piatto ricco mi ci ficco". Ed è proprio così, il ritorno al nucleare in Italia è un gigantesco affare che preparerà una grande abbuffata alla cui tavola siederanno tanti commensali avidi di denaro e di potere.

Converranno a quella tavola: l'industria meccanica nazionale in crisi che pensa di rigenerare le vecchie competenze nucleari o di riconvertirsi ad esso; le lobby transnazionali dell'energia in cerca di una nuova verginità, visto che l'era dei combustibili fossili sta per finire; i vari tecnici ed esperti nucleari dispersi e silenti per molti anni e oggi in cerca di occupazione ben retribuita; un esercito di consulenti di lusso per ingrassare le loro tasche e infine pseudo intellettuali super pagati per convincerci che il nucleare è cosa buona e giusta. Mi riferisco in primis a Umberto Veronesi ormai nominato Presidente dell'Agenzia Nazionale per la Sicurezza Nucleare, il quale utilizza il suo titolo di oncologo di fama internazionale per fare l'imbonitore e il piazzista di centrali nucleari a giro per l'Italia.

Il nucleare, invece, per il nostro paese è solo e soltanto un grande affare e non, come ci raccontano, la novella di una grande opportunità per diminuire l'effetto serra che riscalda il pianeta, perché produrrebbe molta meno CO2, o perché darebbe un contributo significativo alla produzione di energia elettrica e all'occupazione.

Quello dei bassi costi è un grande inganno che si fonda sul fatto che nel costo del nucleare non si include tutta la filiera che va dall'estrazione di uranio in miniera al suo trasporto, alla costruzione dell'impianto, agli incentivi per i comuni che ospitano l'impianto stesso (cioè la monetizzazione del rischio), all'immagazzinamento dei residui radioattivi di bassa e media intensità vicino l'impianto fino allo smaltimento delle scorie ad alta attività e allo smantellamento della centrale alla fine del suo funzionamento.

Se ciò venisse fatto, il costo del Kwh nucleare già ora sarebbe comparabile addirittura a quello prodotto attraverso il solare fotovoltaico. Si tace su tutto ciò, perché altrimenti la società si ribellerebbe e chiederebbe immediatamente, in alternativa, l'utilizzo delle fonti rinnovabili di energia.
Calcoli fatti da esperti a livello internazionale dimostrano che la CO2 prodotta dal lungo ciclo del nucleare, a parità di potenza installata, è paragonabile a quella prodotta da una centrale a carbone.
Né durante la fase di esercizio dell'impianto, perché la centrale nucleare emette continuamente elementi radioattivi di bassa e media attività, né soprattutto perché sino ad oggi nel mondo non si è ancora risolto in modo sicuro lo smaltimento delle scorie di alta attività.

Chi può, infatti, garantire lo smaltimento definitivo del plutonio o di altri elementi la cui attività radioattiva può durare per un periodo di oltre 100mila anni ?
E poi, anche se si trovasse il sito teoricamente adatto e la tecnica più idonea per il compattamento delle scorie, chi può garantire il controllo del sito per le migliaia e migliaia di anni necessari?

Allora, invece di inseguire le chimere di un nucleare economico, ecologico e sicuro che non c'è e non ci sarà, almeno in una scala di tempi ragionevoli, adottiamo programmi di risparmio, di efficienza dell'energia e di sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili (solare, eolico, ecc) da promuovere in ogni territorio e in ogni settore (fabbriche, scuole, ospedali, abitazioni, ecc).

E per questo attiviamoci e raccogliamo più firme possibili sul Disegno di Legge di Iniziativa popolare "Sviluppo dell'efficienza energetica e delle fonti rinnovabili per la salvaguardia del clima" in modo da affermare il principio che il No al nucleare sta nelle cose, perché esiste un'alternativa a portata di mano che è più ecologica, più sicura e che può offrire opportunità di lavoro e buona occupazione stabile e diffusa su tutto il territorio nazionale anche attraverso la promozione della ricerca e di attività produttive innovative e qualificate.

mercoledì 20 ottobre 2010

L’assessore regionale Salvatore Allocca sul tetto, per denunciare l’attacco senza precedenti del Governo allo stato sociale, ai diritti di cittadini

L’assessore regionale Salvatore Allocca: “Il Governo fa macelleria sociale: i cittadini e i lavoratori sono parte lesa, così come Regioni ed enti locali. Sul tetto per denunciare una situazione insostenibile che chiede anche agli amministratori il massimo di contrasto e mobilitazione”

I cittadini ed i lavoratori sono, insieme alla Regione Toscana, parte lesa.
Il decreto legge n. 78 del 2010 “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”arriva dopo una crisi economica a lungo negata che ha impoverito le famiglie e colpito il tessuto produttivo del paese.

L’impianto della manovra non ha alcuna posta destinata allo sviluppo ed alla equità, ma ha come unico riferimento la riduzione della spesa pubblica di Regioni ed EE.LL. e, con essa, la riduzione della quota destinata agli interventi sociali, al trasporto pubblico, al sostegno dell’occupazione, il non rifinanziamento degli ammortizzatori sociali, alla sanità, alla scuola.

Una riduzione drastica che arriva alla fine di un triennio in cui il governo Berlusconi aveva già messo ripetutamente le mani nelle tasche degli Enti Locali e quindi dei cittadini a cui sono destinati i servizi. Basti ricordare:
il Fondo Nazionale Politiche Sociali (FNPS), trasferito alla Regione, passato dai 62,677 milioni di euro del 2007 ai 24,904 del 2010 ed erogati ad oggi solo al 50%, le risorse per la salute incrementate di percentuali molto al di sotto dell’inflazione sanitaria, il ridimensionamento del fondo per il sostegno agli affitti fino ad una cifra nettamente inferiore ad un premio del superenalotto, il perdurare dell’assenza di una concreta politica per la casa.

E’ alla fine di questa cura che arriva, con il Decreto 78, il taglio per la Regione Toscana di 320 milioni di euro per il 2011 e di 360 milioni per il 2012. Una somma a cui si aggiunge quanto negato a Province e Comuni dello stesso territorio. Una somma che chiama la Giunta Regionale ad uno sforzo enorme per chiudere in pareggio e senza esercizio provvisorio, il bilancio di previsione 2011. Un pareggio da conquistare attraverso l’eliminazione virtuosa degli sprechi, attraverso la riduzione drastica dei costi di funzionamento della macchia amministrativa e della rappresentanza politica, attraverso la razionalizzazione della erogazione dei servizi, ma un pareggio che non può non prevedere, vista la consistenza della diminuzione delle entrate, inevitabilmente misure dolorose per i lavoratori e per gli utenti.

Ogni servizio lascia sul campo una fetta importante di risorse, mentre il “patto di stabilità” impedisce anche l’utilizzo di somme presenti nei bilanci ed altrimenti immediatamente disponibili producendo ritardi ingiustificabili nella riscossione di somme dovute agli enti locali, alle imprese di servizi, ai fornitori.
La condizione di “pareggio” può essere raggiunta oggi superando il limite della sostenibilità sociale, ma come ulteriore elemento di preoccupazione, dovendo ricorrere anche a misure una tantum, non può essere riprodotta per più di un esercizio senza spingersi molto oltre questo limite.

Occorre quindi non assuefarsi alla cura Tremonti e rilanciare l’iniziativa affinché siano chiare le responsabilità dei tagli ed affinché si determino le condizioni per un cambio di politiche che mettano finalmente mano alla ridistribuzione della ricchezza ed al rilancio dei consumi interni compressi dalla crisi.
Lavoratori e famiglie non possono continuare a vedere peggiorare la loro condizioni di vita attraverso il combinato disposto della diminuzione del reddito e dei servizi erogati.

Occorre un netto profilo di opposizione al Governo di destra ed alla sua politica economica.
E’ necessario impedire che l’applicazione del “federalismo” divenga un nuovo centralismo a trazione leghista e che le Regioni vedano garantito un efficace sistema di perequazione insieme ad un reale spazio di autonomia impositiva.
In questi mesi centinaia e centinaia di lavoratori sono saliti sui tetti per difendere assieme al loro posto di lavoro, le fabbriche delocalizzate, i diritti e la dignità di tutti.

Lo hanno fatto i lavoratori!

Può farlo anche qualche amministratore, a Firenze come in altre città, qualsiasi sia l’istituzione in cui esercita il proprio compito. Può farlo denunciando i problemi senza rinunciare a cercare le quotidiane soluzioni. Può farlo in Toscana come altrove, per chiedere una svolta nel governo dell’economia, per chiedere da subito lo scorporo delle spese sociali dal patto di stabilità, per chiedere che si impegnino risorse per rispondere alla emergenza casa, per chiedere che mentre aumenta la febbre della crisi non si diminuiscano gli interventi di sostegno, che non si separi l’obiettivo della ripresa economica da quello del mantenimento della coesione sociale, per chiedere che si salvaguardi la reale autonomia dei territori.
Dobbiamo chiederlo, possiamo ottenerlo.

martedì 19 ottobre 2010

Venti di guerra, via libera alla costruzione dell'HUB a Pisa per i teatri operativi e aerei spia e bombe nucleari a Sigonella…

E' calato il silenzio sulla costruzione dell'Hub a Pisa ma i progetti vanno avanti e a passi spediti.
Ne abbiamo conferma dal dibattito parlamentare e da alcune e dichiarazioni del Ministro ( della guerra ) La Russa ,lo stesso che a domande ben definite rispondeva, un mese fa, in termini evasivi (MAI FIDARSI DEGLI EX FASCISTI)

Dopo la morte degli alpini in Afganistan, invece di aprire una discussione sulla inutile presenza dei militari all'estero si preparano nuovi scenari militari e in prospettiva gettano le basi di nuove infrastrutture e supporti logistici. La realizzazione di un Hub aereo nazionale dedicato alla gestione dei flussi, via aerea, di personale e di materiale dal territorio nazionale per i teatri operativi, e viceversa, con tempestività e efficacia» ha ricevuto nei giorni scorsi il parere favorevole della commissione difesa di palazzo Madama.

In un paese in crisi economica e sociale, si trovano i soldi per " un investimento quadriennale (dal 2010 al 2013) pari a 63 milioni di euro (di cui 37 milioni per le infrastrutture ed i restanti 26 per i mezzi ed i materiali) per la realizzazione di «una struttura di grandi dimensioni connessa con le
principali vie di comunicazione stradale, ferroviaria e navale e servirà a gestire la ricezione, lo stoccaggio e lo smistamento dei materiali, a preparare e curare l'allestimento del carico, ricevere e gestire vettori di trasportoaereo (militari e civili) di diverse capacità e caratteristiche (sia di grandi
che di medie dimensioni), ed essere in grado di gestire contemporaneamente più operazioni di imbarco e sbarco di personale e materiali" Relatore in Parlamento l'onorevole Ramponi già generale , del resto gli alti comandi dell'esercito italiano una volta congedati li ritroviamo o nel ruolo di
consulenti e promoters delle industrie militari o come parlamentari in difesa delle lobby militari

Dal Parlamento si capisce bene come il progetto sia in fase avanzata, nonostante i silenzi e le mancate risposte di Rossi, Pieroni e Filippeschi (REGIONE, PROVINCIA E COMUNE DI PISA)
Del resto, il comando logistico dell'aeronautica militare ad agosto " ha bandito una gara per la fornitura di mezzi, equipaggiamenti e sistemi «per il costituendo hub aereo nazionale presso l'aeroporto militare di Pisa", ovvero quell'hub di cui soltanto pochi giorni fa è arrivato il sì della commissione Difesa del senato, quindi Il Governo prima ha deciso e avviato i lavori poi ha
ricevuto l'assenso in Parlamento.

Alla grazia della democrazia parlamentare!!!!
Per capire il giro di affari , basta vedere l'importo della gara ( 6.408.552 euro per acquisire 2 barre di traino velivoli, 4 K-Loader aviotrasportabili, 3 attrezzature carico e scarico di container, 6 nastri trasporto bagagli, 10 gruppi illuminanti, 6 scale telescopiche passeggeri semoventi, 200 carrelli
trasporto bagagli a mano, 2 veicoli per il rifornimento di acqua potabile, 2 attrezzature semoventi per il rifornimento di acque chiare e lo scarico acque nere e 2 Air Starter Unit.)

La militarizzazione del territorio pisano va avanti a passi celeri con il silenzio assenso delle istituzioni locali e dei partiti che governano , anche di quelli che non condividono salvo poi rimanere ben ancorati alle poltrone degli assessorati


Altro scenario più a sud nella base siciliana di Sigonella il più sofisticato modello di jet senza pilota “Global Hawk” è atterrato, ma il governo Berlusconi non ha preventivamente informato il Parlamento italiano. Interpellato in merito il ministro della Difesa, ( della guerra, oserei dire ) Ignazio La Russa, tace visibilmente imbarazzato, anche a proposito della presenza a Sigonella di testate nucleari con potenza distruttiva da 1 kiloton a 1,45 megaton: modello b 43, b 61, b 83.


Lo stesso comando della Nato di Bruxelles rivela che “l’inclusione dei velivoli Uav darà maggiore flessibilità ai sistemi Ags”. Ags dovrà trattare tutte le informazioni raccolte dai velivoli radar. A Sigonella gli Usa hanno installato il comando del sistema di sorveglianza della Nato. La corsa bellica del governo Berlusconi continua sempre più intensa, sempre più in silenziosa. Teatro, appunto delle nuove operazioni di guerra è ancora la base militare di Sigonella, dove in gran segreto l’Us Air Force ha posizionato il maggior centro operativo degli “Unmanned Aerial Vehicle, Uav, aerei senza pilota. Ufficialmente, lo scopo è assicurare la sorveglianza su tutto il globo terrestre, ma l’obiettivo più ambizioso del Pentagono è di fare in modo, entro il 2011, che un terzo della sua flotta da combattimento sia costituito da velivoli teleguidati.

L’operazione decolla nell’ottobre 2005, quando il sottosegretario alla difesa Usa Dyke Weatherington rilascia un’intervista al National defense magazine parlando di Uav: l’ultima frontiera della guerra ad altissima tecnologia. Tra loro i Global Hawk, prodotti dalla Northrop Grunmann, frequentemente adoperati in Iraq e Afghanistan. Quaranta di questi velivoli saranno dislocati nelle basi di Kaneohe nelle Hawaii, Jacksonville in Florida, Diego Garcia nell’Oceano Indiano, Kadena ad Okinawa e Sigonella in Italia.

Detto e fatto. Per il Dipartimento della difesa Usa è un anno cruciale per la localizzazione effettiva delle principali basi operative dei Global Hawk, al punto che nel bilancio annuale le voci relative al luogo e ai costi dell’operazione sono indicate come “classificate”, ossia segrete. Se la difesa Usa omette di indicare la sede della base è però possibile ricostruirne le caratteristiche a partire dalle funzioni del Global Hawk.
L’aereo teleguidato è associato al nuovo pattugliatore P-8 Mma, destinato alle basi aeronavali Usa. E il dipartimento della Marina indica, tra i siti, a cui è destinato il P-8, anche Sigonella, sede fissa del 25° Squadrone antisommergibile e del Centro di supporto tattico, che coordina le operazioni di pattugliamento della marina militare Usa.

venerdì 15 ottobre 2010

Domani con la FIOM, per i diritti, per la democrazia

Manca un giorno alla manifestazione del 16 ottobre. Un appuntamento carico di un significato straordinario e che può aprire una fase nuova in questo paese. Può farlo perché coglie fino in fondo la natura dell’attacco che viene portato e di questo investe il complesso della società e della politica. Può farlo perché promette di durare, oltre il 16 ottobre.

Gli scenari che abbiamo di fronte in Italia ed in Europa sono segnati dalla scelta di fondo delle classi dominanti di non rimettere in discussione il modello di sviluppo che ha portato alla crisi, e di produrre, all’opposto un salto di qualità pesantemente regressivo di quello stesso modello. La dimensione dei tagli decisi dai diversi governi europei, la revisione del patto di stabilità in corso d’opera, accentuano drammaticamente il carattere liberista ed oligarchico dell’Unione.

La scelta neomercantilista per cui si dovrebbe uscire dalla crisi orientando tutte le economie all’esportazione, senza sapere chi dovrebbe comprare, ma con una competizione sempre più aspra sulle condizioni di lavoro e i diritti sociali, è tanto illusoria quanto distruttiva. E’ una scelta incompatibile con i diritti del lavoro, il sistema di welfare, la democrazia costituzionale.
Di questo si tratta e del fatto che l’Italia rappresenta in questo contesto, la punta più estrema dell’attacco in corso. Lo è per le caratteristiche che si sono sedimentate nel tempo della sua struttura economica e sociale. Per la lunga assenza di politiche industriale e una competizione da tempo giocata sulla compressione dei costi e delle condizioni di lavoro.

Per l’iniquità della struttura fiscale, che ha comportato al tempo stesso un debito pubblico oggi al 120 per cento del Pil e uno stato sociale sottofinanziato rispetto al resto d’Europa. Lo è per il quadro politico e sindacale da cui il nostro paese è segnato: l’asse Berlusconi-Marchionne al governo, la scomparsa della sinistra dal Parlamento, la scelta di Cisl e Uil di un modello di sindacato che niente ha più a che vedere con l’organizzazione e la rappresentanza dei lavoratori. Il sindacato della bilateralità che si candida, nella crisi, alla privatizzazione del welfare, il patto neo-corporativo con cui padronato e sindacati insieme gestiscono collocamento, formazione, ammortizzatori sociali, sanità, previdenza… Il valore che assume la mobilitazione contro questo disegno è un valore generale.
E’ la difesa e la riconquista del contratto collettivo come legame solidale delle lavoratrici e dei lavoratori, contro il disegno di frammentare e dividere, fabbrica per fabbrica, lavoratore per lavoratore. E’ la difesa del diritti del lavoro e del carattere progressivo del conflitto sociale, che è matrice di fondo della nostra Costituzione. E’ il rifiuto di assoggettare la società tutta al comando unilaterale dell’impresa.

In questo appuntamento in molte e molti si stanno riconoscendo. Per il ruolo che ha svolto e svolge la Fiom, dalla Innse a Pomigliano, alle tante realtà produttive meno note, dove delegati sindacali, spesso giovani ragazzi, sono un presidio di organizzazione dei lavoratori, di democrazia quotidiana e sostanziale. Perché la valenza generale della mobilitazione del 16, i diritti del lavoro e la democrazia in un nesso inscindibile, è stato compreso. Perché le lavoratrici e i lavoratori della scuola, gli studenti, sanno che la lotta contro Marchionne è l’altra faccia della medaglia della lotta contro la Gelmini. Perché i comitati per l’acqua pubblica, le associazioni ambientaliste e pacifiste, Libera, Emergency, l’Arci, l’Anpi saranno in piazza per un altro modello di sviluppo.

Durare è decisivo. Durare per battere il disegno regressivo in campo nel nostro paese e su scala continentale. Durare con la messa in campo dello sciopero generale. Durare con la capacità di progettare un altro modello di sviluppo, che ridistribuisca ricchezza e potere, che riconverta produzione e consumo, dentro un’idea di democratizzazione radicale della società.
In molti territori si sono costituiti i Comitati 16 ottobre a sostegno della manifestazione. Ci siamo spesi come partito e come federazione, anche noi, da mesi e con assoluta generosità per quest’appuntamento, prendendo l’iniziativa, tessendo e ritessendo relazioni. In molte realtà c’è la richiesta che a fronte della durezza della crisi i lavoratori non vengano lasciati soli nella lotta per la difesa dei posti di lavoro. C’è la richiesta di costruire collettivamente resistenza ai processi pesantissimi di ristrutturazione, e capacità di progettare alternative di sviluppo e di vita, socialmente e ambientalmente sostenibili.


Proviamo a farlo. Proviamo a consolidare queste esperienze. A fare in modo come è positivamente avvenuto in tante realtà che le diverse espressioni della sinistra politica, associazioni e movimenti che si battono per un’alternativa agli esiti distruttivi della globalizzazione liberista non si perdano di vista. E nel fare, nella difesa dei posti di lavoro e dei diritti del lavoro, nelle pratiche di solidarietà e nella capacità di progetto, rimettiamo all’ordine del giorno che cambiare è necessario e possibile.

martedì 12 ottobre 2010

Class action addio, non è prioritario secondo la commissione europea

Viviane Reding, commissaria europea, annuncia che l'azione collettiva non è più una priorità alla vigilia delle consultazioni dell'Ue con rappresentanti delle industria e associazioni dei consumatori

Addio alla “class action europea”. Viviane Reding, commissaria Ue Giustizia e Libertà civile, ha annunciato che la class action non è più tra le priorità dell’agenda politica Ue, notizia che ha causato un terremoto nel mondo dei consumatori. Una dichiarazione inaspettata soprattutto perché arriva alla vigilia delle consultazioni con le parti in causa (rappresentanti delle industrie e associazioni dei consumatori) da parte dell’Unione europea.

La class action, o azione legale collettiva risarcitoria, è considerata l’incubo delle multinazionali. Offre a un singolo consumatore vittima di pratiche commerciali scorrette (ad esempio crack finanziari, irregolarità nei contratti telefonici, disservizi nei trasporti e problemi con pacchetti turistici) la possibilità di chiedere l’avvio di una procedura legale di risarcimento per lui e per tutti coloro che si trovano nelle stesse condizioni. Una normativa rivoluzionaria, in grado di mettere singoli cittadini e grandi multinazionali sullo stesso piano davanti a un giudice. Nel caso dei crack Cirio e Parmalat, la class action intentata da una sola persona avrebbe permesso alle migliaia di risparmiatori truffati di ottenere in modo compatto i legittimi risarcimenti, contrariamente alle attuali briciole elargite sentenza dopo sentenza.

Un argomento sul quale l’Ue stava lavorando da oltre 15 anni e che adesso è finito nel cestino delle priorità della Commissione europea. E questo perché? Secondo la Reding, con l’attuale crisi economica l’introduzione di una class action europea potrebbe provocare “un rischioso calo degli investimenti”. Insomma, per non spaventare i capitani di impresa è meglio limitare i diritti dei consumatori. La Reding ha aggiunto che la sua decisione è frutto anche di “lunghe consultazioni con i rappresentanti del mondo industriale statunitense” che l’hanno messa in guardia sugli impatti di una simile legislazione sull’economia europea.

Si, perché negli Stati Uniti la class action esiste già dal 1965, da quando l’avvocato Ralph Nader vinse la causa di diffamazione intentatagli dalla General Motors (il colosso automobilistico statunitense) per le sue accuse sull’insicurezza della Chevrolet Corvait. Da quella vittoria nacque la cintura di sicurezza, i paraurti rinforzati e altri test obbligatori per le industrie automobilistiche. Negli Usa la class action è diventata lo spauracchio delle multinazionali anche per il “punitive damage”, l’indennità punitiva che le aziende devono pagare in aggiunta ai risarcimenti. Storica la class action del 2001 contro Ford e Firestone, condannate a pagare 10 miliardi di dollari per i pneumatici difettosi del fuoristrada Explorer. E poi le cause intentate e vinte dai fumatori malati di cancro nei confronti di Philip Morris e Reynolds, costrette a pagare cure e danni morali con cifre a nove zeri.

La Beuc (The European Consumers’ Organisation) condanna l’intromissione dell’industria statunitense e sottolinea le differenze tra la class action americana e il modello europeo, che “evita gli eccessi presenti nella legislazione Usa”. Monique Goyens, direttore generale Beuc, ha mandato una lettera di protesta alla Reding e al presidente della Commissione Barroso, ricordando che “la stessa Commissione ha stimato che in Europa i danni ai consumatori dovuti a pratiche commerciali scorrette vanno dai 25 ai 69 miliardi di euro l’anno”.

La class action europea doveva fare tesoro dell’esperienza positiva di alcuni Stati membri che prevedono già nei loro ordinamenti l’azione collettiva di risarcimento. In Spagna dal 2000 la class action è stata usata ben 50 volte soprattutto per danni finanziari. Nel 2007 ben 323,337 cittadini sono stati risarciti per il black out di Barcellona causato dall’incendio di tre trasformatori elettrici che ha visto centinaia di persone intrappolate in ascensori e nella metropolitana. Altre tipologie di class action si trovano in Portogallo, Svezia, Danimarca, Finlandia, Grecia, Lituania, Norvegia, Polonia Germania e Regno Unito.

In Italia l’azione collettiva risarcitoria è stata introdotta alla fine del 2007 dal Governo Prodi, ma la sua entrata in vigore è stata più volte rinviata. Lorenzo Miozzi, presidente del Movimento Consumatori ha denunciato a più riprese “le continue modifiche che ne annacquano la sostanza”. Infatti, la “class action all’italiana” non può essere retroattiva e le associazioni dei consumatori non hanno la possibilità di essere promotori delle azioni, ma solo di ricevere il mandato dai danneggiati. È quindi esclusa la possibilità di ottenere un risarcimento del danno per il crack Cirio, Parmalat, e Lehman Brothers.

lunedì 11 ottobre 2010

L'italia ripudia la guerra!!

Nel Belpaese quando si contano i morti piove retorica dai soliti salotti televisivi e dalla carta igienica, pardon stampata. Dopo la convivenza con la mafia propugnata dal ministro berlusconiano Lunardi in palese conflitto di interessi, ecco la sparata di un altro servo del sistema.
Scrive l’esperto di turno Andrea Nativi sul quotidiano Il Giornale: “Impariamo a convivere con i morti in guerra”. Dopo un’altra carneficina con un’opposizione parlamentare inesistente che ha preventivamente approvato le missioni di guerra.

Ecco il soldato hi-tech. Prima sperimentazione segreta proprio in Afghanistan. “Forza Nec”: addio “missioni di pace”. E’ la punta di diamante dell’esercito italiano. Ufficialmente dal 2010 è la prima unità operativa di “cyber soldati”. Ogni kit costa 30 mila euro. In gran segreto l’82° reggimento fanteria “Torino” sperimenta l’equipaggiamento bellico in Afghanistan.

Cosa cambia in pratica? In sostanza gli armamenti. A cominciare dal fucile d’assalto Beretta, evoluzione dei modelli esistenti AR-70/90 e CX4-Storm. L’arma è più leggera con una serie di optional, incluso il lancia granate di 40 mm con calcolatore balistico a telemetria laser. La tecnologia consente prestazioni impensabili: il sistema di mira optronico consentirà al soldato di scoprire, identificare e sparare a obiettivi (esseri umani) su distanze che oltrepassano la capacità del nemico in ogni momento ed in ogni situazione di luminosità, di giorno come di notte.

Anche dietro gli angoli degli edifici. Dati e immagini (di serie le combat camera montate su elmetto e fucile) sono trasmessi in tempo reale a chilometri di distanza, dietro le linee nemiche, in modo da aggiornare costantemente il campo di battaglia. Canale termico, telemetro laser e compasso integrato, invece, per il sofisticato binocolo. Le nuove uniformi assicurano maggiore protezione e minor visibilità. Sono più leggere del 20 per cento rispetto a quelle standard e, grazie al ricorso alle fibre impregnate di carbone attivo risultano efficaci contro la minaccia Nbc.

Nulla è stato lasciato al caso. Ecco i sensori per tenere sotto controllo costantemente lo stato psico-fisico del soldato, laptop collegati in Gprs, navigatori satellitari palmari funzionanti con batterie al metanolo. Le linee di tendenza della Difesa italica prevedono un numero sempre più limitato di soldati con elevate possibilità di sopravvivere al combattimento. Insomma, l’Italia sarà perennemente in guerra. Ergo: per favore niente lacrime retoriche sui giovani morti in battaglia. Anche lei Vendola si astenga e rispetti il dolore: non risulta agli atti pubblici che abbia mai prodotto qualcosa di serio contro la guerra e lasci riposare in pace don Tonino Bello. Prego: qualcuno dei più alti in grado dello Stato maggiore – magari anche un semplice generale di divisione – rinfreschi la memoria al ministro della difesa Ignazio la Russa.

In Afghanistan i tornado del sesto stormo di stanza a Ghedi (BS) – dove gli Usa custodiscono illegalmente, contro la volontà popolare bombe nucleari modello b 61, col beneplacito dei vari governi tricolore – sono armati con ordigni bellici. Parola del generale Carlo Jean (nel 2003 voleva imporre il deposito unico di scorie nucleari alla Lucania per conto della Sogin e di Berlusconi): “Occorre smettere di considerare la pace come una specie di diritto acquisito, garantito dall’art. 11 della Costituzione, ma di fatto delegato ad altri.
Occorre considerare le Forze Armate anzichè come mezzi indispensabili per qualsiasi pace possibile…”. A crepare sono quasi sempre i figli del Sud, come ai tempi dell’annessione del Mezzogiorno.

domenica 10 ottobre 2010

Metti una sera al campino col PD!

L’altra sera al campino c’era un incontro pubblico, indetto dal PD, dove il sindaco e gli assessori presenti, illustravano la situazione della scuola pubblica, facevano un quadro della crisi, poi avrebbero parlato dei problemi legati alla frazione.
Finalmente, mi sono detto, un occasione per dare la parola ai cittadini su cosa va e non va, un’amministrazione vicina ai suoi cittadini pronta ad ascoltarli, invece come al solito è stato un monologo dove i cittadini ascoltano in silenzio “ la ricetta per uscire dalla crisi”.

L’incontro non è stato altro che una auto proclamazione di quanto gli amministratori del PD sono bravi, di quanto riescono a tenere sotto controllo il bilancio del comune, che con il patto di stabilità, è risaputo, non è permesso loro di fare alcunché, se non opere pubbliche faraoniche, per milioni di euro, di cui ovviamente le strade e circonvallazioni, ne fanno da padrone, e poi ponti per servire mirabolanti nuove zone di produzione, che porteranno il benessere della comunità ovviamente.
Poi nuove costruzioni di edilizia residenziale, che in questa zona sinceramente mancavano, tanto che la moglie di un consigliere di maggioranza si girava verso di me apostrofandomi “ ma quando la smetteranno di costruirci case qui, che non ci si rigira più?”, come se io potessi farli smettere!!!
Infine hanno avuto il tempo di parlare del nuovo centro civico che dovrà sorgere accanto a quello esistente, e della casa dell’acqua che verrà fatta entro l’anno, per darci un contentino.

Fin qui tutto bene, anche se non sapevo che si fosse in campagna elettorale.
Il problema è nato quando, finiti i proclami, alcune persone, compreso io, siamo intervenuti, e ovviamente da semplici cittadini, non sudditi, abbiamo fatto delle domande semplici, forse banali, ma siamo cosi, ci basta poco, siamo gente concreta, abbiamo chiesto se era possibile, oltre alle circonvallazioni e alle case, prevedere un po’ di marciapiedi, dove mancano, qualche giochino e panchina in più nel parchetto pubblico, e far funzionare l’illuminazione dove non funziona, qui ovviamente è cambiato il tono della voce, non era più benevolo e ammaliante da comizio, e la risposta è stata: “non possiamo mica fare un giardino in ogni frazione, e poi le panchine e i giochi se dovessimo metterli a tutti quelli che ce lo chiedono quante ce ne vorrebbero!!, il comune non è in grado di questi tempi di accontentare tutti, facciamo degli sforzi enormi, e rivolti a me hanno apostrofato: il consigliere Polato dovrebbe saperlo bene che non è possibile, come a richiamarmi ai miei doveri, quindi accontentatevi!!,

Come non detto, comunque se nel piano delle opere pubbliche vengono previsti dei capitoli di spesa più corposi per l’arredo urbano, poi si ritrova, non pensavo che le spese di bilancio di un comune andasse in crisi per alcune panchine, per un po’di giochini in più, o per qualche albero da piantare dove non ce ne sono.

Addirittura per sostenere questa tesi e farci sentire in colpa delle richieste che avevamo fatto il Sindaco a preso a raccontarci una storia; prendiamo ad esempio l’IRPEF, che è il l’imposta sulle persone fisiche, sul comune di Monteriggioni è lo 0,40, mentre l’IRPEF del comune di Castelnuovo Berardenga è lo 0,80, quindi, ha concluso il Sindaco: lo stesso cittadino con lo stesso reddito ma nel comune di Castelnuovo paga il doppio!!, bisogna ringraziare e zitti, prendere quello che passa il convento!!
Ovviamente, molte persone, dopo questo discorso, sono andate a casa più col pensiero dell’IRPEF al 0,40 che alle risposte elusive che il sindaco e l’assessore avevano dato senza trovare risposta.

Anche questa volta il PD ha perso un occasione per essere vicino alla gente, è inutile chiedere la parola se le risposte sono sempre le solite, non c’è soldi, non possiamo garantire tutti i sevizi, ci saranno dei rincari, e via scorrendo, nemmeno uno che abbia risposto con “ un vedremo”, oppure uno che abbia preso una nota per un piccolo problema sollevato, in fondo si chiedeva di risolvere dei piccoli problemi.

venerdì 8 ottobre 2010

I costi standard e il servizio differenziato sulla sanità

Il governo ha approvato la bozza di decreto sui costi standard in sanità. Saranno applicati solo dal 2013 e potrebbero aprire la strada a tagli al budget del Sistema sanitario nazionale. Ma la vera sorpresa è che i costi standard diventano irrilevanti per la ripartizione dei fondi e per stimolare l'efficienza delle Regioni, tanto che lo stesso risultato si può ottenere applicando qualsiasi costo standard, basso o alto.

Il governo ha approvato la bozza di decreto sui costi standard in sanità. La buona notizia è che saranno applicati solo dal 2013, la cattiva notizia è che potrebbero aprire la strada a tagli al budget del Sistema sanitario nazionale. Ma il vero scoop è che i costi standard non c’entrano proprio nulla con il calcolo dei fabbisogni regionali di spesa. Tanto che la stessa quota regionale si ottiene sia applicando un costo standard basso (delle Regioni più virtuose) sia uno elevato.

LA SIMULAZIONE
Si è simulata la ripartizione delle risorse disponibili per il 2012 (che si suppone siano uguali a quelle del 2010: 102 miliardi) secondo i nuovi criteri, per semplicità senza suddividerle per i tre livelli essenziali di assistenza (Lea) indicati.
I passaggi logici della bozza di decreto si possono così riassumere:

1) il costo standard è rappresentato dalla spesa media ponderata delle tre Regioni più “virtuose” , su una rosa di cinque;

2) sono le Regioni che nel secondo esercizio precedente hanno chiuso il bilancio in pareggio e rispettato i parametri di qualità, appropriatezza ed efficienza;

3) la spesa benchmark coincide con il finanziamento ordinario, perché si escludono sia le entrate da sforzo fiscale autonomo, sia le spese per prestazioni oltre i Lea;

4) il finanziamento pro-capite, che serve da costo standard, è quello ponderato per classi di età (ad esempio, nel 2010 la Campania ha ricevuto 1.636 euro pro-capite e la Liguria 1.861 euro);

5) in via teorica, il requisito dell’equilibrio di bilancio si può riscontrare sia in Regioni con alti livelli di spesa sia in Regioni con bassi livelli di spesa (ed è quindi casuale);

6) se il costo standard, calcolato sulle Regioni virtuose, fosse inferiore alla media nazionale e applicato sic et simpliciter a tutte le Regioni, i fondi disponibili potrebbero apparire eccessivi: ad esempio, il budget potrebbe essere di 99 miliardi. Viceversa, se fosse superiore, risulterebbero insufficienti, e servirebbero 106 miliardi;

7) a prescindere da ciò, conta la percentuale di ogni Regione sul valore teorico ottenuto dalla moltiplicazione tra il costo standard e la popolazione regionale pesata (art. 22, comma 6, lett. e, comma 8), che si applica al budget del nuovo anno (art. 22 comma 9), fissato dal “Patto per la salute”, i 102 miliardi nell’esempio.
Ma così facendo il costo standard non diviene altro che una costante moltiplicativa della popolazione pesata (vedi colonne 5 e 7 della tabella), per cui la quota di finanziamento regionale riflette solo la percentuale di popolazione pesata rispetto alla popolazione nazionale.

Il costo standard diventa perciò irrilevante per la ripartizione dei fondi e per stimolare l’efficienza delle Regioni, tanto che lo stesso risultato si può ottenere applicando qualsiasi costo standard, basso o alto.
Ne risulta che i costi standard non sono i veri meccanismi per l’assegnazione delle risorse sanitarie alle Regioni. Il decreto sembra prigioniero dei suoi stessi limiti, dovuti all’identificazione dei costi standard con i finanziamenti standard e alla definizione di “virtuosità” basata principalmente sul pareggio di bilancio.

Se si fa coincidere il costo standard efficiente con il finanziamento delle Regioni con popolazione più giovane, Lombardia e Veneto per esempio, solo perché chiudono il bilancio in pareggio, e poi lo si applica anche a quelle con popolazione più anziana, si entra in un circolo vizioso. E si commette una grave ingiustizia sul piano dei diritti. Di sicuro, il metodo proposto del governo non porta al risultato sperato.

martedì 5 ottobre 2010

Con la Fiom a Roma, contro l’eversione del capitale

Fra meno di due settimane, sabato 16 ottobre, la Fiom chiamerà a raccolta, in quella che già si annuncia come un’imponente manifestazione di popolo, tutte le forze sociali che nella necessità di respingere l’attacco furibondo alle conquiste e ai diritti dei lavoratori vedono la via maestra per impedire che si compia la più devastante rottura democratica dell’era repubblicana.

Occorre dire che di un simile rischio vi è, anche a sinistra, solo parziale consapevolezza. O meglio, dello smottamento democratico si coglie l’aspetto più immediatamente politico e morale: la degenerazione corruttiva della coalizione di governo, il potere dispotico, personale, del capo del governo che travolge l’intera architettura costituzionale, l’oltraggio sistematico alla legalità, il disprezzo ostentato per ogni procedura democratica e l’assalto liquidatorio ai poteri indipendenti che rifiutano di sottomettersi all’esecutivo. Si coglie meno, e nel Pd non si coglie affatto, quello che con chiarezza e semplicità esemplari Oscar Lafontaine, fondatore della Linke, ricordava in un recente dibattito svoltosi alla festa della Federazione della Sinistra, e cioè che domina nella sfera politica chi domina nei rapporti sociali. E che se questi sono caratterizzati dallo sfruttamento e dall’unilateralità del comando d’impresa, la politica non potrà autonomizzarsene ed anzi finirà per divenirne lo specchio fedele.

Ancora ieri, qualche giornale di area democratica titolava, in prima, «Eversore», epiteto impresso sul faccione torvo di Berlusconi. E a ragione. Dubito tuttavia che quella stessa grave espressione verrebbe usata per qualificare il comportamento di Marchionne. All’amministratore delegato della Fiat, capintesta della crociata contro il lavoro e a Confindustria, la cui parola è ormai ascoltata con la deferenza che si deve ad un organo istituzionale, non si rivolge lo stesso capo d’accusa.

Una volta era nozione di senso comune, maturata nella concreta esperienza di milioni di persone, che l’affermazione della democrazia dentro i luoghi di lavoro, le conquiste frutto del conflitto operaio, si riverberassero a 360 gradi sull’insieme della società, rendendola più giusta, più civile, più coesa. Difendendo gli interessi dei lavoratori - si diceva - si difendono gli interessi generali del Paese.Non vi era ombra di dubbio sul significato pregnante dell’articolo 1 della Costituzione, che coniuga non casualmente la democrazia con il lavoro, riconoscendo ai produttori associati una funzione quasi demiurgica per l’inveramento dei precetti della Carta. Oggi no. Il rovesciamento è stato diametrale.

L’impresa e la regola ferrea, sebbene non scritta, che ne informa i comportamenti, quella della competitività, hanno occupato interamente il proscenio, unendo destra e sinistra moderata nel culto dell’ideologia neo-mercatista. Quella in ragione della quale si è accreditato Marchionne come l’interprete genuino della modernità ai tempi della globalizzazione e si è accettato che il posto di lavoro fosse messo in concorrenza con i diritti.

La fortuna della destra in tutta Europa e specialmente nel nostro Paese ha molte convergenti ragioni. Ma l’egemonia culturale del capitale, la “costituzionalizzazione“ del mercato è ciò che ne ha più di ogni altra cosa legittimato la funzione dirigente. L’impotenza di fronte alla crisi planetaria è la più plateale confessione di un disarmo culturale che ha sin qui impedito alla sinistra di candidarsi alla guida di una grande riforma economica e sociale. Una riforma che o passa attraverso un profondo mutamento dei rapporti di produzione, o ha la forza di riproporre la questione divelta del carattere sociale della proprietà, oppure è destinata ad insabbiarsi, perdere di vigore e rinculare nell’alveo del riformismo, trasformista e subalterno.

La Fiom ha preso nelle proprie mani e proposto alla sinistra la precondizione di questo necessario salto di paradigma: l’affermazione dell’ irriducibilità del lavoro al capitale. Per questo viene ferocemente combattuta dal potere costituito e dal groviglio di interessi di cui esso è espressione. Per questo il successo dell’appuntamento del 16 ottobre, al quale offriremo tutto il nostro sostegno, rappresenterà molto più che la buona riuscita di una pur importante manifestazione.