Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

mercoledì 17 novembre 2010

Con una sinistra unita si volta pagina

La vittoria di Giuliano Pisapia nelle primarie di Milano non è un caso, è una vittoria netta che parla di un popolo della sinistra che si è stancato delle mediazioni centriste. Una vittoria resa possibile dall’unità della sinistra. Pisapia infatti era sostenuto oltre che da numerose forze della società civile, dalla Federazione della Sinistra e da Sel. Larga parte dei mass media fa finta di non vedere questo dato ma la realtà è inequivocabile. La vittoria di Pisapia su Boeri è stata possibile unicamente grazie alla mobilitazione di tutte le forze della sinistra e la Federazione della Sinistra, che è la forza con il maggior radicamento territoriale, è stata determinante per questo risultato.


Quella nelle primarie di Milano è quindi la vittoria della credibilità di Giuliano e del sostegno compatto della sinistra unita. Da qui, la prima indicazione politica: proponiamo a SEL di presentare una lista unitaria alle comunali di Milano. Abbiamo sostenuto lo stesso candidato e abbiamo vinto; per quale ragione non fare una lista unitaria che si ponga l’obiettivo di dare una risposta a quella voglia di sinistra che è emersa nelle primarie? Il risultato di Pisapia – e di Onida – ci parlano di una vera e propria crisi politica del PD. Il modo migliore per incidere positivamente su questa crisi è proprio quella di offrire uno sbocco a sinistra, con una sinistra unita.


Così come, per uscire dalla grande palude della crisi politica nazionale, proponiamo alle forze che hanno partecipato alla manifestazione del 16 ottobre di costruire un programma comune con cui aprire il confronto con il centro sinistra. Proponiamo di costruire questo programma di sinistra a partire dalla piattaforma della Fiom che tutti condividiamo. La lotta alla precarietà, per la difesa dei contratti collettivi di lavoro, per la redistribuzione del reddito, per la riconversione ambientale dell’economia, per l’acqua pubblica, contro la guerra in Afganistan rappresentano punti condivisi da cui partire. Facciamolo e diamo continuità alla mobilitazione del 16 impegnandoci a sostenere le posizioni su cui quelle centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza.


Le primarie di Milano ci segnalano però anche un altro elemento. La partecipazione è stata inferiore non solo rispetto alle attese ma anche rispetto alle primarie fatte per scegliere il segretario del PD. Un quarto di voti in meno concentrati nelle periferie, nei quartieri popolari. Questo dato ci parla della crisi della politica, del fatto che il teatrino a cui è ridotta la politica viene visto dalla nostra gente sempre meno come il terreno attraverso cui modificare in meglio la propria condizione sociale. In questo contesto sarebbe ridicolo per noi pensare di recuperare questo distacco tra i ceti popolari e la politica unicamente attraverso la pur necessaria azione unitaria. Occorre mettere al centro – a Milano come in tutta Italia – il lavoro di mobilitazione ed organizzazione sociale. Occorre costruire lotte, comitati, mobilitazione per lo sciopero generale. Occorre costruire il partito sociale su tutto il territorio.


Solo se non lasceremo nessuno solo nella crisi, potremo porre le basi per ricostruire una fiducia nella nostra azione politica e nella possibilità di cambiare lo stato di cose presente. La crisi della politica non si risolve con la delega a leader carismatici ma con la ripresa di una soggettività di massa che dia senso e vigore ad una robusta concezione della democrazia.

giovedì 11 novembre 2010

L’Italia non è un paese per le donne

Da Liberazione:

Non ci voleva certo l’Istat a dimostrare dati alla mano, quanto l’Italia non sia un “Paese per donne”, riprendendo il titolo del celebre romanzo di Mc Carthy. Ma i dati servono e danno un quadro disastroso nella distribuzione dei carichi di lavoro all’interno del tanto santificato “nucleo familiare”.

Il 76,2% del lavoro familiare risulta infatti a totale appannaggio femminile- 1,4% in meno rispetto a 5 anni fa – ma comunque di una asimmetria spiazzante, su cui non è possibile trovare giustificazioni di sorta. Una asimmetria trasversale, che tocca tutto il Paese e che si riduce sensibilmente solo nelle coppie al nord in cui non ci sono figli ed entrambi i componenti del nucleo lavorano.

Agghiacciante anche la comparazione se si prende in esame il cosiddetto tempo libero: se anche a causa della crisi sia uomini che donne hanno dovuto rinunciare in gran parte a questo bene prezioso, la fotografia di una giornata femminile dovrebbe far drizzare i capelli, coloro che sono occupate dedicano al lavoro retribuito 17 minuti in più esattamente quanto cala quello domestico.

Aumenta anche il tempo che gli uomini debbono dedicare al lavoro retribuito, si è passati dalle 5 ore e 44 minuti del 2002/3 alle 6 ore e 19 minuti del 2008/9, diminuisce il tempo libero in maniera ancora più netta e aumentano sia per gli uomini che per le donne i tempi dedicati agli spostamenti verso i luoghi di lavoro, segno di una vita in città impossibili. Scendendo nei dettagli, oltre 9 donne su 10 risultano ancora relegate alla cucina, addirittura il 97,8 per le donne non occupate, la pulizia della casa impegna l’82,7% delle donne occupate e il 94,8% delle non occupate.

E gli uomini? Risultano selettivi nel tipo di contributo, laddove selettivo risulta essere un eufemismo. In un giorno medio, fra i partner di donne occupate, il 41,7% cucina, il 31,4% partecipa alle pulizie della casa, il 29,9% fa la spesa, il 26,6% apparecchia e riordina la cucina mentre vere e proprie rarità da collezione sono coloro che stirano e lavano i panni. Ovviamente se la partner non lavora tutte queste percentuali si dimezzano. Che trarre da questi dati?

La semplice e ovvia conclusione che i rapporti sociali fondamentali non hanno risentito che poco o nulla dei mutamenti degli ultimi 50 anni, non ne hanno risentito nelle condizioni materiali di vita e di organizzazione della vita familiare. Come se, nonostante la mutazione della società intera, del modo di produzione, della vita quotidiana nei suoi aspetti più minimali, sia rimasta una struttura arcaica e immutabile.

Sarebbe un tema di profonda riflessione non solo culturale o sociale ma anche politica, una riflessione che permetterebbe di guardare anche con occhi diversi la crisi che attraversa il modello di produzione capitalista partendo dai suoi gangli fondamentali. Si si tratterebbe di parlare anche alla luce di questi semplici dati per definire il patriarcato e provare a scardinarlo. Ma lo si vuole realmente. E se ci si prova, a smontarne la struttura poi, chi cucina?

martedì 9 novembre 2010

Quando la crisi è Pubblica, c'è aria di agitazione...

Stamani sono venuto a conoscenza, che il personale dipendente del comune di Monteriggioni è in stato di agitazione, a causa del mancato rispetto sull’erogazione di parte del salario variabile del 2009, come definito dal CCNL.
Vista la situazione ho chiesto lumi al Sindaco….

Buongiorno, vorrei sapere come mai non sono stato avvertito, in quanto consigliere, riguardo allo stato di agitazione indetto dai dipendenti del comune di Monteriggioni, i quali con un volantino della R.S.U. rivendicano, come recita il volantino il fatto che lo stesso comune si è riservato di non erogare la parte di salario variabile dovute ai dipendenti, il tutto, nella riunione tenutasi tra le delegazioni trattanti all’inizio di ottobre.
Mi sembra un fatto grave e pretestuoso quello di non erogare il restante premio, e ancora di più di non prendere posizioni in merito, lasciando intendere che la responsabilità è da cercare altrove, forse nel famoso patto di stabilità oppure dallo scellerato decreto Brunetta.
Mi dispiace pensare che dietro a questa posizione intransigente, si possa nasconda la compiacenza dell’amministrazione, a non riconoscere quanto dovuto ai lavoratori.
L’Ente non può nascondersi dietro un dito, lasciando in questo momento di crisi i dipendenti, soli, per un premio che si aggira intorno ai 13mila euro complessivi, quindi, fatti i dovuti calcoli, per una cifra finale procapite di 250euro, quando il bilancio dell’Ente non presenta particolari criticità.
Al Sindaco piace ricordare nei comunicati che il nostro comune è attento sia al bilancio sia alla qualità dei servizi che riesce a offrire, quindi un comune virtuoso, in merito anche al rapporto cittadini/dipendenti, una media al di sotto di tanti altri comuni, dove, ( mi preme ricordargli ), proprio grazie al loro lavoro, all’impegno e alla loro serietà, che il nostro comune è riuscito a raggiungere tali risultati.
Mi sembra che l’atteggiamento intrapreso non sia dei più costruttivi, quindi auspico che il Sindaco prenda posizioni su questa vicenda, anzi che si adoperi, visto che può farlo, per la risoluzione dello stato di agitazione indetto dai dipendenti, anche perché non si infranga il rapporto di fiducia che ogni amministrazione deve avere tra dipendenti e rappresentanti dello stesso.

Gianni Polato.

La presa di posizione del Sindaco, come avevo chiesto, è stata solerte nei miei confronti, un po' meno per gli operai.....


- Secondo quanto valutato dai ns. Uffici non è legale erogare tale fondo se si supera la percentuale massima di accrescimento degli stipendi prevista dalla Legge Finanziaria
- Abbiamo chiesto pareri ai soggetti deputati (Corte dei Conti, ecc.) per avere una interpretazione autentica che consenta al Comune di erogare quanto è stato "autonomamente" immesso in tale Fondo, evidentemente con l'intenzione di riconoscerli ai dipendenti
- Non sopravvaluterei il "potere" del Sindaco rispetto alle norme di legge vigenti e, soprattutto, al fatto che sono i funzionari dell'Ente ad assumersi la responsabilità di porre in essere gli atti effettivi, mentre all'Amministrazione spettano gli indirizzi generali fra cui, appunto, l'implementazione dei fondi salariali
- Quella in oggetto non è l'unica novità in materia di personale, vedi le norme sul blocco degli scatti di anzianità e quelle, di portata "devastante", sul sostanziale blocco delle assunzioni: dal 1 gennaio 2011 si potrà assumere solo un dipendente su 5 che cessano
- Le relazioni sindacali con i lavoratori e con le loro rappresentanze si sviluppano ogni anno su molti aspetti, che spesso si concludono con accordi fra le parti, e questa vicenda, evidentemente molto sentita dai dipendenti, è solo una di queste. Negli incontri con le rappresentanze sindacali l'Ente è rappresentato da tecnici interni ed è presente solo l'Assessore al Personale, in rappresentanza del sindaco, quale uditore. L'insieme delle norme vigenti tende palesemente a tenere distanti la politica dall'amministrazione del personale, proprio per evitare, come dire, condizionamenti alle scelte in materia.

Bruno Valentini

venerdì 5 novembre 2010

Il gioco delle tre carte sull'acqua

Su Il Sole 24 Ore a pagina 20 odierno si parla della discussione in Commissione del Senato sul Federalismo.


Leggo che il PD (partito democratico), in sede di Commissione in Senato, avrebbe proposto modifiche a un decreto legislativo in fase avanzata sui fammisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province, ma, non avendole ottenute, voterebbe contro.

Si sa che al momento della legge n. 42/2009 istitutiva del federalismo fiscale da cui il decreto legislativo "recante disposizioni in materia di determinazione dei fabbisogni standard di comuni, città metropolitane e province" di cui parla Il Sole 24 Ore odierno, il PD si astenne.


Non le avevo lette, oggi corro a leggerle. Sorpresa, scopro che il PD lascia pari pari il punto 5 del comma 1 dell'articolo 2 del predetto decreto legislativo. E cosa dice questo punto 5? Dice che ai Comuni vengono tolti: "servizio di edilizia residenziale pubblica e locale e piani edilizi nonché ... il servizio idrico integrato".

Se sottrarre ai comuni l'acqua è togliere ai cittadini il governo di quanto costituisce il 70% del loro corpo, sottrarre agli stessi il territorio, o il PRG o Piani strategici e Operativi ( Piano del Sindaco) come legiferato già da più Regioni (mi sembrano passare alle Province), io penso che ci troviamo non già di fronte al "fallimento pilotato dei Comuni italiani", come scriveva Pietro Raitano l'11/11/2009 per Altraeconomia, ma molto più in la'.

Cioè, alla loro "chiusura"; almeno alla chiusura dei Comuni così come li conosciamo e come ci provengono dalla quasi millenaria tradizione dei Liberi Comuni di origine popolare. Va da se che con questa chiusura scompaiono non pochi pezzi di articoli della nostra Costituzione in tema di Autonomie Locali: 5, 114, 117, 118 e 119.

Un Comune, come uno Stato, ci hanno insegnato che si reggono, prioritariamente, su: 1) popolo, 2) territorio e 3) identità culturale; con una semplice astrazione, se noi togliamo uno di questi punti, il Comune, o lo Stato, non ci sono più. Pertanto, se togliamo al Comune la gestione del territorio il Comune non c'è più. I beni comuni non sono altro, si può dire, che la sintesi di questi 3 elementi.

Ma se i beni comuni, i servizi di interesse generale, finiscono in mano, "in via ordinaria ... a favore di imprenditori o società ... mediante procedure competitive..." (art. 23-bis comma 2 - l'articolo che con il nostro Referendum vogliamo abrogare e per il quale tra pochi giorni mi sembra che partirà una campagna per la moratoria), di quale Comune si sta più parlando?


In una comunicazione di Mario Collevecchio (della Bocconi e sovente su Il Sole 24 Ore) nel recente incontro di Viareggio della Lega delle Autonomie Locali scrive in un documento: "il disegno di legge AS 2259 (ndr quello sulla Carta delle Autonomie) ha assunto quasi un valore marginale incalzato dai decreti delegati suddetti e dalle norme relative alle manovre di finanza che finiscono per stravolgere l'autonomia istituzionale degli enti locali".

Se due più due fa quattro, a me sembra che si possa concludere che oramai non sono più i Comuni Province e Regioni a governare i beni comuni o i servizi di interesse generale, ma le società quotate e non quotate spa, con relativi Consigli di Amministrazione e top manager; che hanno preso in mano i servizi.

Si ricorda che a fine 2008 Confservizi pubblicava, molto esaltata, che le società partecipate degli Enti Locali avevano raggiunto un fatturato, nell'anno di 48 miliardi di euro.

In questi ultimissimi giorni si è letto che in Liguria, in Lombardia e anche in altre Regioni, i Comuni si stanno accorgendo dell'incredibile attacco alle loro funzioni fondamentali e alle loro autonomie. Oggi si è anche letto su Il Manifesto che Nichi Vendola ha aperto un confronto diretto nella sua Regione con il PD con cui sappiamo che governa la Regione. Vendola, titola Il Manifesto: "Blinda l'acquedotto pugliese e sfida i democratici" e dichiara: "io milito dalla parte di chi è contrario all'acqua mercificata e privatizzata".

Per tutto questo, il lavoro di ritessitura della tela della democrazia a me sembra grande, e, se si considera che ancora in troppe realtà molti, anche a noi vicini, non si accorgono che certe lacerazioni sono state fatte anche da e dentro le istituzioni pubbliche più vicine al cittadino, i Comuni, il lavoro, pensando anche ai begli articoli di Asor Rosa e di Pierluigi Sullo, a me sembra molto più grande e articolato.

lunedì 1 novembre 2010

Ricordando Pasolini

Nel trentacinquesimo anniversario dell'omicidio di Pier Paolo Pasolini con un estratto dall'ultimo libro di Giorgio Galli

«Occuparsi oggi di Pasolini pensatore politico significa anzitutto ricordarne e ammirarne la preveggenza.

Gli scritti pasoliniani più anticipatori riguardano un periodo, tra il 1968 e il 1975 (anno della tragica morte del poeta-regista), nel quale parve possibile, in termini politici, un cambiamento che, se si fosse verificato, avrebbe reso l'Italia odierna ben diversa dal Paese degradato e decadente che è. Pasolini riteneva quel cambiamento auspicabile, senza però realmente crederlo possibile: la sua preveggenza lo induceva a nutrire sfiducia.

Forse lo scorrere dei decenni e il fatale affievolirsi della combattività lo avrebbero reso meno pessimista. Ma è stato ucciso. E oggi rimane il suo pensiero politico, che va ricostruito a partire dagli anni Cinquanta.

Un pensiero politico, quello pasoliniano, utile anche per comprendere meglio il presente, e da utilizzare come quadro concettuale in base al quale ipotizzare possibili scenari futuri per la sinistra».


PASOLINI NEL DUEMILA

Alberto Asor Rosa, storico e cattedratico della letteratura italiana, di formazione marxista, aveva pubblicato nel 1965 Scrittori e popolo, saggio su un tema caro proprio a Pasolini. Era stato molto letto in chiave sessantottina, e sembrava collocare Antonio Gramsci più vicino al populismo che al marxismo. Asor Rosa è dunque uno studioso particolarmente attrezzato per valutare Pasolini come pensatore politico. Eppure, dopo aver rilevato che «egli descrive, con gli strumenti propri dell’analisi linguistica, una condizione peculiare, storica e profonda al tempo stesso, della nazione italiana nel suo complesso, e cioè la sua imperfetta e manchevole unità politica, e le crepe sociali non mai rimarginate, da cui essa è stata ed è tradizionalmente contraddistinta», approda a questa conclusione:

«Pasolini accetta fin da allora, fin dai lontani, operosi e tutto sommato “positivi” anni Cinquanta... di sperimentare tutta la durezza del contatto, del confronto, del conflitto, dell’aspra contesa con il mondo. Negli anni Cinquanta in prospettiva ancora positiva: in seguito, in maniera sempre più sconsolata, e poi sempre più disperata, fino alla tragica uscita di scena di vent’anni dopo».
L’uscita di scena non è né sconsolata né disperata, se è quella del saggio per il congresso del Partito radicale. Pone, con "durezza”, i temi attuali, si è visto, sulla possibile immodificabilità dei rapporti sociali e sul ruolo degli intellettuali. Se gli intellettuali non “tradiranno" - è l’ipotesi “positiva” - i rapporti sociali potranno continuare a essere modificabili, come nella storia e, particolarmente, negli ultimi “cento anni”, quando gli intellettuali hanno svolto appieno il loro ruolo critico per annunciare e conquistare diritti civili (saldandosi a comportamenti e movimenti collettivi di masse che cominciano a capire questi diritti, anche se inizialmente non ne sanno).
Questi i giudizi di un altro autorevole prefatore, Alfonso Berardinelli:

«I poveri e i senza potere non aspiravano ad avere più ricchezza e più potere, ma ad essere in tutto e per tutto come la classe dominante, divenuta culturalmente la sola classe esistente. A questi discorsi [di Pasolini] la cultura di sinistra italiana reagì con un’alzata di spalle spesso al limite dell’irrisione. Pasolini scopriva cose risapute e le caricava di enfasi... Era davvero possibile, in buona fede, scoprire solo ora la “tolleranza repressiva”, “l’Uomo a una dimensione” di Marcuse?

Nonostante lo schematismo concettuale, Scritti corsari resta uno dei rari esempi in Italia di critica intellettuale radicale della società sviluppata. Se non può sostituire da solo una sociologia spregiudicata... è almeno in parte riuscito a salvare l’onore della nostra cultura letteraria... È questa saggistica politica d’emergenza la vera invenzione letteraria degli ultimi anni di Pasolini»
È vero che il suo pensiero politico non può sostituire, «da solo», una «sociologia spregiudicata»; tuttavia è molto di più di un fenomeno letterario che «ha salvato l’onore», o una altrettanto letteraria invenzione di «saggistica politica». Pasolini ha un pensiero politico organico in evoluzione, che è stato grave errore della cultura di sinistra l’aver considerato con superficialità.
Sempre Berardinelli amplia il discorso:

«Non c’è Paese occidentale moderno nel quale la cultura letteraria e filosofica non abbia giudicato male l’avvento della modernità borghese e capitalistica... L’ossessività monotematica e il carattere testamentario di Lettere luterane ha fatto dimenticare che il libro è solo il punto culminante di una lunga serie di attacchi alla modernizzazione che nella nostra letteratura si sono moltiplicati soprattutto dopo il 1955...
In un Paese più civile e libero un libro come Lettere luterane non sarebbe stato scritto. Pasolini parla con la persuasione e l’autorità morale di chi ha la certezza di avere intorno un ceto intellettuale e politico non solo vergognosamente inadeguato ai suoi compiti, ma perfino al di sotto di un livello decente di autocoscienza. Così, uno scrittore “solo in mezzo alla campagna”, si assume il fardello di responsabilità enormi... Deve immaginare e proporre, con paradossali metafore swiftiane, che cosa è moralmente e politicamente necessario fare. È come se Pasolini dovesse surrogare da solo una classe dirigente che non c'e»
Questo approccio è valido, ma ancora prevalentemente letterario. Pasolini non è l’ultimo dei critici letterari della modernità. Ha un pensiero politico che distingue, si è visto, il “Consumismo” italiano da quello, in generale, della “modernità”, la democrazia italiana da quella, in generale, della modernità. Le sue proposte di ciò che è «politicamente necessario fare» non sono solo «metafore swiftiane» (come il Processo): sono proposte precise (anche se singolari) sulla scuola e sulla tv, riformabili in vista di uno sviluppo che renda l’Italia un poco più civile e un poco più libera (magari avvicinandola alle altre democrazie continentali).

Quanto il ceto intellettuale e politico italiano sia inadeguato a questo modesto riformismo, il primo decennio del Duemila lo conferma ben più del 1975. Ma Pasolini non ha mai pensato di surrogare da solo una classe dirigente che non c’è. Puntava sul ruolo collettivo di intellettuali che non tradissero e sull’ultima generazione della sinistra italiana. Non intendeva scrivere un monito “testamentario”. Non voleva farsi massacrare a Ostia. Si preparava a proporre al congresso del Partito radicale un messaggio di critica, ma anche di implicita speranza.

L’opportunità di far uscire Pasolini dalla dimensione quasi esclusivamente letteraria, per dargli una dimensione propriamente politica, è resa necessaria e urgente dal vuoto culturale, prima ancora che politico, di quanto resta della sinistra italiana. Si potrebbe pensare che l’Italia odierna della cosiddetta Seconda repubblica (cioè la Repubblica berlusconiana) sia diventata quel Paese degradato del quale egli parlava a metà degli anni Settanta.