Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

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giovedì 10 giugno 2010

Legge Bavaglio, l'italia affonda sotto i colpi della dittatura

E’ ormai un bulldozer pronto a sbaragliare gli avversari, il ddl sulle intercettazioni, altresì noto come legge bavaglio, che dopo anni di annunci e minacce approda in questi giorni al Senato, dopo l’approvazione all’unanimità ricevuta dall’ufficio di presidenza del Pdl. Giornalisti, magistrati, società civile: sono tantissimi quelli che vedono le nuove disposizioni come un mastodontico regalo alla criminalità organizzata e un’utile pezza alle disastrose figure che nomi importanti del governo e delle élites istituzionali hanno fatto dinanzi al Paese.

Quello del Governo Berlusconi è in effetti un colpo di spugna magistrale sulla prassi consolidata della clientela e del malaffare, e in più ha l’ineguagliabile merito di ferire a morte l’operato quotidiano di magistrati e giornalisti. Un capolavoro di azzecca-garbuglismo che in soli 5 articoli e 9 commi riesce a blindare la pratica e il ricorso all’intercettazione, limitandone i termini giuridici ed impedendone la pubblicazione con la minaccia di multe salatissime agli editori.

Se, al principio, l’opposizione del presidente della Camera Fini rappresentava una flebile speranza di modifica, ieri, con l’approvazione dell’innalzamento di proroga delle intercettazioni ogni 72 ore (anziché ogni 48), anche i fedelissimi di Gianfranco hanno mestamente capitolato. E’ bastato poco, insomma, per accontentare i “fratellastri” del Pdl, rintuzzati da Padron’Silvio sul fatto che le modifiche apportate sono ora definitive e che in sede di votazione alla Camera non saranno tollerati dissensi di alcun genere o sorta.

Una votazione che già nelle premesse pare sarà blindata dalla doppia fiducia, ma che potrebbe trovare uno scoglio in Napolitano: nel corso del weekend, il Quirinale ha passato di nuovo al setaccio la legge, ha confermato i suoi dubbi e li ha prontamente segnalati ai berluscones, paventando il rischio che, se il testo rimane così com’è, potrebbe anche non essere firmato.

Al di là delle dialettiche politiche che fanno da corollario a questo scempio legislativo, è importante valutare quelle che saranno le effettive conseguenze delle nuove norme. Per prima cosa le intercettazioni dovranno essere disposte da un tribunale collegiale composto da almeno 3 membri e avranno una durata massima di 75 giorni; solo in casi decretati come straordinari i pm potranno fare ricorso a 72 ore di proroga. Si è poi deciso che nel caso in cui le intercettazioni provassero reati estranei a quelli dell’inchiesta, queste non possano essere utilizzate ai fini della dimostrazione di colpa, nemmeno nel caso in cui i reati accertati dall’ascolto siano più gravi di quelli dell’imputazione.

Più volte l’Associazione Nazionale Magistrati ha tentato di denunciare che, con questi paletti, rischia di diventare impossibile scoprire i colpevoli di reati gravissimi come omicidi, rapine, estorsioni, usura, bancarotte milionarie e corruzioni, ma per Berlusconi la privacy è sacra: “Finora se avevi 15 fidanzate - ironizza il premier - finivano tutte intercettate per un tempo indeterminato” e poco importa se in nome della sacra privacy soggetti come quelli della “cricca” o delle équipes mediche del Santa Rita sarebbero ora liberi di continuare nei loro misfatti.

Ma i limiti imposti dalla legge bavaglio non interessano solo le intercettazioni telefoniche: secondo il testo infatti, le forze dell’ordine non potranno più servirsi di microspie da piazzare in ambienti privati; d’ora in poi gli indagati potranno essere video-registrati solo in flagranza di reato.
Con questo punto si disintegrano quindi le basi di tutte le inchieste anti-mafia, operazioni imperniate proprio sull’ascolto delle conversazioni in luoghi in cui i malavitosi credono di essere al sicuro: interventi magistrali come quelli svolti in casa Guttadauro, con un presidente di regione (Totò Cuffaro) che personalmente informa il boss sulle indagini a suo carico, saranno quindi cancellate dagli annali della magistratura.

Dopo aver disarmato la giustizia ci si concentra poi sull’informazione non gradita: si sancisce il carcere fino a tre anni per i giornalisti “colpevoli” di pubblicare stralci di conversazioni penalmente irrilevanti nel nome del pubblico interesse, e si comminano multe fino a 775.000 euro agli editori, i quali dovrebbero, in seno al pareggio di bilancio, evitare che si verifichino le condizioni per tali ammanchi.

Affinché poi la stampa capisca che la sua funzione è obsoleta nel regno dell’etere di Padron’ Silvio, il ddl Alfano impedisce l’uscita di qualsiasi atto giudiziario fino alla fine delle indagini e dell’udienza preliminare. Grazie a questa misura un giornale come Il fatto quotidiano dovrebbe immediatamente chiudere i battenti, mentre l’opinione pubblica sarebbe informata con anni di ritardo su fatti di scottante attualità come furono le scalate bancarie dei “furbetti del quartierino” o le liason coattate da Giampi Tarantini.

Scampata invece la possibilità di allargare a piacimento il segreto di Stato: un comma rimosso all’ultimo momento prevedeva infatti che gli uomini dei servizi potessero opporsi davanti ai giudici, anche quelli anti-mafia, in nome della riservatezza istituzionale.

Questi in sintesi i cambiamenti che entreranno in vigore subito dopo l’approvazione del ddl Alfano, modifiche blindate e che blinderanno l’impunità dei molti, troppi, che per giustizia e libertà intendono solo quella personale.

martedì 1 giugno 2010

Israele, la strage degli innocenti, la forza contro la ragione.

Portavano cibo. Medicine, vestiario. Aiuti umanitari. Portavano materiale utile a chi, bloccato nella propria terra, nell’indifferenza dei grandi e nell’impotenza dei piccoli, paga il fatto di essere nato dalla parte sfortunata del mondo: quella palestinese. Portavano una lezione di disobbedienza civile e morale; quella che, giustamente, si chiama solidarietà internazionale. Sì, internazionale, perché da tanti paesi provenivano i missionari laici della solidarietà. Soprattutto, sfidavano il blocco di Gaza, quello per il quale i legittimi proprietari di una terra da sempre loro, ne diventano i prigionieri.

E internazionali erano le acque dove la nave turca è stata assaltata. Circondandola prima e andando all’arrembaggio subito dopo, aprendo il fuoco di fronte alle proteste e alla reazione di chi non era disposto a subìre l’ennesima prepotenza. L'associazione turca IHH (Insani Yardim Vakfi), l'European Campaign to End the Siege on Gaza (ECESG), la Greek Ship to Gaza Campaign, la Swedish Ship to Gaza Campaign e il Free Gaza Movement, con l'appoggio di un coordinamento di ONG di 42 paesi, fra i quali Stati Uniti, Turchia, Grecia, Malesia, Belgio, Svezia, Indonesia e Irlanda erano i passeggeri volontari di un atto d’amore. Armati appunto di cibo, medicine e vestiti, di tutto ciò che serve dove il niente regna sovrano.

Caschi e giubbotti antiproiettili, visori notturni, mitra, gas e pistole erano invece il dispositivo ideologico degli assaltanti. Aiutare i reclusi era un affronto intollerabile, devono aver deciso a Tel Aviv. Che andava lavato col sangue. E col sangue di diciannove civili è stato lavato. Alla strage hanno aggiunto le bugie, perché l’odio, per forte che sia, ha bisogno della propaganda per essere diffuso sotto le mentite spoglie delle politiche di difesa. Hanno raccontato, da Tel Aviv, di resistenza dei passeggeri pacifisti a colpi d’arma da fuoco. Ma le immagini hanno mostrato più di un racconto, meglio di un film, peggio di quanto ci si poteva immaginare.

La reazione internazionale c’è stata; non sono risultate credibili le bugie di Tel Aviv. Abu Mazen ha decretato tre giorni di lutto nei Territori palestinesi. Il governo turco ha protestato duramente, definendo l’assalto israeliano agli inermi come “terrorismo di Stato”. Martedì, si richiesta di Ankara, si riunirà la Nato, “preoccupata”. L'Unione Europea ha sollecitato un'inchiesta accurata sul sanguinoso attacco alla flotta umanitaria e ha esortato Israele a consentire il libero fluire degli aiuti umanitari verso la Striscia di Gaza.

Gli ambasciatori dell'Unione Europea s’incontreranno a Bruxelles, in via straordinaria, per discutere della crisi. Il ministro degli Esteri francesi, Kouchner, si è detto “profondamente sconvolto” dall'azione israeliana. La Grecia, oltre alla Turchia, ha convocato l'ambasciatore di Israele ad Atene per comunicazioni. Stessa mossa da parte della Spagna, presidente di turno dell'Ue, dell'Italia, della Francia e del Belgio. Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, si è detto “scioccato” per l'attacco di Israele e ha condannato l'episodio. Gli Usa di Obama sono gli unici a misurare termini e a giocare di sponda con Israele, parlando di “circostanze da verificare”.

C’è davvero poco da verificare, se non l’esattezza della contabilità del dolore e del sangue. Dieci, diciannove o ventisei che siano le vittime cambia poco. L’assalto israeliano alla nave pacifista è stato un atto di guerra premeditata contro civili inermi. Non c’era nessun altro messaggio nell’azione se non quello d’installare il terrore in chi vi partecipava; un monito per ora e per il futuro. Gaza è bloccata e tale deve rimanere.

Chi annacqua il dolore in salomoniche distinzioni, chi sparge stupore per la violenza israeliana, vive o finge di vivere sulla luna. Sparare sui civili é consuetudine israeliana. Da sempre - e in particolare in questi ultimi trent’anni - da Sabra e Chatila in poi, passando per l’Intifada, seguendo con le eliminazioni mirate e con le operazioni militari stile “Piombo fuso”, Israele considera la striscia di Gaza (ma più in generale il Medio Oriente) un solo immenso poligono di tiro e i suoi abitanti carne da macello da utilizzare nello scacchiere regionale ed internazionale, per ribadire l’indisponibilità assoluta di Israele a stare dentro le regole del diritto internazionale. Di questo si tratta.