Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

sabato 31 dicembre 2011

In anteprima il vero discorso di fine anno del Presidente Napolitano!!

Care italiane e italiani. Ho deciso per questa sera, e in via del tutto eccezionale di parlare fino alla mezzanotte, tanto sono consapevole che almeno un quarto di voi non farà il tradizionale cenone, un altro 50% si accontenterà di un piatto di pasta col tonno e due olive, mentre una parte piccola ma che mi sta molto a cuore del Paese se la spassa nelle mete esotiche e non ha tempo di ascoltare la mia omelia.
Lo so… il momento è difficile. Anche io, sto pagando duramente la crisi e stasera avrò con me un cameriere in meno, ma tagliare le spese è necessario e voglio dare l’esempio. È stato un anno duro. Pensavo di poter continuare a dormire serenamente e invece mi è toccato firmare, firmare e firmare un sacco di fogli che mi portava in continuazione il precedente premier.
Avevo fretta, dovevo riflettere sui 150 anni dell’Unità d’Italia e non potevo certo mettermi a sfogliare leggi e leggine. Per un mese intero, fra il novembre e il dicembre del 2010 ho avuto un forte crampo alla mano, a furia di firmare, tanto che le malelingue che sempre abbondano da queste parti, hanno sostenuto si trattasse di un pretesto per dare il tempo al Presidente Berlusconi di acquistare alcuni parlamentari e mantenere in vita il governo.
Ma la Storia dimenticherà simili illazioni e si ricorderà di come, sprezzante del pericolo e del caldo estivo, io sia tornato a firmare, firmare e firmare, manovre e correzioni di bilancio, anche mentre molti compatrioti stavano beatamente a riposo. Cosa? Non in ferie ma disoccupati o in cassa integrazione? Beh, sempre di riposo si tratta.
Poi mi è toccato anche l’infausto compito di traghettare il Paese, una fatica non da poco per uno della mia età, verso questo nuovo governo di banchieri che mi ha spiegato come garantendo alle banche di poter continuare a speculare si possa salvare l’Italia. Io ad essere sincero non ci avevo capito molto, stavo facendo la pennica pomeridiana, ma mi sono fidato di questo signore col loden e ho contribuito così al benessere del Paese.
Non ho ancora ben capito con quale analcolico si faccia lo spread e perché schizzi sempre, ogni sera, prima di coricarmi, vado a rassicurare i mercati e in fondo mi sento ringiovanito. Così giovane che sto già pensando di restare in questa casetta di sole 1200 stanze per altri 7 anni. Si costa più di Buckingam Palace ma ne va dell’immagine del Paese che mi è tanto caro. Mi è tornata la stessa voglia di lavorare di quando ero iscritto al PCIA ( una sezione particolare del PCI) e facevo le scarpe a Berlinguer, ora sto cercando di unire il paese in un unico grande partito, che copra quasi l’intero arco parlamentare. Mi piacerebbe lasciare solo poche briciole a quelli col fazzoletto verde, che altrimenti non posso andare oltre Bologna e levarmi dalle scatole anche i guastafeste alla Di Pietro e compagnia, come sono riuscito a fare, grazie al fido Veltroni e alle loro nefaste abitudini, con i comunisti. Per il prossimo anno care e cari italiani vi preparerò una bella nuova legge elettorale, moderna e adatta a farci stare in Europa.
Potranno votare tutti, anche i cittadini stranieri a patto che abbiano un reddito non inferiore a quello di Pato ( noto giocatore del Milan) e avranno diritto di cittadinanza anche i bambini immigrati nati e cresciuti in Italia come doveva già permettere una legge emanata nel 1998 da due ministri uno dei quali mio omonimo.
L’estensione del diritto di voto ovviamente – dovendo fare sacrifici – comporterà la riduzione del numero dei partiti, che saranno 1. Intendo poi aiutare il governo nella riforma del diritto del lavoro. Ha ragione l’onorevole Bersani quando dice che l’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non va toccato. Si sta operando per abolire infatti l’intero Statuto e sostituirlo con una legge composta da un solo articolo che recita pressappoco così “Io sono il padrone e faccio quello che mi pare”. Ne guadagneremo in competitività. Raddoppieremo le missioni militari e i finanziamenti alle scuole private, come richiestomi da Sua Santità, in compenso, ci sarà un drastico taglio alle spese inutili come ospedali e scuole pubbliche, pensioni, salari e interventi in favore di precari e disoccupati. Spero solo che i sindacati non vogliano alimentare pretestuose motivazioni per alzare il conflitto sociale. Non ne vedo la ragione, Bonanni e Angeletti sono disponibili ad inginocchiarsi ad un tavolo, forse anche la Camuso, la vedo più dura con quel comunista di Landini.
Spero solo che non mi tocchi scassarmi l’anno anche stavolta con referendum, movimenti, studenti sfaticati ecc… e che soprattutto non si facciano rivedere più in giro quelli con la falce e martello. Sono sessanta anni che tento di levarmeli dalle scatole e tornano ogni volta, si infiltrano dappertutto, pretendono addirittura la libertà di informazione e di tenere in vita i loro giornali con i soldi pubblici. Ma non è meglio spenderli per un bel cacciabombardiere ultimo modello che per Liberazione?

Autore: stefano galieni

lunedì 26 dicembre 2011

Lettera a Babbo Natale: perché i ricchi in Italia non pagano?


Venti docenti di economia chiedono a Monti perché la ricchezza “liquida” – titoli, depositi, investimenti finanziari – sfugge del tutto alla manovra. È annullata così la pretesa di equità con cui il governo si era presentano agli italiani. Una brutta storia di Natale, su cui vale la pena discutere

Spett. Direttore, i firmatari di questa lettera sono tutti docenti universitari di economia. Chiediamo ospitalità ad alcuni giornali, fra cui il suo, per rivolgere al Presidente Monti una domanda che riteniamo piuttosto importante. Ci auguriamo che lui stesso o qualche altro esponente del governo vorrà darci risposta.
La domanda è questa: perché nella manovra economica da poco approvata non è presente una seria tassazione di tipo patrimoniale della ricchezza mobiliare? Si tratta di un'assenza conturbante, in quanto questo provvedimento avrebbe alcuni ovvi vantaggi. In primo luogo potrebbe fornire un gettito sostanzioso: secondo i dati ufficiali dell'Associazione Italiana Private Banking, "Il valore della ricchezza investita nel private banking in Italia nel 2010 ha superato i livelli pre-crisi, al livello più alto da sempre, con 896 miliardi". Questa naturalmente è solo una parte dell'imponibile. Aliquote anche molto miti consentirebbero di mantenere inalterata l'indicizzazione delle pensioni, con ovvi guadagni di equità e riducendo drasticamente gli effetti recessivi della manovra. Infine è il caso di sottolineare il guadagno di consenso che il governo ne ricaverebbe, per effetto della maggiore equità del prelievo complessivo della manovra; ed è noto come il consenso sia un capitale prezioso nei momenti di difficoltà.
Ciò che soprattutto ci preoccupa come economisti è però che accanto a questi ovvi effetti positivi non riusciamo a vederne di negativi. In altri termini, ci sembra che non vi sia alcun motivo di efficienza che possa giustificare l'assenza del provvedimento che auspichiamo. È diffusa fra l'opinione pubblica la convinzione che tale assenza dipenda solo da ragioni di iniquità, e cioè dalla volontà di proteggere i redditi alti scaricando il peso del riequilibrio dei conti su quelli più bassi. Vogliamo sperare che non sia così; ma per fugare ogni dubbio è essenziale che il governo fornisca una spiegazione chiara e convincente. E anche sincera. Una motivazione che circola ufficiosamente, e cioè che non sia possibile sapere dove si trova la ricchezza mobiliare, è smentita dai dati che abbiamo citato più sopra, nonché da quelli forniti dalla relazione della Banca d’Italia sulla ricchezza delle famiglie italiane nel 2010. Né si può dire che la manovra così com’è preveda implicitamente un serio intervento sulla ricchezza mobiliare: il gettito proveniente dalla tassazione dei capitali scudati e dei beni di lusso ammonta solo al 6% della manovra complessiva netta, e al 4% delle maggiori entrate. Neanche la motivazione che non è possibile tassare la ricchezza mobiliare perché questa fuggirebbe all'estero è credibile. Come dimostrano i dati sul private banking, la ricchezza mobiliare dei cittadini italiani più ricchi è enorme, e non è certamente una tassazione con una piccola aliquota che li indurrebbe a trasferirne surrettiziamente la proprietà a prestanome stranieri. Al rischio che una patrimoniale di tal fatta possa colpire anche i risparmi della classe media si può facilmente porre rimedio stabilendo un’equa quota esente, che renderebbe oltretutto l’imposta progressiva. Possibili problemi di liquidità per il pagamento dell'imposta sarebbero facilmente evitabili concedendo adeguate (ma non eccessive) rateizzazioni.
In sostanza, ci sembra che ci siano molti argomenti a favore di una tassazione con un’aliquota non predatoria dei grandi patrimoni mobiliari, che non ci siano validi argomenti contrari sul piano dell'efficienza economica e che non vi siano rilevanti ostacoli di natura tecnica tali da impedirne l’adozione. Un chiarimento sulle ragioni della sua assenza dalla manovra sarebbe quindi opportuno.
Confidando in un'autorevole risposta, e ringraziandoLa per la sua ospitalità,

Giovanni Balcet (università di Torino)
Piervincenzo Bondonio (università di Torino)
Giorgio Brosio (università di Torino)
Roberto Burlando (università di Torino)
Paolo Chirico (università di Torino)
Ugo Colombino (università di Torino)
Alessandro Corsi (università di Torino)
Bruno Dallago (università di Trento)
Silvana Dalmazzone (università di Torino)
Aldo Enrietti (università di Torino)
Mario Ferrero (università del Piemonte Orientale)
Magda Fontana (università di Torino)
Ugo Mattei (università di Torino)
Letizia Mencarini (università di Torino)
Guido Ortona (università del Piemonte Orientale)
Matteo Richiardi (università di Torino)
Lino Sau (università di Torino)
Francesco Scacciati (università di Torino)
Roberto Schiattarella (Università di Camerino)
Vittorio Valli (università di Torino)

venerdì 16 dicembre 2011

Sabato in piazza da antifascisti e antirazzisti, con Ferrero



Ieri Pape Diaw scriveva "non riesco a trovare le parole giuste per Ringraziare tutti voi, per la vicinanza e l’affetto. Il dolore è ancora molto forte, nei prossimi giorni ne parleremmo insieme. Ne approfitto per lanciare un appello a tutt* per la manifestazione di Sabato, vogliamo una bella marcia pacifica e silenziosa per il rispetti dei nostri morti". Questo è il bellissimo testo che convoca il corteo, diffondiamolo e troviamoci tutt* in piazza Dalmazia alle 15:

"I nostri fratelli Mor Diop e Samb Modou sono stati assassinati dalla violenza razzista; vittime dell’odio xenofobo, lucido e determinato. Vittime della manifestazione estrema di un razzismo che diventa quotidiano e umilia sistematicamente la nostra dignità.
La strage del 13/12 a Firenze necessita di una risposta ampia e plurale, che esprima lo sdegno per i barbari assassinii e la ferma volontà di operare concretamente perché simili fatti non si ripetano.
E' però necessario che non ci si limiti all'abbraccio solidale verso la comunità colpita ed allo sdegno di un giorno.
Occorre andare più a fondo e individuare tutte e tutti insieme come si è costruito nel tempo il clima che rende possibile l'esplodere della violenza razzista (il 13 a Firenze, due giorni prima a Torino con il pogrom contro i Rom, per limitarci ai due ultimi gravissimi episodi), in che modo siano stati dati spazi, per disattenzione e/o per complicità, ai rigurgiti nazi-fascisti tipo Casa Pound, quale ruolo abbiano avuto in questa escalation non solo i veleni sparsi dalle forze "imprenditrici" del razzismo, ma anche gli atti istituzionali, che, a livello nazionale e locale, hanno creato, in nome dell'ordine e della sicurezza, discriminazioni e ingiustizie.
Urgono esami di coscienza da parte di politici, amministratori, operatori dei media, esponenti della cultura rimasti troppo a lungo in silenzio.
Per cambiare strada:
- intervenendo sul piano culturale e della formazione del senso comune,
- avendo come punto di riferimento costante il riconoscimento dei diritti sociali, civili e politici dei migranti, dei richiedenti asilo, dei profughi, a cominciare dal riconoscimento della cittadinanza a chi nasce sul suolo italiano e dal diritto di voto alle elezioni amministrative (sulle relative proposte di legge d'iniziativa popolare si stanno raccogliendo attualmente le firme),
- dando piena applicazione al dettato costituzionale con la chiusura immediata dei luoghi e dei siti come Casa Pound, dove si semina l'odio e si incita alla violenza.
E' tempo di prendere atto che si sta correndo verso il baratro.
Bisogna che tutte le energie positive, che credono nella costruzione di una città e di un Paese della convivenza e della solidarietà, si mobilitino unite per fare barriera contro l'inciviltà, il razzismo, l'intolleranza.
Nel 1990 Firenze fu teatro di spedizioni punitive contro gli immigrati.
Vi fu una reazione popolare, che dette luogo ad una grande manifestazione di carattere nazionale.
Ebbene, facciamo un appello rivolto a tutte le persone di buona volontà, nella società e nelle istituzioni, perchè anche questa volta si dia vita, sabato 17/12, ad una manifestazione, ampia, partecipata, pacifica, non violenta, veramente di popolo, dalle dimensioni non solo cittadine.
Una manifestazione che segni una svolta e l'inizio di un cammino nuovo, onorando le persone uccise e ferite in quella tragica giornata e collegandoci alla giornata internazionale contro il razzismo che si celebra il giorno dopo."

Coordinamento Regionale dei Senegalesi in Toscana

La strage del 13/12 a Firenze necessita di una risposta ampia e plurale, che esprima lo sdegno per i barbari assassinii e la ferma volontà di operare concretamente perché simili fatti non si ripetano. E' necessario che non ci si limiti all'abbraccio solidale verso la nostra comunità colpita ed alla partecipazione al nostro dolore solo per un giorno.

Occorre andare più a fondo e individuare tutte e tutti insieme come si è costruito nel tempo il clima che rende possibile l'esplodere della violenza razzista come è avvenuto il 13 dicembre a Firenze e solo due giorni prima a Torino con il pogrom contro un insediamento Rom. Bisogna interrogarci su come siano stati dati spazi, per disattenzione e/o per complicità, ai rigurgiti nazi-fascisti di gruppi come Casa Pound, quale ruolo abbiano avuto in questa escalation non solo i veleni sparsi dalle forze "imprenditrici" del razzismo, ma anche gli atti istituzionali che, a livello nazionale e locale, hanno creato, in nome dell'ordine e della sicurezza, discriminazioni e ingiustizie.

Chiediamo l’impegno di tutte e tutti per cambiare strada, intervenendo sul piano culturale e della formazione del senso comune, promuovendo il rispetto della dignità di ogni persona.

E’ necessario avere come punto di riferimento costante il riconoscimento dei diritti sociali, civili e politici delle persone immigrate, dei rifugiati e richiedenti asilo e dei profughi, eliminando i molti ostacoli istituzionali che contribuiscono a tenere in condizione di marginalità la vita di molti migranti in Italia.

Occorre dare piena applicazione al dettato costituzionale e alle leggi ordinarie che consentono la chiusura immediata dei luoghi e dei siti come Casa Pound, dove si semina l'odio e si incita alla violenza xenofoba.

Bisogna che tutte le energie positive, che credono nella costruzione di una città e di un Paese della convivenza e della solidarietà, si mobilitino unite per fare barriera contro l'inciviltà, il razzismo, l'intolleranza.

Nel 1990 Firenze fu teatro di spedizioni punitive contro gli immigrati e vi fu una reazione popolare, che dette luogo ad una grande manifestazione di carattere nazionale.

Facciamo un appello rivolto a tutte le persone di buona volontà, nella società e nelle istituzioni, ad unirsi a noi, in una manifestazione ampia, partecipata, pacifica, non violenta e contro la violenza, di carattere nazionale.

Una manifestazione che segni una svolta e l'inizio di un cammino nuovo, onorando le persone uccise e ferite in quella tragica giornata e capace di affermare in modo inequivocabile: mai più atti di barbarie come la strage del 13 dicembre.


Rispetto agli eventi di Firenze abbiamo già espresso la nostra posizione. In questi giorni Firenze e la Toscana vivono una risposta di orgoglio antifascista e antirazzista. I compagni dei Giovani Comunisti, assieme al Partito e alla Federazione della Sinistra, sono presenti su tutto il territorio a distribuire volantini e informare su cosa è Casa Pound. Fortunatamente l’agibilità dei fascisti è ridotta nella nostra regione ma quel poco spazio che hanno è già troppo, come gli eventi di questa settimana hanno dimostrato. Si tratta di lavorare quotidianamente, anche quando i riflettori dei media si saranno spenti. Denunciare la copertura politica che hanno certi ambienti, dimostrare ciò che sta dietro ad abili comunicati e innocue facciate. Per sabato il Coordinamento Regionale dei Senegalesi in Toscana ha lanciato un appello, a cui si collega la manifestazione con partenza alle 15.00 in piazza Dalmazia. Saremo presenti, insieme al Segretario nazionale Paolo Ferrero e con i nostri volantini, senza bandiere, con un solo striscione, nel rispetto della comunità senegalese. Preferiamo la militanza e la presenza al clamore, per costruire una reale alternativa alla società in cui viviamo. A tutti i compagni che sabato raggiungeranno Firenze l’invito a cercare il nostro striscione, presente dalle 14.45 in piazza Dalmazia, lasciando a casa le bandiere e dandoci una mano nel volantinaggio.

Dmitrij Palagi (Coordinatore Regionale GC Toscana)
Andrea Malpezzi (segretario provinciale PRC-Firenze)

giovedì 15 dicembre 2011

Famiglie sempre più indebitate


Redditi in calo, prezzi in salita, tariffe in cielo. Le famiglie italiane alle prese con i debiti, riducono i consumi. E se ne accorge anche Bankitalia.

La crisi ha un po' limato la ricchezza degli italiani. Ovviamente chi era ricco è rimasto ricco, mentre i contraccolpi sono arrivati per i ceti medio bassi. A dirlo è Bankitalia nel tradizionale «Supplemento al bollettino statistico» dedicato alla «Ricchezza delle famiglie». I dati di sintesi ci dicono che il 10% delle famiglie più ricche possiede il 45% della ricchezza complessiva che, alla fine del 2010, in cifra lorda, ammontava a 9.525 miliardi di euro, poco meno di 400 mila euro a famiglia, ma almeno 10 volte di più per le famiglie al «vertice».

Le attività reali rappresentavano il 62,2% delle ricchezza lorda e le attività finanziarie il 37,8%. A fronte di questa ricchezza lorda stanno passività finanziarie per 887 miliardi di euro, il 9,3% delle attività complessive. La ricchezza netta complessiva ammontava, quindi, a 8.640 miliardi in diminuzione del 3,2% dai massimi del 2007.

Fra la fine del 2009 e la fine del 2010 la ricchezza è rimasta invariata, ma a prezzi costanti (depurata, cioè, dell'inflazione) si è ridotta dell'1,5%. Quella in abitazioni, alla fine del 2010, era stimata in 4.950 miliardi (circa 200 mila euro) con un aumento dell'1% in termini nominali e una flessione dello 0,5% a prezzi costanti. Complessivamente le attività reali (oltre alle abitazioni, anche gli oggetti di valore, terreni impianti, ecc) sono aumentate dell'1,1%, ma sono state compensate da una diminuzione delle attività finanziarie (-0,8%) e da un aumento del 4,2% delle passività.

Questo significa che moltissime famiglie hanno aumentato il loro indebitamento per compensare la caduta dei redditi e per cercare di mantenere inalterati i consumi. Secondo stime preliminari, nel primo semestre 2011 la ricchezza delle famiglie sarebbe leggermente aumentata in termini nominali (0,4%) per effetto di un aumento delle attività sia reali (1,2%) sia finanziarie (0,4%). Ma, ancora una volta, le passività sono aumentate: + 5,4%. E questo significa che anche nei primi sei mesi dell'anno le famiglie sono state costrette a aumentare il loro indebitamento.

Il numero di famiglie con una ricchezza netta negativa, alla fine del 2008 è pari al 3,2%. Una percentuale in lieve ma graduale crescita dal 2000 in poi. A proposito di ricchezza in abitazioni, a prezzi correnti, è cresciuta tra la fine del 2009 e la fine del 2010 dell'1% (circa 48 miliardi di euro), ma la crescita è stata molto inferiore al tasso medio annuo del periodo 1995-2009 (circa il 5,9%), a causa del rallentamento delle quotazioni immobiliari.

Per quanto riguarda le attività finanziarie, invece, il 43,2% era detenuto in obbligazioni private, titoli esteri, prestiti alle cooperative, azioni e altre partecipazioni e quote di fondi comuni di investimento. Il contante, i depositi bancari e il risparmio postale rappresentavano, invece, «il 30% del complesso delle attività finanziarie» mentre «la quota investita direttamente dalle famiglie in titoli pubblici italiani era pari al 5%».

L'aumento di circa 8 punti percentuali della quota di attività finanziarie in obbligazioni private italiane (dal 2,4 al 10,2 per cento) di quella in riserve tecniche di assicurazione (dal 10 al 18,6 per cento) sono state compensate dalla forte contrazione delle quote di attività finanziarie in depositi bancari e in titoli pubblici italiani (rispettivamente dal 30,2 al 18,3 e dal 18,9 al 5 per cento). Sul versante delle passività, a fine 2010 quelle finanziarie erano costituite «per circa il 41% da mutui per l'acquisto dell'abitazione» mentre «la quota di indebitamento per esigenze di consumo ammontava a circa il 13,6 per cento».

Un dato interessante riguarda la distribuzione sui depositi bancari che, purtroppo, si ferma al 2007. Ci dice che «il 57% dell'intero ammontare detenuto dalle famiglie afferiva a conti di importo inferiore a 50 mila euro; circa il 39% era compreso tra i 50 e i 250 mila euro», mentre il 13% dei conti bancari dell'ammontare era in conti correnti di importo superiore ai 250 mila euro.

Secondo Bankitalia la comparazione evidenzia una «spostamento piuttosto marcato dalla classe inferiore in favore di quella più elevata».
Ancora più interessante è il dato sui «conti titoli» a fine 2010 presso le banche. Quelli fino a 50 mila euro ammontavano al 34,8%; quelli tra i 50 mila e i 250 assommavano al 35,5%; il 10,3% tra 250 e 500 mila euro e il 19,8% oltre i 500 mila euro. Un dato che indica chiaramente dove si nasconde la vera ricchezza e che dovrebbe sollevare interrogativi su come si è formata.

Galapagos da "il manifesto"

mercoledì 14 dicembre 2011

L'art.6 della manovra cancella causa di servizio, la pensione privilegiata e l'equo indennizzo per chi si ammala al lavoro nel settore pubblico


Nei contratti, di solito, son quelle scritte in piccolo, in fondo al testo. E sono delle fregature. Nel caso della manovra del governo Monti, invece, era in bella mostra, ma sembra che non se ne sia accorto nessuno.

L'articolo 6 del Decreto Legge 6 dicembre 2011 n. 201 "Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici" varato dall'esecutivo recita: ''Ferma la tutela derivante dall'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, sono abrogati gli istituti dell'accertamento della dipendenza dell'infermità da causa di servizio, del rimborso delle spese di degenza per causa di servizio, dell'equo indennizzo e della pensione privilegiata. La disposizione di cui al primo periodo del presente comma non si applica nei confronti del personale appartenente al comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico. La disposizione di cui al primo periodo del presente comma non si applica, inoltre, ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché ai procedimenti per i quali, alla predetta data, non sia ancora scaduto il termine di presentazione della domanda, nonché ai procedimenti instaurabili d'ufficio per eventi occorsi prima della predetta data''.

Di botto vengono cancellate cause di servizio ed equo indennizzo. Che tradotto in soldoni, lascia senza tutela e senza speranza di vedersi riconosciuto in giudizio un equo risarcimento le persone che si sono ammalate al lavoro.
I casi sono tanti, migliaia, in particolare per due categorie: coloro che vengono fatti oggetto di mobbing sul posto di lavoro e coloro che si ammalano per essere stati a contatto con l'amianto.

Cgil, Cisl e Uil, per lunedì 19 dicembre, hanno indetto uno sciopero del settore pubblico contro la manovra Monti, ma non appare nessun riferimento all'articolo 6 nei comunicati della mobilitazione. Anche su tutti i principali quotidiani nazionali non c'è traccia della norma. Ma la gravità della decisione, che salva solo i dipendenti pubblici del '' comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico'', pare passare inosservata.

Gli istituti tagliati sono tipici del rapporto di pubblico impiego. La causa di servizio è costituita dalla sussistenza di un rapporto di causalità tra la prestazione lavorativa effettuata ed una determinata infermità. Al fine di determinarne l'esistenza viene effettuato un giudizio medico-legale teso ad accertare il nesso tra la minorazione ed il servizio. Scompare anche la pensione privilegiata introdotta nel 1973, attribuita al lavoratore pubblico se in conseguenza dell'infermità o della lesione derivante da fatti di servizio ha comportato l'inabilità assoluta o permanente. Infine svanisce l'equo indennizzo, che è uno speciale emolumento avente natura indennitaria e per tali ragioni cumulabile sia con il risarcimento del danno che con il trattamento di pensione privilegiata, attribuito al dipendente pubblico nel caso in cui questi abbia subito una patologia riconosciuta dipendente da causa di servizio.

''Questa norma colpirà tutti quelli che si ammalano lavorando. Compresi i malati di amianto'', ha commentato l'avvocato Ezio Bonanni, presidente dell'Osservatorio Nazionale Amianto.


Christian Elia

lunedì 5 dicembre 2011

Interrogazione su Pian del Lago


Interrogazione con risposta orale e scritta, ai sensi dell’articolo 19 del regolamento del Consiglio Comunale




Oggetto: Relazione tra la messa a coltivazione del terreno demaniale in loc. Pian del Lago e la richiesta di spandimento di pollina palabile.



Il primo dicembre, sul Corriere di Siena è uscito un articolo su Pian del Lago.

C'era tutto il rammarico perchè la zona, demaniale, da sempre patrimonio di tutti, “area verde e punto di riferimento per chi voleva trascorrere una giornata all'aria aperta”, è stata data in concessione e messa a coltivazione, facendo scomparire un pezzo di storia del nostro territorio.


Non è certo la messa a coltivazione di un terreno che ci può spaventare, semmai è capire cosa viene usato come fertilizzante in una zona ad alta sensibilità per la falda acquifera presente nel sottosuolo.

Infatti, lo scorso 11 Agosto al Comune di Monteriggioni è arrivata una richiesta di autorizzazione, da parte dell'agricola Papa Andrea, di Desenzano sul Garda ( Brescia ), all'utilizzazione agronomica di effluenti di allevamento (pollina palabile) per 286 mc, pari a 128 tonnellate di concime da spandere nel nostro territorio, proveniente dall'allevamento di galline ovaiole, da parte dell’ azienda Benedetti Ivan e Mauro, con sede legale in Comune di Travagliato (Brescia) e ubicazione dell'allevamento in comune di Corzano (Brescia) Cascina Bissi.


Non vorrei che la zona interessata dalla messa a coltivazione coincidesse con la richiesta di spandimento di pollina da parte dell'agricola Papa Andrea.

C’è il serio rischio che la zona possa diventare una discarica autorizzata di rifiuti pericolosi.

Pian del Lago non è solo “patrimonio di tutti per le scampagnate”, ma patrimonio fondamentale per la falda acquifera che si trova nel sottosuolo, tanto che la stessa rifornisce il deposito di San Dalmazio e da lì distribuita agli abitati di Tognazza, Fornacelle, San Martino, Uopini e non ultimo Badesse, con una densità abitativa di circa 3000 persone.


Considerato:


Che le prescrizioni imposte all’azienda, “di garantire da ogni possibile tipo di inquinamento le acque superficiali e sotterranee, nonché il suolo e la vegetazione da ogni degrado ambientale”,

sono difficili da monitorare;


Che ci sono pubblicazioni, riguardo alla salute pubblica, che mettono in relazione l’epidemia di aviaria con lo stoccaggio e spandimento di escrementi di pollame e sulle conseguenze irreversibili dell'inquinamento delle falde acquifere;


Che negli allevamenti intensivi, spesso, vengono usati antibiotici, ormoni o altri medicinali che attraverso le feci finiscono nei terreni inquinandoli ed entrano poi nella catena alimentare;


Che l'articolo n°26 delle NTA del Piano Strutturale di questo ente, disciplina al titolo 1 che sono vietati qualsiasi uso o attività in grado di generare, in maniera effettivamente significativa, l'infiltrazione nelle falde di sostanze inquinanti.

Interrogo il Sindaco e la Giunta per sapere:



- Se la richiesta pervenuta all'amministrazione da parte dell'agricola Papa Andrea

per lo spandimento della pollina è stata autorizzata, se sì, la determina firmata

dall'ufficio competente che ha permesso ciò;

- L'esatta ubicazione in cartografia, scala 1:2000, degli estratti catastali indicati

nella richiesto per lo spandimento, cioè il foglio 100 , mappa 14 e mappa 15 e

la classificazione dell’area secondo l’NTA del Piano Strutturale;


- Se l’Arpat e l’ASL sono state interpellate per il controllo dei rischi sulla salute umana,

per i motivi sopra esposti:

inquinamento della falda, inquinamento della catena alimentare a causa degli

antibiotici, ormoni od altro…;


- Se non ritiene che le prescrizioni imposte all’azienda siano poco credibili in quanto

risulta molto difficile garantire il non inquinamento delle falde quando si spande

letame in aree di elevata vulnerabilità;


- Se l'amministrazione nella sfera delle sue competenze può intervenire per bloccare

e/o ritirare il permesso allo spandimento della pollina.




Gianni Polato

Consigliere lista comunista di Monteriggioni.


venerdì 2 dicembre 2011

Le falde acquifere di Pian del Lago e l'inquinamento da pollina .


Sul Corriere di Siena il primo dicembre è uscito un articolo su Pian del Lago.

C'era tutto il rammarico dei cittadini, perchè la zona, demaniale, da sempre patrimonio di tutti, “area verde e punto di riferimento per chi voleva trascorrere una giornata all'aria aperta”, è stata data in concessione e messa a coltivazione, facendo scomparire un pezzo di storia del nostro territorio.

Toni rassicuranti sull’articolo del 2 dicembre, da parte del sindaco di Monteriggioni, Bruno Valentini, che tranquillizza i cittadini, perchè un'altra zona sarà destinata alle scampagnate, con tanto di sentieri staccionate e fontanelli dell'acqua potabile per essere fruibile da tutti, perché come si evince, la parte interessata verrà concimata per la coltivazione dell'avena e non potrà più essere a disposizione di tutti.

Gianni Polato consigliere comunale di rifondazione comunista di Monteriggioni interviene sulla discussione che da alcuni giorni tiene banco sul Corriere di Siena per Pian del Lago precisando alcune cose, informazioni e punti di vista che non sono stati nemmeno sfiorati, provando a guardare i fatti da un altro punto di vista, cercando di portare un contributo alla discussione che sicuramente i cittadini apprezzeranno.

Non è certo la messa a coltivazione di un terreno che ci può spaventare, semmai è capire chi coltiva cosa, e sopratutto cosa viene usato come fertilizzante, perchè lo scorso 11 Agosto al Comune di Monteriggioni è arrivato una richiesta di autorizzazione, da parte dell'agricola Papa Andrea, di Desenzano sul Garda ( Brescia ), all'utilizzazione agronomica di effluenti di allevamento (pollina palabile) per 286 mc, pari a 128 tonnellate di concime da spandere nel nostro territorio, proveniente dall'allevamento di galline ovaiole , da parte della Azienda Benedetti Ivan e Mauro, con sede legale in Comune di Travagliato (Brescia) e ubicazione dell'allevamento in comune di Corzano (Brescia) Cascina Bissi.

Non solo il Pian del Lago è “patrimonio di tutti per le scampagnate”, ma patrimonio di tutti per le risorse fondamentali che si trovano nel sottosuolo, le falde acquifere che riforniscono il deposito di San Dalmazio che serve gli abitati di Tognazza, Fornacelle, San Martino, Uopini e non ultimo Badesse, con una densità abitativa di circa 3000 persone.


Non vorrei che la zona interessata dalla messa a coltivazione coincidesse con la richiesta di spandimento di pollina da parte di Papa Andrea, una richiesta che ci deve far riflettere.

Perché l’azienda agricola di Brescia cerca dei terreni agricoli demaniali in affitto, e non terreni privati da lavorare in conto terzi, come si usa in molte situazioni?Perché la scelta è ricaduta sulla regione Toscana e non sulla regione Lombardia, dove risiedono le due aziende, con costi minori?

Perché contemporaneamente alla richiesta di spandimento della pollina da parte dell’azienda agricola Papa Andrea al Comune di Monteriggioni è stata fatta richiesta anche al Comune di Sovicille, sempre in terreni demaniali, e anche lì in prossimità di acquiferi fondamentali come il “Luco” che rifornisce Siena!

Forse spandere la pollina altrove è una soluzione ai problemi di inquinamento da allevamenti intensivi di galline ovaiole che la regione Lombardia si trova ad affrontare oggi, con terreni saturi di azoto, nitrati e antibiotici, con pozzi inquinati e costi di bonifica enormi e non semplicissimi.

Forse lo stoccaggio e lo smaltimento della pollina hanno costi sicuramente maggiori e usarlo, come del resto è stato fatto sino ad oggi, come semplice concime è molto più facile e meno oneroso, la differenza di oggi è che conosciamo le conseguenze sull'uso massiccio della pollina come concime per la facilità di contaminazione del terreno e di conseguenza il passaggio nelle falde acquifere.

Anche il PTC provinciale pone severe limitazioni sugli spandimenti di fanghi e concimi nulle zone di sensibilità 1 come sono gli acquiferi.

Non possiamo accontentarci di risposte elusive sulla nostra salute, è un prezzo troppo alto che non possiamo permetterci, tanto che il gruppo consiliare di Monteriggioni ha preparato un'interrogazione che pone queste domande e l'amministrazione dovrà dare risposte esaustive sulle problematiche sollevate.

Gruppo consiliare comunista di Monteriggioni.




giovedì 17 novembre 2011

Opposizione al governo Monti per costruire la sinistra di alternativa

Prc Documento della direzione nazionale 16/11/2011

«1) La caduta del governo Berlusconi è un fatto molto positivo che segna un passaggio assai rilevante nella vicenda del nostro paese. La crisi della destra è precipitata nell'incapacità a fare fronte efficacemente alla speculazione finanziaria ma è maturata nel corso di questi anni nell'impossibilità - all'interno della crisi - di garantire la mediazione tra interessi diversi all'interno delle classi dominanti e di mantenere un largo consenso di massa. Ci troviamo di fronte al fallimento dell'ipotesi politica che ha maggiormente caratterizzato la Seconda Repubblica.

2) Per sancire la fine del governo Berlusconi avevamo chiesto, prima delle consultazioni del Presidente della Repubblica, e continueremo a chiedere fino al voto di fiducia, l'immediata convocazione delle elezioni politiche anticipate e di affrontarle attraverso la costruzione di un fronte democratico tra le forze di sinistra e di centro sinistra. Questa proposta avrebbe permesso e permetterebbe ancora di sconfiggere le destre attraverso l'esercizio democratico dell'espressione della volontà popolare e di determinare il quadro politico migliore sia per quanto riguarda la difesa e lo sviluppo della democrazia che per quanto riguarda le scelte di politica economica, scongiurando la sciagurata ipotesi del governo Monti.

3) Il Presidente della Repubblica sta operando per sostituire al governo Berlusconi un governo Monti. La motivazione, utilizzata ai limiti della correttezza democratica, è data dall'emergenza prodotta dalla speculazione finanziaria. Il tentativo evidente è quello di neutralizzare gli effetti del fallimento del governo Berlusconi, evitando qualsiasi spostamento a sinistra dell'asse del governo in merito alle politiche economiche. Si tratta di una sorta di commissariamento dell'Italia da parte della Bce, uno dei frutti del vero e proprio colpo di stato monetario che stiamo subendo. Si tratta di una scelta sciagurata, condotta con il coinvolgimento pieno del Pd, destinata a produrre effetti negativi sul piano democratico, su quello sociale come su quello politico. Sul piano democratico, perché, dopo l'imputridimento della quadro politico determinato da Berlusconi, per rigenerare la democrazia è necessario ridare la parola al popolo. Al contrario con la scelta del governo Monti, cioè di un governo iperliberista mascherato da governo tecnico, il popolo viene declassato a spettatore passivo delle scelte delle elites. Sul piano sociale, perché il programma di Monti sarà centrato sull'applicazione delle nefaste direttive europee e farà peggio di quanto avrebbe fatto un governo di centrosinistra frutto di libere elezioni. Sul piano politico perché il governo Monti permetterà alle destre di rigenerarsi in vista delle prossime elezioni e di porre le condizioni per una chiusura più stringente del bipolarismo.

4) Se il governo Monti dovesse avere la fiducia del Parlamento, Rifondazione Comunista ritiene necessario costruire la più ampia opposizione - da sinistra - al governo medesimo. Contro ogni ipotesi di patto sociale, occorre costruire una opposizione che sappia unire le rivendicazioni specifiche con la richiesta di una modifica generale delle politiche economiche europee, in direzione di una uscita a sinistra dalla crisi. La costruzione della Costituente dei beni comuni, la qualificazione programmatica, con l'attivazione delle energie intellettuali disponibili e l'attivazione di concreti percorsi di lotta, sono gli elementi che devono caratterizzare questa prospettiva sia a livello nazionale che a livello locale. Rifondazione Comunista, sostiene lo sciopero generale indetto dai sindacati di base per il 17 novembre, la manifestazione dei movimenti per l'acqua pubblica del 26 novembre, la manifestazione nazionale indetta dalla CGIL per il 3 dicembre.

5) Parimenti l'eventuale nascita del governo Monti pone con ancora maggiore urgenza il tema della aggregazione della sinistra di alternativa che abbiamo messo al centro della proposta politica del documento congressuale. Per questo, nell'immediato, come partito e come Federazione della Sinistra, proponiamo alle altre forze politiche che si oppongono a Monti di costruire un patto di consultazione permanente al fine di rendere più efficace la battaglia di opposizione. Riteniamo però necessario fare un salto di qualità in questa direzione e operare affinché l'opposizione all'eventuale governo Monti diventi opposizione costituente della sinistra di alternativa. Il governo Monti, in quanto tentativo di stabilizzazione moderata di gestione della crisi, costituisce infatti il punto di discrimine per una sinistra che si ponga l'obiettivo dell'alternativa. Mai come in questo momento risulta evidente la distanza strategica tra le due sinistre e la necessità di aggregare, in forma stabile, la sinistra di alternativa che si pone l'obiettivo di sconfiggere le politiche neoliberiste.

6) La crisi del governo Berlusconi ci consegna la possibilità e la necessità di operare, a livello di massa, per il passaggio dall'antiberlusconismo all'antiliberismo. In questi anni, le caratteristiche specifiche del berlusconismo hanno condizionato fortemente le culture politiche dell'opposizione. Nell'antiberlusconismo convivono varie culture politiche e varie ipotesi politiche. Nel momento della crisi di Berlusconi, le classi dirigenti hanno utilizzato strumentale l'antiberlusconismo al fine di legittimare il neoliberismo austero di Monti. Questo significa che oggi si apre una lotta per l'egemonia nell'antiberlusconismo. I poteri forti lo vogliono sviluppare nel senso liberale e liberista, noi dobbiamo fare una battaglia per svilupparlo in senso antiliberista e socialista. Dobbiamo cioè agire consapevolmente affinché il senso di delusione che verrà prodotto dalle politiche economiche e sociali dell'eventuale governo Monti su larghi strati popolari antiberlusconiani, non diventi ripiegamento e non produca ulteriore disgregazione sociale. La capacità di costruire un percorso in cui si passi dall'antiberlusconismo generico ad una più chiara coscienza anticapitalista è un nostro preciso compito politico.

7) In questo quadro, ribadendo la nostra lotta strategica contro il bipolarismo, vogliamo costruire un partito che sappia vivere, discutere e svilupparsi senza essere deformato da una centralità assorbente del piano istituzionale. Non perché questo non abbia una grande rilevanza politica - al contrario - ma perché se il bipolarismo costituisce una condizione istituzionale funzionale alla distruzione delle forze politiche antisistema, noi dobbiamo conquistare un grado di autonomia strategica dal bipolarismo che ci permetta di fare politica senza esserne fagocitati. Occorre quindi costruire consapevolmente un Partito della Rifondazione Comunista che non abbia nella discussione sui passaggi istituzionali il centro della sua vita politica.

Si tratta di superare definitivamente l'idea che la sconfitta del berlusconismo e la costruzione dell'alternativa possa avvenire attraverso un percorso di delega al quadro istituzionale. Non è così. Il nostro progetto politico di costruzione della sinistra di alternativa al fine di determinare le condizioni per uscire a sinistra dalla crisi implica l'attivazione dei soggetti in carne ed ossa, implica la costruzione di una soggettività di massa non basata sul principio di delega. Il compito del partito è quindi quello di mettere in pratica la sua linea politica avendo chiara la centralità del lavoro sociale, culturale e di aggregazione politica, al fine di favorire la costruzione di un protagonismo di massa. Il compito del partito, a fronte del carattere tecnocratico, oligarchico, antidemocratico della risposta delle elitè dominanti alla crisi, della cesura crescente tra capitalismo e democrazia, è quello di adoperarsi nel nostro paese e a livello europeo, per lo sviluppo del movimento antiliberista.»

La direzione Nazionale del Partito della Rifondazione Comunista - Sinistra Europea

sabato 5 novembre 2011

Altro che larghe intese. Un’alternativa c’è, a sinistra


In queste ore concitate, il dibattito e l’informazione a senso unico sulla “tempesta finanziaria” che si è scatenata al solo annuncio che la democrazia potesse irrompere con un referendum popolare nella prateria del mercato globale, sembrano travolgere ogni cosa. Tra queste, prima di tutte, l’idea stessa che possa esserci un’altra via di uscita.

E allora è il caso di rifare il punto e ragionare. Riepilogando… La Bce chiede all’Italia “misure” per tagliare spesa sociale, diritti, pensioni, impiegati pubblici e stipendi; chiede di eliminare tutele dai licenziamenti e lo stesso contratto nazionale di lavoro; chiede di privatizzare i servizi pubblici e svendere beni e patrimoni collettivi. Confindustria e gran parte degli schieramenti di maggioranza e opposizione, purtroppo con pochi e timidi distinguo, aderiscono convinti al “manifesto” della Bce e sollecitano il governo ad attuarlo.

Napolitano invita a fare in fretta e ad una “larga condivisione” delle misure di rigore a senso unico. Bersani e Casini, si dichiarano pronti a fare “responsabilmente” la propria parte. Industriali e banchieri intimano al premier: «interventi immediati o dimissioni». Berlusconi, che ha già annunciato di voler obbedire ai dettami della troika, si appresta ora a varare queste misure infami. Le sue residue esitazioni sono solo legate al timore di perder voti ed alla paura di scivoloni in Parlamento.
Il nostro destino sembra dunque oramai segnato: o ci massacra Berlusconi, come da anni sta facendo, o lo farà una nuova squadra di governo “di larghe intese” che si sta già scaldando a bordo campo.
Invece è proprio questa l’ora di dire basta! E’ ora soprattutto di fare capire che un’alternativa c’è. E’ ora di spiegare che le direttive della Bce, oltre ad impoverire e precarizzare coloro che già pagano la crisi, possono generare solo recessione e peggiorare lo stato dell’economia.
Questo insensato modo di procedere è il frutto avvelenato di maniacali logiche predatorie e dell’inammissibile presa d’atto che dentro l’attuale modello non ci sono soluzioni per la crisi da esso stesso generata.
Un’alternativa pertanto è indispensabile per salvarci dal baratro.

Prima di tutto è necessario ed è possibile bloccare la speculazione finanziaria, cambiando trattati e regole per consentire che i “debiti sovrani” possano essere garantiti dalla Bce e dagli organismi dell’Ue. Così com’è indispensabile tornare alla netta distinzione tra banche commerciali (finalizzate al credito) e banche d’affari (speculative). Inderogabili, altresì, la tassazione delle transazioni finanziarie e il blocco delle famigerate vendite di titoli “allo scoperto”.

Il Governo italiano, insieme ai Governi dei Paesi sotto attacco, può e deve rivendicare ciò. Così come può chiedere e ottenere una radicale e selettiva ristrutturazione del debito, tagliando ad esempio quello nei confronti dei fondi speculativi e delle banche che hanno beneficiato degli aiuti pubblici per poi tornare a speculare.
Rinegoziare il debito è giusto, necessario e possibile, perché questo debito non è cresciuto, come qualcuno afferma, per sostenere un «tenore di vita generale» più alto delle possibilità. Esso si è in realtà gonfiato di sprechi e privilegi, spese militari, grandi opere dannose, finanziamenti a imprese che poi delocalizzano, licenziano, precarizzano il lavoro. Ed è continuato a galoppare a causa degli interessi a tasso da usura applicati ad esso (ci costano oramai 100 miliardi l’anno!).

E’ necessario rinegoziarlo perché “onorarlo” oltre che ingiusto appare materialmente impossibile. Infatti, anche ammesso di raggiungere il pareggio di bilancio, la quota di interessi da versare per pagare il debito così com’è comporterebbe una crescita del Pil a due cifre, che non registrano neppure i Paesi Bric.

E’ possibile rimetterlo in discussione perché la sua consistenza costituisce, paradossalmente, uno strumento di ricatto nei confronti di chi vuole imporci il massacro sociale, in quanto la nostra insolvenza improvvisa e generalizzata travolgerebbe tutte le economie europee, l’Euro e la stessa Ue.

In secondo luogo, c’è bisogno di aprire nuove linee di credito (tramite eurobond, nuova moneta, tobin tax) per la riconversione ecologica dell’economia: massicci investimenti sulla conoscenza, grandi piani industriali e programmi nazionali, sull’energia da fonti diffuse e rinnovabili, sui trasporti e la mobilità sostenibile, sull’agricoltura biologica, sull’efficienza energetica degli immobili pubblici e privati, sulla difesa del territorio da frane ed esondazioni. Per rilanciare una diversa economia è indispensabile però determinare subito una drastica redistribuzione della ricchezza attraverso politiche fiscali che colpiscano i grandi patrimoni immobiliari e finanziari, l’evasione e i paradisi fiscali.

In terzo luogo, occorre rendersi conto che in un mondo in cui ogni sera siamo 250.000 esseri umani in più del giorno prima non ci sarà futuro se l’uso delle risorse, il “cosa–come-per chi produrre”, sarà guidato dalle spietate logiche del mercato, dell’immediato e massimo profitto. E’ indispensabile, quindi, che la politica recuperi il potere che essa stessa ha deliberatamente ceduto ai mercati, alla finanza.

Che siano democratizzati i meccanismi stessi della rappresentanza, tornando ad un sistema elettorale proporzionale ed inclusivo e strutturando strumenti e processi volti a coinvolgere ad ogni livello cittadini, lavoratori, utenti, nelle scelte sui beni comuni ed i servizi che attengono i diritti basilari. Per un’alternativa a questo moribondo e barbaro sistema è indispensabile, in sostanza, un rinnovato e democratico ruolo pubblico nell’economia, come indicato ampiamente nel titolo III della nostra Costituzione che non a caso è pesantemente sotto attacco in questi tragici momenti.

L’alternativa quindi esiste. Ma è certamente fuori da questo modello economico e sociale. E’ possibile imboccarla, ma non certo procedendo, più o meno velocemente, sui binari dell’obbedienza al “pensiero unico liberista”.

Massimo Rossi - coordinatore nazionale Federazione della Sinistra

mercoledì 19 ottobre 2011

"15 ottobre: un fallimento su cui discutere seriamente. No a nuove leggi di polizia"








di Giorgio Cremaschi


E’ inutile nasconderlo o minimizzarlo: il 15 ottobre c’è stata in Italia la più grande manifestazione tra quelle realizzate in tutto il mondo ed è finita in un disastro.

> Noi, che siamo tra coloro che l’hanno promossa e organizzata, abbiamo il dovere di scusarci con tutte e tutti coloro che sono venuti lì per manifestare e basta. Non siamo stati in grado di garantire ad essi l’esercizio di questo loro diritto. Una minoranza, non è importante quanto vasta, ma comunque nettamente tale, si è impadronita della manifestazione e l’ha trasformata sul piano militare, sul piano mediatico e su quello politico in un'altra cosa.

> Questo è per me il punto centrale, poi naturalmente ci sono le singole responsabilità, gli atti di devastazione inaccettabili, così come anche gli scontri in piazza San Giovanni, ove le cariche della polizia hanno finito per coinvolgere tutte e tutti coloro che volevano manifestare. Se vogliamo fare una riflessione politica, dobbiamo sottolineare che questo è stato il senso della giornata: un esproprio di democrazia, coperto dagli scontri, quando doveva essere esattamente il contrario.

> Per questo sono contrario a minimizzare, così come respingo le reazioni ipocrite del palazzo. L’Italia è un paese con una democrazia malata, dove nelle istituzioni, nel parlamento, stanno persone incriminate per reati gravissimi, che considerano la magistratura una forza eversiva. L’illegalità in questo paese comincia dall’alto e, senza per questo giustificare nulla, è evidente che questo apre la via alla rottura e alla sfiducia anche violente. Per questo la risposta non può essere la negazione della realtà. I giovani che sfasciavano tutto, e che hanno aggredito prima di tutto il corteo e la manifestazione, vanno affrontati prima di tutto come un problema politico.

Sono assolutamente contrario alla proposta di Di Pietro e Maroni di nuove leggi di polizia, questo sì sarebbe il modo per precipitare in rotture da fine anni Settanta. E’ evidente che chi ha provocato gli incidenti aveva una totale sfiducia nella funzione e nella efficacia delle grande manifestazione. E’ di questo che bisogna discutere, naturalmente con tutto il rigore necessario. Bisogna che i movimenti sappiano validare con una discussione democratica le scelte che compiono. Bisogna che ci siano le assemblee, le sedi aperte e trasparenti ove si decidono quali sono i criteri e le forme organizzate delle manifestazioni e ove si chiarisce che chi non li rispetta è estraneo ad essa.

Questa è la questione di fondo, rispetto alla quale non ci sono scorciatoie. O sappiamo affrontare questa crisi dei nostri movimenti e delle nostre lotte con un confronto aperto e con una pratica democratica vera, oppure rischiamo di veder travolte la nostra forza e le nostre ragioni. E’ molto facile, di fronte a questa crisi economica, alla disperazione che produce, alla chiusura e alla crisi della nostra democrazia, che cresca lo spazio per azioni di carattere disperato. Se vogliamo impedirlo dobbiamo maturare in fretta e, senza ipocrisie, assumerci la responsabilità dei fallimenti. E il 15 ottobre in Italia lo è stato.
>
> Roma, 17 ottobre 2011








giovedì 6 ottobre 2011

La grande rapina della privatizzazione dell’acqua


La grande rapina della privatizzazione dell’acqua. Che cosa insegna all’Italia il caso inglese

Anticipiamo il testo dell’introduzione all’edizione italiana dello studio di David Hall ed Emanuele Lobina – ricercatori del PSIRU (Public Services International Research Unit) dell’Università di Greenwich – “Da un passato privato ad un futuro pubblico. La privatizzazione del servizio idrico in Inghilterra e nel Galles”, edizioni Aracne (di prossima uscita).

di Tommaso Fattori

Questo rigoroso studio sugli effetti della “più grande rapina legalizzata” della storia britannica – definizione del quotidiano conservatore Daily Mail – contiene elementi importanti per il dibattito sulla privatizzazione del servizio idrico che sta attraversando il nostro paese, grazie all’iniziativa referendaria “2 sì per l’acqua bene comune” promossa da una vastissima coalizione sociale.

Un dibattito nel quale colpisce l’astrattezza ideologica delle tesi dei privatizzatori, aggrappati a modelli economici irreali, talvolta per l’ingenuità tipica di chi vive asserragliato nell’accademia senza contatto con il mondo esterno, più frequentemente per i forti interessi materiali connessi ai processi di privatizzazione. L’astrattezza di queste argomentazioni, spesso comicamente ammantate di pragmatismo, rifiuta con ostinazione di confrontarsi con i dati di fatto e con l’esperienza empirica, là dove i processi di privatizzazione del servizio idrico integrato siano avanzati e consolidati da anni. Anzi, sono proprio alcune esperienze di privatizzazione “riuscita”, come quella inglese o gallese, ad essere portate ad esempio da chi evidentemente non ha idea di ciò di cui sta discettando o confida nell’ignoranza di chi ascolta. Non è un mistero che in Italia il modello inglese venga portato ad esempio tanto dal governo di centro-destra che da parte dell’ opposizione, soprattutto perché consente di pronunciare una parola magica di gran moda: authority. L’authority, intesa come autorità indipendente di regolazione e controllo, appare alle menti neoliberiste un’entità quasi metafisica, che tutto dovrebbe risolvere all’interno di un mercato monopolistico privatizzato, coniugando armoniosamente il profitto di pochi e l’interesse generale. David Hall ed Emanuele Lobina mostrano invece, con dati incontrovertibili, come la mitica authority dell’acqua –più precisamente si tratta dell’Office of Water Service (Ofwat)- non sia affatto in grado di regolare o controllare alcunché, per limiti strutturali ed insuperabili di questo meccanismo, lasciando alle società private la possibilità di ricavare immensi profitti e di distribuire agli azionisti lauti dividendi attraverso la gestione monopolistica dell’acqua. Il servizio idrico è a domanda anelastica (la stessa quantità vitale d’acqua è necessaria ad una famiglia in tempi prosperi e in tempi di crisi, ai ricchi e ai poveri) ed è un servizio fondamentale perchè permette concretamente l’accesso ad un bene comune essenziale ed insostituibile per la vita. Un bene che dovrebbe riguardare la sfera dei diritti fondamentali è così consegnato al dominio dei profitti. L’authority finisce per essere una mera foglia di fico, che copre e legittima questo processo di spoliazione.

Hall e Lobina evidenziano come l’ente regolatore Ofwat sia stato continuamente raggirato dai gestori privati, che, nel migliore dei casi, hanno intascato extraprofitti riducendo gli investimenti programmati (ossia già pagati in tariffa dai cittadini). I casi più gravi non sono però emersi grazie al controllo di Ofwat ma perchè denunciati, a posteriori, dagli stessi autori dei misfatti, pentiti e decisi a svelare i meccanismi messi in piedi a danno dell’interesse generale. Negli scandali che hanno coinvolto Severn Trent, ad esempio, “l’informatore” è stato un ex manager che ha ammesso d’aver ricevuto l’ordine di alterare dati rilevanti al fine d’ottenere dal regolatore un aumento delle tariffe. Una vicenda che ha poi permesso di scoprire, attraverso successive confessioni, come una gran mole di dati forniti dalle società private ad Ofwat fossero falsi o gonfiati: dai dati sulle perdite di rete fino a quelli sulla consistenza reale delle morosità. Tutto ciò non fa che corroborare la tesi dell’impossibile governo e controllo pubblico delle gestioni privatizzate, avvolte nel guscio del diritto privato e regolate dal diritto societario. Un’impossibilità, aggiungerei, che non dipende tanto dalla cattiva volontà di singoli individui o da limiti organizzativi contingenti ma da fenomeni strutturali, come le “asimmetrie informative”: le conoscenze rilevanti si trovano tutte in mano al gestore (il gestore “sa” perché “fa”) ed è il gestore privatizzato che trasmette le informazioni sensibili al controllore, il quale non può che dipendere, nella sua attività di regolazione e controllo, da questi dati. Altrimenti detto, il gestore ha strutturalmente maggiori informazioni rispetto al regolatore e cerca di trarre il massimo vantaggio da questa asimmetria conoscitiva, a discapito del pubblico interesse. “Fare” significa “sapere” e sapere significa “potere”: nessun ente regolatore potrà mai recuperare quel cumulo di conoscenze legate alla gestione diretta che migra inevitabilmente dalla sfera del pubblico alla sfera del privato nel momento stesso in cui viene privatizzato un servizio essenziale. Il pubblico perde le conoscenze necessarie per esercitare il proprio controllo nel momento in cui è all’impresa che passa tanto il “fare” che il “saper fare” (know how), che gli è inscindibilmente connesso. Un soggetto regolatore esterno, per esempio, non può essere in grado di avere perfetta conoscenza dei processi produttivi e delle tecnologie impiegate, dati necessari per stabilire con precisione i costi di produzione del gestore privato. Ecco perché al fenomeno delle asimmetrie informative segue automaticamente la “cattura del regolatore”: se l’autonomia conoscitiva del regolatore è limitata, anche la capacità di giudizio e intervento viene impedita, così l’ente che dovrebbe regolare e controllare tende piuttosto ad adeguare le sue analisi alle interpretazioni offerte dai gestori, perdendo ogni neutralità e schiacciando il proprio punto di vista su quello dei soggetti controllati. Oltretutto, gli enti regolatori si devono solitamente rapportare a società privatizzate la cui governance effettiva è in mano a grandi soggetti multinazionali, che entro la società hanno il reale potere decisionale. Il caso inglese gallese trova quindi un perfetto pendant nell’esperienza italiana, dove le Aato, ossia le autorità di ambito che dovrebbero regolare e controllare i gestori, non sono affatto riuscite a regolare le società privatizzate, adeguandosi sostanzialmente alle richieste e alle esigenze dei controllati, a partire da quelle relative alla definizione delle tariffe. Agli albori della privatizzazione in Italia vi è il caso dell’Ato aretino, in Toscana, dove alla fine degli anni ’90 la gestione fu affidata tramite gara ad una società mista, con all’interno una cordata di privati guidati dalla multinazionale francese Suez. Proprio ad Arezzo il presidente dell’autorità di controllo si dimise dal suo incarico denunciando l’impossibilità di regolare la società privatizzata e rilevando la “debolezza endemica del rapporto pubblico-privato” [1] all’interno di una società mista, per quanto formalmente a maggioranza pubblica. In Italia il governo s’appresta nel 2011 a sostituire le autorità d’ambito territoriali con un’authority regolatrice nazionale sul modello inglese, ma si tratta di uno specchietto per le allodole: privatizzare il servizio idrico significa consegnare di fatto saperi e poteri alle gestioni privatizzate, come l’esperienza d’oltremanica mostra in modo limpido.

Qualcuno potrebbe ottimisticamente sostenere che in Italia la nuova ondata di privatizzazione dell’acqua offrirà maggiori garanzie perché intende muovere da premesse diverse: a differenza del modello inglese e gallese analizzato da Hall e Lobina, il modello di privatizzazione italiano dovrebbe prevedere, in origine, l’affidamento della gestione ad operatori privati tramite gara (o, in alternativa, l’ingresso di soci privati nelle Spa in house almeno con il 40% di partecipazione nel pacchetto azionario, soci da individuare sempre tramite procedura ad evidenza pubblica). Le gare potrebbero pur esser vinte da società di capitali interamente pubbliche, si aggiunge, come per velare ed occultare la logica privatrizzatrice del provvedimento [2], il cui obiettivo immediato è spazzar via proprio le gestioni in house. Lo si sarà facilmente intuito, in questo caso la nuova parola magica è gara: come se la gara potesse mutare d’incanto un pervicace “monopolio naturale” – in ogni territorio passa un solo acquedotto e c’è un solo fornitore possibile – in un mercato concorrenziale. Invece il monopolio naturale si trasforma così in un solido monopolio privato, con vita peraltro assai lunga, solitamente ventennale o trentennale (addirittura 50 anni in Inghilterra e Galles, dove sono state privatizzate persino le infrastrutture). Per sua natura il servizio idrico non può essere liberalizzato ma solo privatizzato e l’esperienza, ancora una volta, dimostra come la “concorrenza per il mercato” (il meccanismo di gara), che nella teoria dovrebbe compensare e risarcire l’assenza di un’impossibile “concorrenza nel mercato”, si riveli solo l’evanescente copertura per l’ingresso di soggetti privati a caccia di rendite garantite in un mercato monopolistico. Lo dimostra l’esperienza internazionale ma anche italiana, dato che le offerte presentate in occasione di gare effettuate nel nostro paese sono state una o due al massimo: il mercato dell’acqua privatizzata è dominato da oligopoli e questi pochi attori si mettono d’accordo fra loro per spartirsi rendite monopolistiche, come accaduto fra le presunte “concorrenti” Acea e Suez nelle gare realizzate in Italia nel decennio passato. L’Autorità antitrust, nel 2007, multò le due multinazionali “per aver posto in essere un’intesa restrittiva della concorrenza (…), che ha avuto per oggetto e per effetto un coordinamento delle rispettive strategie commerciali nell’ambito del mercato nazionale della gestione dei servizi idrici”. Più precisamente “l’istruttoria ha consentito di verificare che Acea e Se (Suez ndr) hanno raggiunto sin dal 2001 un accordo di massima sul coordinamento delle rispettive attività nel settore dei servizi idrici. In particolare, le parti hanno concordato la partecipazione congiunta a numerose gare relative a gestioni idriche in Italia – a partire da quelle bandite in Toscana, dove la forma operativa del PPP è stata adottata per la prima volta in maniera estesa (…) – ovvero combinazioni con soggetti terzi al fine di condizionare gli esiti di procedure ad evidenza pubblica (gare, ndr)”. Né sarebbe stato difficile immaginarlo, dal momento che la quota di capitale azionario di Acea in mano alla “concorrente” Suez è sempre stata consistente (nella primavera del 2011 la partecipazione è salita addirittura dal 10 all’11,5%). Il fine di questa alleanza era evidente: “un simile accordo di cooperazione (…) è stato volto a mantenere ed aumentare il rispettivo potere di mercato secondo criteri di mera strategia imprenditoriale e non di maggior efficienza industriale”. Suez non intendeva “lasciare Acea ad approfittare da sola dei margini realizzabili nel settore non regolamentato”: “obiettivo: utilizzare Acea come ‘braccio armato’ di Suez per l’acqua in Italia.” [3]

Per un altro verso, non esiste un solo economista (in grado di separarsi, anche per un istante, dagli amatissimi modelli astratti), che non conosca la banale verità: nel servizio idrico, dove gli affidamenti durano decenni, non sono mai possibili gare che permettano di valutare con attendibilità quale sia la migliore offerta economica, perché i termini fondamentali del contratto dovranno essere necessariamente rivisti nel tempo e ha ben poca importanza l’offerta avanzata in origine. In altre parole, tutti gli elementi economicamente determinanti su cui basare la scelta -a partire dagli investimenti e dalle tariffe- dovranno essere rinegoziati svariate volte dopo la gara, nel corso del lungo periodo d’affidamento del servizio. In gare di questa natura conta l’arbitrarietà e la discrezionalità di chi sceglie ma ancor più conta la forza ed il potere dei soggetti economici privati che si propongono per la gestione del servizio. Sarà poi il gestore che avrà ottenuto l’affidamento ad essere, nel corso delle successive rinegoziazioni, in posizione dominante (detenendo sapere e potere), anche se trovasse di fronte a sé il miglior regolatore al mondo. Insomma, la pragmatica Thatcher, nel demolire i servizi pubblici, ha almeno evitato ai poveri inglesi la ridicola pantomima della gara.

I privatizzatori sostengono inoltre che l’arrivo dei privati porti di per sé un aumento degli investimenti nel settore, per la ristrutturazione degli impianti e per la realizzazione di nuove infrastrutture (in Italia soprattutto per la depurazione delle acque reflue). Per innescare un simile meccanismo virtuoso, si dice, basta legare i profitti agli investimenti: se il privato tanto più investe quanto più guadagna, sarà spinto ad investire moltissimo, perseguendo il proprio interesse che si tradurrà anche in beneficio per tutti. Certo, le bollette si alzerebbero, sia perché gli investimenti vanno pagati interamente in tariffa (in base al sistema del full cost recovery), sia perché è giusto “premiare”, con i legittimi profitti, l’investitore privato; ma se il gestore privato risultasse efficiente, s’aggiunge, potrebbe diminuire i costi operativi e così i cittadini quasi non s’accorgerebbero del profitto e dei dividendi privati caricati sulle tariffe. Il caso inglese e gallese dimostrerebbero bene la realizzabilità di un simile miracolo, viene spesso ribadito. Se invece dal magico mondo dei modelli astratti torniamo all’esperienza del mondo reale, vediamo che le cose non stanno così, né mai potrebbero stare così. Innanzitutto, a proposito di profitti occorre una premessa: chiunque abbia dimestichezza con i processi di privatizzazione sa bene quali e quanti modi vengano utilizzati normalmente dai privati dell’acqua per ottenere profitti ed extra-profitti, fra cui, ad esempio, il travestire da investimenti spese che nelle gestioni pubbliche figuravano più onestamente in bilancio come voci per normalissimi costi di gestione ordinaria; spacciare per consulenze e trasferimento di know-how quelli che invece sono “utili anticipati” per i soci privati; affidare appalti a società direttamente o indirettamente controllate o collegate, senza passare da gara (spezzettando l’appalto in più parti quando si tratti di lavori superiori ai 4,8 milioni di euro). Ma è necessario porci la domanda di fondo: davvero sono i privati a far partire gli investimenti? Cosa ci insegna, in proposito, il famoso caso inglese-gallese? Hall e Lobina mostrano chiaramente due cose. La prima è che il motore degli investimenti in Inghilterra e Galles è stata più semplicemente la necessità esogena di rispettare le nuove direttive UE, specialmente in materia di qualità delle acque. In altre parole, qualunque gestore, pubblico o privato, avrebbe dovuto realizzare le opere e programmare nuovi investimenti. La seconda, che negli ultimi anni di gestione pubblica (dalla metà degli anni ’80), dopo un periodo precedente di stallo, il ciclo d’investimenti era già ripartito ad un tasso di crescita medio persino superiore a quello riscontrato nei successivi anni di gestione privata.

Ma gli elementi importanti che Hall e Lobina evidenziano sono molteplici. Prima di tutto mostrano come nei primi dieci anni di privatizzazione un terzo degli investimenti siano stati in realtà finanziati da un insieme di “sussidi pubblici”. Anche in Italia le associazioni di categoria che riuniscono le Spa dell’acqua continuano a chiedere finanziamenti pubblici a fondo perduto –quindi denaro della fiscalità – a favore dei gestori privati per effettuare investimenti straordinari, in violazione della normativa europea e del meccanismo del full cost recovery (implicita ammissione, fra l’altro, che il meccanismo della privatizzazione della fonte di finanziamento e della gestione non sta funzionando) [4]. Insomma, socializzare i costi e privatizzare gli utili.

I due autori ricordano anche come, dopo il picco raggiunto nel 1992, gli investimenti delle gestioni privatizzate abbiano iniziato a calare costantemente, mentre non scendono affatto le tariffe pagate dai cittadini che anzi continuano a lievitare, malgrado il loro andamento debba essere teoricamente legato agli investimenti. Nelle tariffe i cittadini inglesi e gallesi pagano per decenni investimenti in gran parte mai realizzati. Gli operatori privati ottengono continuamente da Ofwat l’applicazione di tariffe più salate, gonfiando con regolarità le spese per investimento previste, salvo poi ridistribuire agli azionisti, sotto forma di dividendi, la differenza fra investimenti programmati e investimenti effettivamente realizzati. Un furto scandalosamente spacciato per capacità dei privati di risparmiare sulle spese previste migliorando in corso d’opera l’“efficienza del capitale” (fulgido esempio di cosa s’ intenda per “efficienza” della gestione privata). Di fatto, si tratta di milioni di extra-profitti che passano dalle tasche dei cittadini a quelle degli azionisti privati delle società di gestione, malgrado l’esistenza della mitica Authority a regolare e vigilare, con aplomb britannico. Hall e Lobina portano dati precisi su questa impennata di profitti ed extra-dividendi distribuiti dalle società privatizzate dell’acqua: nel 2005-6 l’ammontare del “risparmio” tocca il miliardo di sterline (il 22% di spesa in meno rispetto alla stima degli investimenti su cui Ofwat aveva stabilito la tariffa).

Così i privati hanno continuato ad intascare dividendi da favola mentre le tariffe dei cittadini hanno continuato a crescere senza sosta. Gli studi citati concordano nel rilevare una relazione diretta fra aumenti delle tariffe ed incremento dei profitti per i gestori. Nei primi 10 anni di privatizzazione i profitti delle principali dieci società idriche inglesi sono cresciuti del 147%: circa il 30% della bolletta pagata dal cittadino è intascata dagli azionisti privati sotto forma di dividendi. Nelle Spa dell’acqua italiane, quel 7% di “adeguata remunerazione del capitale investito” contro cui si è rivolta l’iniziativa referendaria [5] incide mediamente, nel 2011, per il 15% sul totale della bolletta pagata (senza mettere in conto extra-profitti e utili indiretti che i soci privati sono in grado di realizzare a danno dei cittadini). In Inghilterra e Galles all’impennata del 245% delle tariffe dal 1989 al 2006 (39% oltre il tasso d’inflazione), non è corrisposto nessun miglioramento del servizio, nessuna “efficienza” magicamente infusa nel sistema dai privati. L’analisi dei dati mostra come, in termini reali, i costi operativi siano rimasti gli stessi mentre l’aumento costante delle tariffe sia da imputare principalmente “a vari elementi associati al capitale – i costi del capitale, l’interesse, i profitti- che sono quasi raddoppiati in termini reali”. Vale la pena ricordare come vi sia universale accordo fra gli studiosi del settore sul fatto che un aumento dell’1% della remunerazione del capitale investito equivale a oltre il 10% di riduzione dei costi di gestione: il maggiore costo del capitale divora facilmente eventuali margini di efficienza, intesi come riduzione dei costi operativi. Le gestioni privatizzate costano di più e sono nella maggior parte dei casi tutt’altro che efficienti. Il mantra ideologico della maggior efficienza del privato rispetto al pubblico, ossessivamente ripetuto negli anni ’80 e ’90, ormai non è più intonato neppure da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, che pure avevano puntato molto sulla privatizzazione dei servizi pubblici essenziali, acqua in primis. Tutti gli studi sui servizi idrici ribadiscono che non esiste alcuna superiore efficienza delle gestioni private rispetto a quelle pubbliche, come ammette la stessa analisi pubblicata dalla Banca Mondiale nel 2005, opportunamente citata da Hall e Lobina: statisticamente “non c’è una differenza significativa fra l’andamento dell’efficienza degli operatori pubblici e quello dei privati”. A parità d’efficienza gestionale, però, l’ottimo privato costerà necessariamente alla collettività molto più dell’ottimo pubblico, data l’intrinseca necessità del privato di produrre profitti e remunerare i capitali investiti: l’obiettivo di una gestione privatistica del servizio idrico è, innanzi tutto, la creazione di valore per gli azionisti (non la garanzia del diritto d’accesso universale al bene acqua). Maggiori profitti si possono ottenere aumentando le tariffe, tagliando il costo del lavoro, riducendo la qualità del servizio. I profitti si possono incrementare anche aumentando i volumi d’acqua venduti (anziché incoraggiare il risparmio e la tutela della risorsa), riducendo gli investimenti effettivi rispetto a quelli programmati (e perciò pagati in tariffa), spacciando interventi d’ordinaria manutenzione per investimenti.

I dati e gli studi raccolti da Hall e Lobina compongono un quadro preoccupante- per quanto non inaspettato – degli effetti della privatizzazione, che va ben al di là degli impressionanti aumenti tariffari che hanno colpito i cittadini e in particolare le famiglie più povere (costrette a spendere il 4% del loro reddito per pagarsi l’acqua, se non a subire il “distacco” dal servizio per morosità). Mostrano gli impatti negativi sul lavoro e sui lavoratori, diminuiti nel settore del 21%, anche se le gestioni private hanno fatto in seguito massiccio ricorso ad esternalizzazioni e lavoro precario (meno pagato e meno qualificato), a danno della qualità del servizio. Mostrano il gran numero d’incidenti ambientali causati dalle società privatizzate, Suez ed Enron in testa. Mostrano infine come le reti idriche siano peggiorate e si siano deteriorate ad una velocità superiore alla capacità dei gestori di rinnovarle e come, a dieci anni dalla privatizzazione, la qualità dell’acqua potabile risultasse ormai al di sotto degli standard minimi, presentando quasi ovunque valori oltre i limiti consentiti rispetto a numerose sostanze dannose per la salute.

Scorrendo i dati raccolti si scopre come casi d’acqua razionata e di fornitura interrotta non riguardino solo alcune realtà del sud Italia (dove sono gli interessi mafiosi a condizionare il “governo” dell’acqua e la sua fornitura) ma, in occasioni di siccità, abbiano colpito persino aree dell’est inglese, a causa di incapacità gestionali delle società private dell’acqua, che in precedenza avevano preferito distribuire maggiori dividendi anziché realizzare importanti investimenti. A proposito delle perdite di rete (terreno su cui avrebbe dovuto misurarsi la capacità d’investimento privato), difficile non notare come la città più grande della Gran Bretagna, Londra – gestita dalla privatissima Thames Water – abbia perdite del 40%. Volendo fare un paragone con realtà comparabili del nostro paese, ossia con le città italiane più grandi, si osserverà come a Roma, gestita dalla Spa mista e quotata in borsa Acea (nel cui capitale sociale vi sono Suez, banche private e l’imprenditore delle costruzioni Caltagirone) si registrino perdite di rete del 35%. A Milano, dove si ha una gestione ancora a totale capitale pubblico che ha ereditato strutture e saperi dell’azienda municipalizzata, si registrano a tutt’oggi perdite del 10%, fra le più basse di tutta Europa. A Milano si registrano anche tariffe fra le più basse del continente, tra l’altro. Pure a Napoli l’acqua è gestita da una società a totale capitale pubblico: le tariffe sono basse e le perdite di rete sono del 18%, il miglior dato del paese subito dopo Milano, sempre secondo i dati dell’indagine Civicum-Mediobanca del 2010.

Il caso inglese-gallese impone dunque una riflessione complessiva sul capitolo degli investimenti. In Italia per anni è stato ripetuto che l’ingresso dei privati all’interno di Spa miste sarebbe stato indispensabile per ottenere i capitali freschi necessari per gli investimenti. In verità, ora che i soci privati fanno parte già da molti anni di un numero considerevole di Spa, l’esperienza indica alcune evidenze. La prima è che i privati sono entrati ottenendo, in cambio di basse capitalizzazioni (i capitali vengono conferiti per poter entrare nella compagine azionaria), la governance effettiva della società, a partire dalla nomina dell’amministratore delegato. La seconda è che i capitali utilizzati per gli investimenti derivano dall’autofinanziamento – la liquidità messa a disposizione dai cittadini attraverso le tariffe – ma soprattutto sono il frutto dei prestiti ottenuti a caro prezzo dalle banche (capitale di debito conseguito attraverso mutui o project financing), che saranno a loro volta ripagati dalle future bollette. Le banche che prestano il denaro alle società, a tassi d’interesse di mercato, sono a loro volta socie delle medesime Spa. Anche in Inghilterra e Galles la dinamica è stata la medesima: privatizzato il servizio, ben presto le principali fonti dei capitali per le società private sono state le banche. Il livello dell’indebitamento delle società con gli istituti di credito è cresciuto da un valore pressoché nullo ad un valore medio del 60% con punte del 75%.

Il costo del capitale privato è notoriamente molto più alto del costo del capitale ottenibile tramite finanza pubblica. Il modo in assoluto più costoso per finanziare gli investimenti è quello di ricorrere al capitale privato, vuoi che si tratti di capitale equity (azioni), vuoi che si tratti di capitale di debito (indebitamento con le banche). A maggior ragione ciò vale in un servizio come quello idrico, che necessita di notevoli quantità di denaro per realizzare gli investimenti e dove quindi il costo del capitale incide enormemente sul costo complessivo del servizio. Questa semplice verità è confermata ancora una volta dal caso inglese e gallese: quando si debba trovare denaro per far funzionare un servizio -mostrano le cifre e i grafici raccolti da Hall e Lobina- il finanziamento tramite capitale azionario si è rivelato il più costoso in assoluto (dividendi da pagare agli azionisti). Segue il finanziamento degli investimenti tramite prestito bancario, che è più conveniente dell’equity ma pur sempre costoso (interessi sul capitale prestato). Il modo in assoluto più conveniente per ottenere capitale per gli investimenti è, ovviamente, il ricorso a forme di finanza pubblica. In altre parole, se invece di finanziarsi attraverso l’equity, se invece di ricorrere alla borsa o di prendere prestiti in banca vi fossero aziende pubbliche dell’acqua, il passaggio a forme di finanziamento privo di rischi (titoli di debito pubblici) permetterebbe di risparmiare ogni anno cifre colossali.
Per gli stessi motivi anche in Italia la proposta alternativa di finanziamento del servizio idrico avanzata dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua prevede, al posto della costosissima combinazione di capitale equity e capitale di terzi che la privatizzazione porta con sè, un insieme di strumenti di finanza pubblica e di fiscalità generale, nel contesto di una gestione del servizio tramite soggetti di diritto pubblico [6]. Ciò permette di fuoriuscire dalla morsa stritolante del grande capitale finanziario, che, per far funzionare servizi d’interesse generale, obbliga a ricorrere all’equity e al costosissimo mercato privato del credito, con l’unico fine di far fruttare il capitale. La tariffa dell’acqua si trasforma in “prezzo” e il cittadino si trasforma in consumatore, obbligato a finanziare la creazione di ricchezza per i detentori di capitale privato per poter accedere ad un bene vitale come l’acqua. E’ questo il senso profondo della trasformazione di un bene comune in “merce”.

Gli strumenti di finanza pubblica in grado di mettere a disposizione risorse per gli investimenti ad un costo notevolmente più basso sono molteplici, dai titoli di debito classici a quelli più innovativi, dai “Bot di scopo” di lunga o lunghissima scadenza ai bond irredimibili (che possono esser emessi anche localmente). Il “prestito irredimibile” non prevede la restituzione del capitale -non incide quindi sul debito pubblico- e in cambio garantisce al prestatore una rendita perpetua ad un tasso d’interesse congruo. Questo strumento, il cui costo sarebbe pagato attraverso le tariffe, potrebbe esser utilizzato per coprire gli investimenti necessari a ristrutturare le reti. Allo stesso tempo occorre quantomeno ripensare la funzione delle banche pubbliche, o di ciò che ne resta (Cassa depositi e prestiti), se non proporsi di progettare una nuova generazione d’istituti di credito pubblici, che potrebbe contemplare anche l’istituzione di una specifica banca dell’acqua, sul modello dell’olandese Nederlandse Waterschapsbank.

La logica autentica del servizio pubblico si sposa in modo naturale e automatico con gli strumenti della finanza pubblica perché rifiuta ogni finalità speculativa: non è orientata alla distribuzione di dividendi e di profitti, ossia alla remunerazione dei capitali, bensì alla copertura dei costi attraverso i ricavi e alla necessità di reinvestire nel servizio tutti gli “avanzi di bilancio” (che per questo non possono essere definiti “utili”). In altre parole, la logica pubblica si pone il problema del costo del capitale ma non quello della sua remunerazione in termini speculativi. In tal senso sono pensati gli strumenti della finanza pubblica per reperire fondi per gli investimenti al minor costo possibile. Affinché si dia questo cambio di paradigma, però, occorre uscire definitivamente dal quadro delle società di capitali, che sono per loro natura costrette a ricorrere al mercato privato del credito per finanziarsi.

Ma è ineludibile un altro nodo. E’ necessario anche il parziale ricorso alla fiscalità generale per finanziare l’accesso al minimo vitale d’acqua cui ha diritto ciascuna persona (indipendentemente dalla sua condizione sociale) e per effettuare gli investimenti in nuove infrastrutture. Il full cost recovery, viceversa, è il meccanismo che pretende di caricare sulle tariffe tutti gli investimenti, oltre ai consumi, ai costi di gestione del servizio, ai profitti e ai dividendi per gli azionisti. Un meccanismo che, peraltro, non sta funzionando: in Italia, da quando è stato adottato circa a metà degli anni ’90, gli investimenti sono crollati di due terzi ed oggi vengono realizzate poco più della metà delle opere programmate. La domanda di fondo è: chi deve pagare gli investimenti per nuove infrastrutture, solo il cliente-utente o anche il cittadino-contribuente? I costi di una nuova infrastruttura acquedottistica o di un nuovo depuratore (esattamente come un nuovo ospedale o una nuova scuola) se costruiti grazie a fondi provenienti dalla fiscalità generale saranno pagati, in proporzione, in misura maggiore dai contribuenti più ricchi. In altri termini, le aree più avanzate di un paese o di una regione sosterranno quelle più povere e i cittadini più facoltosi parteciperanno alla realizzazione dei diritti dei concittadini meno abbienti, dato che l’imposizione fiscale è progressiva. All’opposto, caricare tutti i costi infrastrutturali in tariffa significa costruire un meccanismo di finanziamento fortemente regressivo dal punto di vista distributivo. Insomma, quando un bene essenziale come l’acqua viene interamente finanziato tramite tariffa, compresi gli investimenti infrastrutturali straordinari, ricchi e poveri si trovano a pagare l’investimento senza nessuna proporzione al reddito percepito e senza alcun meccanismo di solidarietà sociale. Inoltre -dato che ricchi e poveri hanno bisogno della stessa quantità d’acqua per bere, cucinare, lavarsi- tariffe più salate incideranno in misura molto diversa sui redditi, come ben mostra il capitolo che Hall e Lobina dedicano all’impatto della privatizzazioni sulle fasce deboli.

C’è chi taglia corto e sostiene che privatizzare interamente la fonte di finanziamento del servizio attraverso il full cost recovery, pur con i suoi effetti socialmente regressivi, è una necessità dei tempi: i soldi pubblici sono scarsi ed è inevitabile scegliere fra sanità e acquedotti, fra scuole e depuratori, come se si potesse vivere senza diritto alla salute o senza accesso all’acqua potabile, come se qualcuno ci chiedesse di scegliere se preferiamo smettere di dormire o smettere di respirare. Certamente se oggi vi è un problema di priorità di spesa questo non si pone fra acquedotti e ospedali bensì, più probabilmente, fra servizi essenziali e spese per armamenti, ad esempio. Se gli italiani potessero scegliere direttamente se considerano prioritaria l’acqua o l’acquisto dei nuovi caccia F35, la cui spesa assorbirà nei prossimi anni circa 13,5 miliardi di euro, l’esito della consultazione sarebbe scontato. Insomma, altre sarebbero le priorità o le alternative su cui dovremmo interrogarci come cittadini, dato che la fiscalità generale viene impiegata direttamente o indirettamente per cofinanziare tante delle inutili “grandi opere” previste nella così detta legge obiettivo. Senza aerei da guerra o senza nuove autostrade si può vivere, persino meglio, ma non senz’acqua. Se poi venisse rafforzata la lotta all’evasione fiscale, al contrario incoraggiata dai governi attraverso condoni di ogni genere, e se si studiassero specifiche “tasse di scopo” (ad esempio una tassa sulle bottiglie in plastica per le acque minerali) sarebbe possibile ricostruire a perfezione l’intero sistema idrico integrato del paese, grande opera utile e necessaria, senza incidere sul debito e sul deficit pubblico.

Infine, la vera vittima della privatizzazione è la democrazia. I nodi sono l’assenza di qualsiasi controllo democratico sul bene acqua una volta che ne sia stata privatizzata la gestione e la perdita di ogni potere decisionale da parte dei cittadini. Amministrazioni locali, consigli elettivi e cittadini sono allontanati dal governo del bene e le scelte si trasferiscono nelle società di gestione private e nei loro consigli d’amministrazione. Persino la proprietà del bene acqua, che formalmente resta bene demaniale e pubblico (tanto in Inghilterra quanto in Italia) passa sostanzialmente nelle mani di chi gestisce il servizio idrico: si tratta della differenza fra proprietà formale e sostanziale del bene. Il reale proprietario del bene diviene il soggetto che gestisce ed eroga il servizio. Hall e Lobina mostrano come in Inghilterra e Galles il deficit democratico investa tanto le società di gestione quanto l’ente regolatore, l’Ofwat: né le prime né quest’ultimo sono responsabili davanti agli organi rappresentativi, locali o nazionali. L’ Ofwat è talmente indipendente da essere indipendente persino dai cittadini, si potrebbe dire. Pur in un quadro differente, anche in Italia la privatizzazione ha necessariamente condotto allo stesso esito: le Spa che gestiscono il servizio idrico integrato sono divenute vere e proprie istituzioni post-democratiche, arene decisionali chiuse e opache in cui si è spostato il governo del territorio. Le Spa, guidate dalla logica della massimizzazione del valore per gli azionisti, rappresentano il nuovo luogo d’elaborazione e definizione delle politiche territoriali. Gestiscono beni comuni fondamentali come l’acqua, spesso assieme ad altri servizi pubblici locali (Multiutilities). La Spa mista pubblico-privata, declinazione su scala territoriale delle forme post-democratiche della governance globale, è in Italia il modello prevalente di privatizzazione: la Spa mista è un tavolo di concertazione a-democratico cui siedono cordate di soggetti privati (fra cui multinazionali italiane e straniere, banche, imprenditori del cemento) e personale nominato dai sindaci, senza alcun legame con i consigli elettivi. Ricostruire le catene di responsabilità all’interno dei meccanismi decisionali delle Spa è impossibile, la privatizzazione delle decisioni e delle scelte è definitiva: non vi è più nulla di pubblico nè di democratico in questo sistema di governance locale.

Sarebbe lungo ripercorrere come si sia giunti fin qui. Certo è che all’origine di questi processi di privatizzazione e “de-democratizzazione” vi sono precise scelte politiche, in buona parte legate ai cicli di riforma della pubblica amministrazione avviati negli anni ’90. In Italia le responsabilità della politica nell’erosione del pubblico sono spesso anche precedenti: non di rado élites politiche si sono surrettiziamente appropriate dei beni di tutti, considerando i beni comuni come loro beni privati e trasformando la gestione pubblica in una gestione clientelare o lottizzata. Le Spa miste – le partnership pubblico-private – rappresentano l’esito finale e il perfetto connubio di questa doppia forma di privatizzazione del bene comune: emancipatesi dal diritto pubblico per abbracciare il diritto privato, allontanatesi da ogni partecipazione e controllo dei cittadini, élites politiche e cordate di soggetti privati hanno dato vita ad un nuovo luogo di governance opaco e a-democratico. A queste istituzioni viene consegnato il governo dell’acqua e dei beni comuni, ossia de facto il governo del territorio e l’elaborazione concreta delle politiche pubbliche locali. Queste istituzioni sono fortezze senza porte né finestre, in cui privatezza e segretezza si fondono nell’opposto di ciò che dovrebbe essere una gestione pubblica, trasparente e democraticamente partecipata dei beni comuni.

Hall e Lobina ricordano come alla fine degli anni ’80 fu Margareth Thatcher, dunque ancora una volta la politica, a decidere la privatizzazione di servizi e beni che, essendo “comuni”, non avrebbero dovuto essere alienabili, in quanto non a disposizione delle maggioranze politiche e del princeps di turno. In quell’epoca le aziende private furono persino fatte entrare nella governance dello stato, ottenendo voce in capitolo nella stesura di alcune leggi (attraverso la creazione delle istituzioni così dette “quasi governative”, spiegano Hall e Lobina). Uno studio sul peso delle Spa privatizzate nella definizione delle leggi nazionali e regionali sui servizi pubblici probabilmente rivelerebbe elementi interessanti anche sul potere effettivo assunto in Italia – nella definizione del quadro giuridico – da soggetti privati e dalle loro organizzazioni di categoria. Potenti amministratori delegati si sono vantati, in alcune occasioni pubbliche, di avere “ispirato”, se non direttamente scritto, questo o quel determinato articolo di legge relativo alle privatizzazioni.

Nel passato remoto, in Italia come in gran parte dei paesi europei, le prime strutture e le prime gestioni del servizio idrico erano private. Gestioni la cui inefficienza, il cui costo e la cui incapacità di assicurare l’universalità del servizio – e di conseguenza di garantire la salute pubblica – spinsero a compiere una scelta di civiltà: all’inizio del ‘900 un’ondata di municipalizzazioni condusse alla gestione pubblica dell’acqua, per garantire a tutti l’accesso a questo bene fondamentale. Chi pensa alla privatizzazione come ad un sinonimo di “modernizzazione” ha un concetto molto antico e regressivo di modernità. I nuovi cicli di privatizzazione costituiscono un ritorno al passato, a logiche di profitto e d’esclusione, non certo un passo avanti. Il futuro deve essere certamente “pubblico”, come ricorda il titolo del saggio di Hall e Lobina, ma il pubblico deve essere ripubblicizzato. Se infatti la gestione pubblica è una condizione necessaria, perché consente di escludere i profitti di pochi da un bene di tutti, non è però una condizione di per sé sufficiente. Il nuovo pubblico deve essere trasparente e partecipato democraticamente dai cittadini, non espropriato da oligarchie politiche. Clientelismi, lottizzazioni, degenerazioni burocratiche e tecnocratiche sono state il primo stadio della “privatizzazione” e del sequestro dei beni di tutti da parte degli interessi di pochi. In futuro la gestione dell’acqua e dei beni comuni dovrà essere “comune”: gli esempi in questo senso si stanno moltiplicando, da Siviglia a Parigi. Beni comuni e ripubblicizzazione del pubblico sono la sostanza di una nuova politica per il XXI secolo, come insegnano i movimenti per l’acqua di tutto il pianeta.