Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

sabato 29 gennaio 2011

Il Comune mette in "svendita" i suoi beni!!

Il Comune mette in mostra il patrimonio immobiliare destinato alla vendita. Martedì 1 febbraio alle ore 18, presso il complesso monumentale di Abbadia a Isola, l’Amministrazione Comunale di Monteriggioni presenterà il proprio piano di dismissioni immobiliari, già autorizzato dal Consiglio Comunale.

“La chiamerei operazione di marketing immobiliare - suggerisce il sindaco Bruno Valentini –perché questa assemblea pubblica serve appunto a promuovere all’esterno la conoscenza dei terreni o degli immobili che il Comune ha intenzione di alienare.

Sono pezzi di patrimonio non strategico, che serviranno a pagare nuove opere pubbliche, soprattutto per fronteggiare le limitazioni imposte dal Patto di Stabilità che rendono difficile pagare tempestivamente i fornitori”.Al meeting sono stati invitati, tramite le associazioni di categoria, le imprese edili della provincia di Siena ma la partecipazione è libera a tutti ed in particolare ai professionisti del settore”.

Piano di dismissione; operazione di marketing immobiliare; ormai le parole hanno perso il loro significato, io, questa operazione la chiamo col suo nome, sarà che sono di estrazione contadina, ma preferisco dire “pane al pane e vino al vino”!!Questa, più che una “ dismissione e un operazione di marketing immobiliare ” è una svendita di terreni prima, e di territorio poi, quando sopra ai terreni ci verranno costruite le case.( visto che i destinatari dell’incanto sono principalmente i costruttori, basta fare uno più uno che si capisce cosa ci verrà fatto su quei terreni!! )

Sicuramente è una strada che porta ad un vicolo cieco, visto che le vendita di questi beni serve a pagare le opere pubbliche e/o le mancate o ridotte entrate di provenienza statale nell’anno corrente.Quindi nell’immediato, (meglio un uovo oggi che una gallina domani), saranno compensate e coperte le opere in calendario ma per il futuro?

Per il futuro non siamo messi bene, le mancate entrate di quest’anno saranno niente al confronto dei tagli dei prossimi anni e le opere pubbliche previste sono tante e costose, e siccome i cantieri dureranno diversi anni, per coprirne i costi dovranno essere messi in vendita molti altri terreni, e cosi all’infinito, in un circolo vizioso, ma i terreni di proprietà non sono infiniti, quindi cosa succederà negli anni avvenire non lo sapremo, ma di certo se non fermiamo questo modo di operare non avremo più terreni o beni da vendere e forse dovremo ricorrere a mutui, come hanno fatto altri comuni, ma anche questa strada è incerta, oppure escogitare qualche altra alchimia finanziaria per trovare le risorse, tipo quelle già sperimentate, dove il Comune nel rilascia la concessione edilizia, magari con la “concessione” di qualche mc in più, fa firmare una convenzione ad ok dove si fa cedere dal costruttore uno o più appartamenti da ricollocare sul mercato immobiliare libero.

Più che alchimia, la chiamerei operazione di speculazione immobiliare, visto che gli appartamenti vengono rimesse sul mercato al prezzo corrente.

Oppure valutare di ridurre le opere pubbliche più “faraoniche e costose” per le meno dispendiose ma indispensabili.

Ma traspare anche un’altra cosa, la rinuncia sempre più chiara ad un uso pubblico del patrimonio in possesso dei comuni: ormai in nome di problemi di bilancio e mancanza di risorse, gran parte di questo patrimonio viene (s)venduto a privati!

lunedì 24 gennaio 2011

Dagli operai della Fiat una chance alla sinistra

intervista di Stefano Galieni a Roberta Fantozzi

A distanza di una settimana dal voto di Mirafiori sono successe molte cose.

E’ vero, ma da quel voto si deve partire e si deve continuare a sottolinearne il valore, rifiutando i tentativi di ridimensionarne la portata, di farlo cancellare dal rumore caotico della comunicazione mediatica. Come è stato sottolineato, a Mirafiori anche recententemente le mobilitazioni erano state più difficili che altrove, più pesante è l’apparato di controllo, più alta l’età media dei lavoratori. Quel risultato, dentro il ricatto micidiale messo in campo, è la dimostrazione del livello di consapevolezza e di disponibilità alla lotta che esiste nelle fabbriche di questo paese. La consapevolezza che siamo ad un passaggio “storico” in cui dentro la più grande crisi del dopoguerra, il tentativo è quello di determinare una regressione micidiale nella materialità della condizione di lavoro e nei diritti di chi lavora, facendo tabula rasa tanto delle relazioni industriali quanto della Costituzione. La disponibilità alla lotta è quella che si è determinata nel maturare di questa consapevolezza, nell’intreccio con il ruolo svolto dalla Fiom: l’investimento di fiducia guadagnato sul campo dalla Fiom in ogni passaggio di questi difficilissimi mesi, che la identificano come “il sindacato” e anche di più. Giacchè è evidente che soprattutto a partire dalla manifestazione del 16 ottobre, la capacità di mettere in connessione i movimenti, di presentare una piattaforma complessivamente alternativa ne determinano nei fatti un ruolo di supplenza politica: ad una politica che sta dalla parte sbagliata o che, se sta dalla parte giusta, non ha il livello di efficacia che sarebbe necessario.

L’attacco in atto va avanti.

Le dichiarazioni di Federmeccanica a cui sono seguite quelle di Confindustria esplicitano, senza più veli, qual è l’obiettivo “di sistema”, un obiettivo del tutto comprensibile fin dalla vicenda dell’accordo separato sul sistema contrattuale, a cui certo la Fiat ha impresso un’accelerazione estrema. E’ incredibile che a fronte di Pomigliano si sia detto che quella sarebbe stata un’eccezione e che anche dopo si sia pensato che in fondo la logica delle newco riguardava i grandi gruppi multinazionali ma non il complesso delle aziende, come ha provato a riaffermare il direttore generale di Federmeccanica. Il contratto aziendale sostitutivo di quello nazionale, significa la rottura di ogni garanzia per i lavoratori e una macelleria nelle piccole imprese dove il sindacato è più debole o inesistente. Aziendalizzazione e individualizzazione dei rapporti di lavoro sono gli obiettivo espliciti, perseguiti tanto da Federmeccanica e Confindustria, quanto dal Governo e dalla legislazione sul lavoro che è stata approvata. Basta pensare al Collegato Lavoro e alla spinta che dà all’individualizzazione del rapporto di lavoro. Diceva una compagna all’ultimo attivo nazionale, che c’è da scommettere sul fatto che i lavoratori che saranno riassunti individualmente dalla newco, nel contratto troveranno anche la clausola compromissoria: quella che rinvia per ogni controversia all’arbitrato e impedisce di accedere alla magistratura. Mentre per altro verso la bozza di Statuto dei Lavori, rende i diritti che formalmente non tocca, derogabili a seconda della congiuntura economica: i diritti diventano per legge variabili dipendenti del mercato! Aziendalizzazione e individualizzazione dei rapporti di lavoro e insieme tabula rasa dei diritti individuali e collettivi, sanciti dalle leggi e dalla Costituzione. I luoghi di lavoro e la società, trasformati in caserme, in cui chi lavora è ridotto a braccia in competizione con altre braccia: senza autonomia, possibilità di organizzazione collettiva, diritti. Invece di dare diritti a chi è precario, quello che sta avvenendo è il tentativo di generalizzare, peggiorandola, la condizione di ricatto che la precarietà impone già oggi drammaticamente a milioni di persone.

Come si fa a contrastare un attacco di questa portata?

Ci sono più leve che vanno agite. Giustamente la Fiom ha detto da subito che, se a partire dal voto di Mirafiori non si riapriva la trattativa, avrebbe percorso ogni via, compresa quella giudiziaria. Il diktat di Mirafiori e quello di Pomigliano, offrono ampia materia, poiché ancora esistono leggi e Costituzione. Non applicazione della normativa sulla cessione di ramo d’azienda - alla base di tutta l’operazione newco - malattia, diritto di sciopero e libertà di associazione sindacale: c’è n’è per tutti i gusti! Poi, c’è la lotta sindacale e politica. Lo sciopero e le manifestazioni del 28 saranno importantissime ed è estremamente positivo che su quella data ci sia stata la convergenza dei sindacati di base, mentre è squadernata l’esigenza che la Cgil proclami lo sciopero generale. Non c’è una via che non metta in campo un conflitto determinato e durevole, per cui esistono tuttavia tutte le condizioni, come dimostra proprio quella straordinaria disponibilità alla lotta presente nel voto di Mirafiori e prima di Pomigliano, nella crescente resistenza che si è determinata in questo paese. Come dimostra anche il movimento nuovo di studenti e precari. Alla gestione di destra della crisi, costituente di un modello sociale che scardina la sostanza della Costituzione va opposto un movimento costituente di un altro modello sociale. Del resto in molti si muovono, si moltiplicano le risposte: da Uniti contro la crisi, alla costituzione di Lavoro e Libertà, all’appello di Micromega. Ci sono le condizioni per la costruzione di un movimento politico di massa contro il ritorno all’800 e per un’alternativa.

E la politica?

Il PD ha mostrato il punto a cui è arrivata la sua mutazione. Nella coesistenza paralizzante delle diverse linee è evidente non solo quanto pesa non aver rimesso in discussione l’impianto social-liberista, ma i pezzi di interesse materiale che a quel partito concretamente fanno riferimento. Si conferma la giustezza della nostra analisi sull’impossibilità di una prospettiva di governo con quel partito ed è squadernata la necessità di ricostruire una rappresentanza politica del mondo del lavoro. Una sfida per noi dentro un processo di ricostruzione del massimo possibile di rapporti unitari a sinistra, con l’arco di forze che a Mirafiori ha detto NO. Costruzione di rapporti unitari, da accelerare in un quadro politico quanto mai opaco in cui è possibile che la caduta del governo sia all’ordine del giorno e questo è un’obiettivo decisivo, ma nel frattempo si registra dentro il PD la consueta presenza di opzioni diverse e, a dare retta all’intervista di Enrico Letta di qualche giorno fa, la priorità grave della ricerca di alleanze con il terzo polo.
Ricostruire la rappresentanza politica del mondo del lavoro e con questo obiettivo tessere il massimo di rapporti unitari, significa interrogarsi su quale progetto, quali fili da tirare, nella crisi e nelle specifiche caratteristiche del capitalismo italiano.

Ci sono a mio avviso quattro nodi ineludibili.
Il primo è la democrazia, perché democrazia significa quale assetto dei poteri e dunque quale peso degli interessi nella società. La necessità di una legge sulla democrazia sindacale, sul modello della proposta della Fiom, va insieme alla necessità di superare il bipolarismo. Le due cose si tengono più di quanto non si sottolinei. Alla necessità della riappropriazione dei lavoratori delle scelte sulla propria condizione di lavoro, corrisponde la necessità della riappropriazione dei cittadini del terreno della rappresentanza politica: oggi inibita dal maggioritario, cioè dal fatto che si costruiscono coalizioni forzose in cui il principale criterio è prendere un voto più degli altri, nell’omologazione degli schieramenti. Del resto il bipolarismo nasce per rendere impermeabile la sfera istituzionale dal conflitto sociale.
Il secondo è la necessità di ricomporre il mondo del lavoro. Con le sue implicazioni sul terreno della contrattazione e delle tipologie dei rapporti di lavoro. Riunificazione delle categorie, drastica riduzione del numero dei rapporti di lavoro e riaffermazione della centralità del rapporto a tempo indeterminato, riconduzione dell’area del falso lavoro autonomo alle tutele del lavoro dipendente.
Il terzo è un’iniziativa per una radicale redistribuzione delle ricchezze, in un paese in cui la sperequazione è a livelli insostenibili. Se nei quindici paesi Ocse più ricchi la quota di salario sul Pil è diminuita di 10 punti tra il 1976 e il 2006, in Italia è diminuita di 15, a favore delle rendite. E dunque patrimoniale, tassazione delle rendite, contrasto all’evasione.
Il quarto è indirizzare le risorse alla produzione pubblica di beni collettivi: politiche industriali, conoscenza, welfare. Politiche industriali: perché la bassa produttività del lavoro in Italia è conseguenza del “piccolo è bello” degli anni passati, e dell’assenza di investimenti in innovazione di prodotto, che radicalizzano la competizione sui settori saturi. Perché la crisi ecologica rende sovraordinante la riconversione dell’economia e delle filiere industriali. Politiche pubbliche: di un pubblico da rinnovare nel segno della trasparenza e della partecipazione, per ricostruire una capacità di intervento in economia che metta in discussione lo strapotere del capitalismo globalizzato. Conoscenza: per riqualificare l’apparato produttivo, ma anche per una società di donne e uomini liberi. Estensione del welfare: sia sul terreno del reddito sociale che dell’ampliamento della sfera dei servizi, in un paese in cui giovani e donne sperimentano una condizione significativamente peggiore del resto dell’Europa.

Non è un programma irrealistico nella situazione che viviamo?

Sappiamo bene che i rapporti di forza sono assai distanti dalla possibilità di realizzare domattina questi obiettivi e che i processi, non ultimo la pesante involuzione del quadro europeo, stanno andando nella direzione opposta. Quello che va costruito nel senso comune è intanto la consapevolezza che quelle politiche distruggono la società e radicalizzano la crisi. Il modello aziendalista delle relazioni industriali degli Stati Uniti che si vuole importare in Italia, con la pesante compressione dei salari e dei diritti che ha determinato, è una causa della crisi e non può perciò essere la soluzione. Questo dovremmo essere in grado di fissare. E fa un certo effetto che il Fondo Monetario Internazionale si accorga in un rapporto di fine settembre scorso, che la disoccupazione è insostenibile come lo è la crescita delle disuguaglianze, che la crisi è da domanda e le esportazioni non possono sostituire la domanda interna, che i paesi che hanno introdotto maggiore flessibilità del lavoro stanno pagando un prezzo più alto in termini di disoccupazione, che politiche fiscali restrittive generalizzate compromettono la ripresa. Questo non certo perché, per citare Wallerstein, l’FMI, sia diventato “il portavoce della sinistra mondiale”. Ma è evidente che c’è un’instabilità altissima determinata dalla crisi ed è altrettanto evidente che individuare un programma complessivo serve a ricostruire un diverso senso comune e dunque le condizioni soggettive indispensabile per una possibilità di cambiamento.
Aggiungo un ultima considerazione, ultima non per importanza. C’è la necessità di costruire un quadro che tenga insieme queste proposte. Credo che dovrebbe essere oggetto di discussione assai maggiore a sinistra quello che veniva richiamato nell’appello di questa estate dei 250 economisti e che Emiliano Brancaccio in particolare ha più volte esplicitato: la fine dell’egemonia del libero scambismo, non attraverso la ricetta di politiche protezionistiche classiche, che pure vengono attivate - se è vero come è vero che negli ultimi due anni sono state assunte 332 nuove misure protezionistiche a livello internazionale - ma l’idea che sia legittimo ripristinare meccanismi di controllo e limitazione dei movimenti di capitali, sul terreno finanziario, degli investimenti e degli scambi di merci, laddove non ci sia una remunerazione sufficiente del lavoro. Una proposta estendibile anche al campo delle protezioni sociali e ambientali, e traducibile anche tecnicamente in un meccanismo definito. Se la globalizzazione neoliberista è stata la libertà dei capitali di mettere in campo un gigantesco processo di dumping salariale e fiscale andando in giro per il mondo dove era più conveniente, è questo assunto che deve essere messo in discussione.

Come si coniuga un progetto di questo tipo con il “qui e ora”?

Io credo che servano idee lunghe - come è indispensabile attrezzare la resistenza su scala europea - ed insieme servano anche pratiche corte. Avere un progetto è indispensabile per stare dentro la costruzione del conflitto e dei movimenti. E ci sono segnali positivi, anche per quel che ci riguarda. Questo partito che si è speso generosamente nella costruzione del 16 ottobre, è in campo con forza anche ora per il 28 di gennaio. Dall’impegno dei compagni di Torino a Mirafiori, ai 130 banchetti organizzati nel Veneto per sostenere il 28, alle tantissime iniziative in corso. E sta cambiando la propria pelle. Mi ha colpito un comitato politico in Emilia dedicato interamente alle vertenze, alla costruzione di movimento, alle pratiche sociali. Tanti giovani bravissimi, e racconti carichi anche di emotività. Come quando un compagno ha raccontato che i soldi raccolti facendo arancia metalmenccanica per sostenere una vertenza, sono stati dati da quei lavoratori ai lavoratori migranti impiegati da un altra ditta, in quella fabbrica, per le pulizie. Come dire rompere sul campo le divisioni e , nella ritessitura di solidarietà, rovesciare l’immaginario del capro espiatorio. Progetto, conflitto, costruzione di un campo politico e sociale della sinistra di alternativa.


da Liberazione.

venerdì 21 gennaio 2011

Aumenta il peso dei derivati, comuni indebitati!!

I comuni di Verona e Venezia ancora alle prese con Merrill Lynch

Se chiudessero tutti i contratti derivati in essere, le amministrazioni del Nord-Est dovrebbero sborsare 99 milioni di euro. A tanto ammonta il valore di mercato dei prodotti finanziari di questo tipo acquistati da 39 enti locali delle tre regioni.

Le amministrazioni pubbliche non hanno le risorse, oggi, per far questo, e alcune di loro – Verona, Padova, Venezia – rimangono appese a cause o citazioni in giudizio che ne bloccano l'estinzione.

A Verona, in particolare, il municipio guidato da Flavio Tosi intende dimostrare come Merril Lynch, la banca d'affari che nel 2007 ha siglato con la città un derivato di 256,8 milioni, abbia applicato commissioni occulte.

Ma più passa il tempo, più diventa oneroso mantenere ed eventualmente estinguere i derivati.

I dati (della Banca d'Italia) dicono anche che il Veneto risulta essere, in questo senso, tra le regioni più penalizzate d'Italia, poiché nel territorio il rapporto tra il debito del totale degli enti e il valore di mercato dei prodotti è superiore alla media nazionale (1,38% contro l'1,1%). Meglio vanno invece le cose in Friuli-Venezia Giulia e in Trentino-Alto Adige (esente da queste problematiche).
«I classici derivati vanno chiusi appena diminuisce il loro valore di mercato in seguito al calo dei tassi di interesse – dicono gli esperti –. Inoltre, servono consulenze specializzate: la gestione di questi contratti è al limite del dilettantismo»

Il costo dei derivati pesa per 99 milioni

Il costo da sopportare per chiudere una volta per tutte i contratti dei derivati ammonta, per il totale delle 39 amministrazioni del Nord–Est coinvolte, a 99 milioni di euro. La cifra corrisponde al valore di mercato al giugno 2010, secondo i dati della Banca d'Italia. Il peso del danno dei derivati – contratti utilizzati spesso per far cassa "a pronti", a vantaggio dell'amministrazione in carica, e trasferire costi "a termine" quando il governo sarà di altri – sembra essere maggiore rispetto alla media italiana, in particolare sul Veneto, poiché il rapporto tra il debito delle amministrazioni coinvolte e il valore complessivo di mercato dei prodotti acquistati è superiore alla media nazionale.

In Veneto a fine 2009 il debito delle amministrazioni ammontava a 6,484 miliardi. A giugno 2010 se gli enti locali avessero chiuso i contratti derivati accesi nel passato avrebbero dovuto soffrire una perdita pari a 90 milioni. Il rapporto tra questi 2 valori (90 milioni e 6,484 miliardi) è pari all'1,38 per cento. Se confrontato il risultato di questo rapporto con quello medio nazionale (1,1%) se ne ricava un differenziale (1,38% - 1,1% = 0,28%) che indica, essendo maggiore di quello medio nazionale, quanto i derivati stiano producendo nel Veneto danni superiori rispetto alla media nazionale.

Da dicembre 2005 a giugno 2010 si è anche modificato il costo per l'eventuale chiusura delle operazione legate a "derivati": esso è passato dagli iniziali 18 milioni a 90 milioni. Ma il forte incremento è avvenuto negli ultimi mesi (maggiore costo di 30 milioni da fine 2009 a giugno 2010). Spalmando il costo sul numero degli enti pubblici coinvolti si ricava il dato medio per ente: a dicembre 2005 era pari a 621mila euro mentre a giugno scorso era salito a 3 milioni. Altro dato interessante è l'evoluzione di questo costo rispetto a quello medio nazionale. A dicembre 2005 nel Veneto era di 621mila euro contro 1,709 milioni del dato nazionale, mentre a giugno scorso era di 3 milioni contro 3,3 milioni medi nazionali. Quindi la situazione del Veneto è molto peggiorata rispetto al dato medio italiano.

Visto l'elevato costo che necessita una eventuale chiusura di un prodotto derivato, le amministrazioni sono ben lungi dal poterlo fare. Notizie positive arrivano però da due sentenze del tribunale amministrativo. Il 5 novembre scorso il Tar della Toscana ha emesso una sentenza che pare poter offrire agli enti pubblici la possibilità di stracciare i contratti sui derivati qualora dovesse emergere che nel contratto non erano indicati chiaramente dei costi o clausole onerose. Il tribunale amministrativo ha infatti approvato – con effetto retroattivo – l'annullamento in autotutela da parte della provincia di Pisa, dei due swap stipulati nel 2007 con gli istituti di credito Crediop e Depfa come controparti. Il contratto, infatti, sarebbe stato gravato – così hanno rilevato gli esperti esterni contattati dalla provincia di Pisa – da costi occulti per 1,4 milioni di euro. Alla base dell'annullamento, la violazione del "principio di convenienza economica" fissato dalla finanziaria del 2002.

Nei giorni scorsi anche il tribunale civile di Rimini si è pronunciato in senso favorevole ad un ente pubblico che, dopo aver rinegoziato tre contratti di interest rate swap, ha addirittura peggiorato la sua posizione finanziaria. Il giudice ha emesso una sentenza di nullità del contratto stipulato.

Per quanto riguarda Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige la situazione è decisamente migliore rispetto al Veneto. In Friuli-Venezia Giulia a fine 2009 il debito delle amministrazioni ammontava a 2,840 miliardi. A giugno 2010 se le amministrazioni locali avessero chiuso i contratti derivati accesi nel passato avrebbero dovuto soffrire una perdita pari a 9 milioni. Il rapporto tra questi 2 valori (9 milioni e 2,840 miliardi) è pari allo 0,32%, percentuale inferiore alla media nazionale, il che indica quanto i derivati stanno producendo nel Friuli-Venezia Giulia minori danni superiori rispetto alla media nazionale. Da inizio 2010 a giugno, tuttavia, all'opposto di quanto accaduto nel Veneto, in questa regione vi è stato solo un leggero aumento del costo (da 8 a 9 milioni). Per quanto riguarda il costo medio per ente a dicembre 2005 era pari a 3,5 milioni di euro mentre a giugno scorso era sceso a 1 milione (contro 3,3 milioni medi nazionali).

In Trentino-Alto Adige a fine 2009 il debito delle amministrazioni ammontava a 1,169 miliardi. A giugno 2010 le amministrazioni locali non avevano più nessun contratto derivato acceso. Unico caso in Italia assieme alla Valle d'Aosta.

giovedì 20 gennaio 2011

LIVORNO - SABATO 29 GENNAIO 2011

Comunisti insieme per l’opposizione di classe e l’alternativa di sistema

ricostruire e rifondare il partito comunista,

rilanciare la sinistra anticapitalista,

costruire un vasto fronte di resistenza alla crisi

“Torniamo al centro del conflitto sociale, no ai ricatti Fiat, basta con le politiche governiste”


Davanti a noi abbiamo una devastante crisi economica. Non è una semplice crisi finanziaria e nemmeno una normale crisi ciclica ma – su questo c’è ormai un consenso generalizzato, nonostante la propaganda dell’economia politica - una crisi più profonda e “di sistema”; probabilmente la crisi più grave di valorizzazione del capitale da molti decenni a questa parte.

I padroni cercano nuove e più efficaci strade per evadere le tasse, comprimere i salari e sottrarsi alle loro colpe e responsabilità. Sappiamo bene, infatti, che la crisi non è la stessa per tutti e che sono le classi sociali più disagiate - quelle classi che Gramsci chiamava «subalterne» - a pagarne i costi.

Quei soggetti sociali che fino a non poco tempo fa sarebbero stati senz’altro definiti “proletari” – il lavoro dipendente, il lavoro autonomo parasubordinato, il precariato di massa, la manodopera giovanile in formazione - si trovano oggi di fronte ad un ricatto quotidiano come quello messo in atto dalla Fiat di Marchionne: o accetti di venderti al prezzo più basso, rinunciando ad ogni diritto acquisito, oppure sei fuori e la tua stessa sussistenza è a rischio. Inoltre, per la prima volta dal dopoguerra questi ceti si trovano a fronteggiare la crisi senza una propria qualificata rappresentanza politica; senza una rappresentanza, cioè, che sia in grado di difenderne gli interessi immediati ma anche di proporre un’alternativa complessiva e di sistema.

Questa assenza, questa vera e propria catastrofe della sinistra politica che si è resa manifesta dall’aprile 2008, rende ancora più grave la crisi economica, perché alimenta una pericolosa guerra tra poveri – Nord contro Sud, bianchi contro neri, particolarismo contro particolarismo, lavoro contro ambiente… -, e le dà il segno di un’egemonia reazionaria. Ma quest’assenza e questa catastrofe non sono un fenomeno casuale e contingente. Sono semmai la conseguenza di un fatto molto semplice: tutti gli spazi di agibilità per ipotesi neoriformiste volte a disegnare un “capitalismo dal volto umano”, quali quelle tentate fino a qualche anno fa, sono oggi chiusi. Detto in soldoni: non c’è più una lira da redistribuire e il welfare tradizionale è definitivamente tramontato – a meno, aggiungiamo, di non voler mettere in discussione le cosiddette compatibilità ed il sacro vincolo della proprietà privata (profitti, grandi patrimoni, spese militari, evasione fiscale...).

Naturalmente, il padronato e la classe dominante stanno approfittando di questa crisi internazionale per distruggere lavoro, diritti, democrazia e ambiente, nella speranza di far ripartire i profitti a livelli per loro vantaggiosi nella competizione globale. Nel frattempo, i metalmeccanici e gli studenti, i precari e i lavoratori immigrati, i senza casa e i disoccupati, occupano i tetti e scendono nelle piazze per resistere alla crisi, ma i conflitti sociali nel paese, che pure si stanno moltiplicando, sono sparpagliati e privi di una sintesi comune. In altre parole, la lotta di classe c'è eccome, ma viene agita solo dai padroni verso le classi subalterne.

Come possiamo essere utili a questo movimento?

Non certo illudendoci di cavalcarlo, di egemonizzarlo o di imporre una qualche linea dall’alto. Ma nemmeno cercando di dimostrarci affidabili al PD e ai settori padronali più “moderni”, scegliendo in altre parole l’alleanza con Montezemolo invece che con Marchionne, come qualcuno purtroppo continua a fare. C’è bisogno, al contrario, di rifare su basi nuove lo stesso faticoso lavoro che ha portato, più di un secolo e mezzo fa, alla costruzione del movimento operaio. C’è bisogno, cioè, di riaggregare un vasto fronte di resistenza anticapitalista, che i comunisti devono sostenere apertamente e del quale devono provare ad essere protagonisti.

Non è sufficiente oggi essere meri spettatori o proporsi come improbabili sponde esterne. Il rischio è che le speranze di cambiamento sociale che le piazze esprimono vengano nuovamente frustrate dalle politiche inevitabilmente filo-capitalistiche di nuovi “governi amici”. In questo senso, ci pare chiaro che i tentativi di coinvolgere la sinistra di classe nelle primarie del PD sostenendo il leaderismo di Vendola, esattamente come la cancellazione della effimera svolta di Chianciano e la riproposizione di alleanze governiste da parte della FdS, ci riporteranno sulla stessa strada, sbagliata e fallimentare, dell’Arcobaleno.

Se vogliamo ricostruire e rifondare un partito comunista forte e credibile, questo è il momento della lotta e della costruzione di una vasta opposizione anticapitalista. D’altro canto, non sono sufficienti e adeguate nemmeno le risposte minoritarie finora messe in campo, con micro-partitini o col rifugiarsi in un movimentismo antipolitico inconcludente. Questa strada rischia solo di alimentare la diaspora silenziosa e la frammentazione delle forze comuniste e anticapitaliste.

Noi riteniamo, al contrario, che sia necessario urgentemente:

- agire per unire, collegare e salvaguardare le energie conflittuali, le militanze dei compagni/e collocati sia dentro che fuori i partiti comunisti della FdS; difendere le comunità resistenti e le esperienze politiche, in particolare quelle di base; mettere in contatto le diverse realtà critiche presenti nel paese, ancora scollegate e frammentate, al di là dei riferimenti a differenti aree e organizzazioni, per impedire che il dissenso diventi sfiducia e disimpegno;

- sviluppare tavoli di confronto permanenti tra tutte le esperienze comuniste ed anticapitaliste, sociali e politiche, disponibili ad una ricerca e ad un lavoro comune, e questo rigorosamente sul terreno dei contenuti, delle analisi e delle concrete esperienze nelle lotte sociali, proponendo la convergenza su battaglie comuni per costruire un processo di riaggregazione su contenuti di classe;

- rafforzare, monitorare e collegare la presenza dei/lle compagni/e, dei circoli e sezioni di PRC e PdCI, delle varie forze e realtà comuniste, nelle lotte sociali, agendo in maniera dialettica (impegno diretto, proposta, sintesi e orientamento politico nei/dei movimenti) e facendo anche la necessaria chiarezza sulla contraddizione sempre possibile tra impegno sociale e rappresentanza politico-istituzionale, che spesso rischia di distruggere la credibilità della nostra iniziativa politica;

- riaffermare la necessità di un partito comunista di quadri con un radicamento di massa, ma riempire questa enunciazione, che in sé rischia di essere formalistica e persino feticistica, di contenuti concreti. C’è bisogno di una riflessione di fondo su questioni centrali come la linea politica, la democrazia interna, la forma partito, il contrasto alla formazione e alla separatezza dei ceti politici, la critica alla “doppiezza”, all’istituzionalismo, al governismo così come al settarismo dogmatico. Occorre una adeguata formazione teorica e pratica, una rinnovata rielaborazione sulla questione giovanile e su quella meridionale, la differenza di genere, sul rapporto tra ambiente e contraddizione di classe, sul senso della militanza e la funzione indispensabile dell’opposizione, sulla gestione delle risorse.

- riaggregare su programmi e obiettivi concreti una sinistra anticapitalista, un ampio fronte di realtà sociali e politiche presente nei luoghi del conflitto, con l’obiettivo di ricostruire una rappresentanza autonoma e indipendente della classe e favorire la costituzione di un Blocco Sociale antagonista agli interessi del capitalismo.

Proponiamo un primo incontro nazionale a tutti/e i/le compagni/e, alle forze comuniste e anticapitaliste e a tutte le realtà interessate a questo percorso.

L’incontro si terrà sabato 29 gennaio 2011 a Livorno, perché l’occasione del 90° anniversario della fondazione del PCdI (21 gennaio 1921) non sia una mera celebrazione retorica ma rappresenti un’occasione per ripensare e rilanciare l’unità e l’autonomia dei comunisti nel nostro paese. Per tornare ad essere il cuore dell’opposizione di classe, per un’alternativa di sistema e non per un’alternanza di governo.

sabato 15 gennaio 2011

A Mirafiori riparte la lotta di classe, perchè la dignità non ha prezzo.

I risultati del referendum tra i lavoratori Fiat a Mirafiori non lasciano spazio ad interpretazioni, nonostante la spudoratezza di certi commenti provenienti da altre sigle sindacali.
Il 47% di “No” segna oltre ogni dubbio la vittoria della dignità al cospetto di chi ha inscenato una vergognosa campagna ricattatoria contro gli operai pretendendo, in cambio di investimenti, la rinuncia a diritti indisponibili.
La Cgil si è schierata a fianco della sua categoria, rivendicando la dignità del sindacato maggiormente rappresentativo e di tutti i lavoratori, e ha poi assistito indignata alle intollerabili prese di posizione del premier Berlusconi a sostegno dell'irresponsabilità dell'ad Fiat Marchionne.
Ora governo e azienda devono prendere atto dell'esito del voto ben aldilà della risicatissima vittoria del “Sì”. La competizione al ribasso - quella che incide sulla riduzione del costo del lavoro e delle garanzie sociali lasciando intatte le vere ragioni del pauroso deficit di competitività del Lingotto - non aiuterà certo la Fiat a stare sul mercato globale.
E' dunque necessario che i vertici aziendali cambino immediatamente atteggiamento, rispettando fino in fondo le prerogative di tutti i dipendenti preoccupati sia per il loro futuro sia per la lesione sistematica dei diritti prevista dall'accordo stesso. La vertenza resta dunque aperta.
E qualora dovessimo continuare ad assistere a provocazioni – a cominciare da nuovi ricatti contrapposti alla sacrosanta protesta – noi lanceremo immediatamente la proposta di nazionalizzazione della Fiat. Perché stiamo parlando di un patrimonio dell'Italia e dei suoi lavoratori.


Nonostante il ricatto morale e materiale al quale erano sottoposti, " o voti si o ti mandiamo in mezzo ad una strada" , quasi la metà complessiva degli oltre 5.000 lavoratori dello stabilimento FIAT di Mirafiori ha deciso eroicamente di non piegarsi ai "dictat" di Marchionne e al suo piano industriale neo-schiavista . Decisivo per lo spostamento del verdetto finale in favore del SI è stato il voto favorevole dei 500 impiegati e dirigenti intermedi i quali partecipavano al voto anche se l'accordo sui quali erano chiamati ad esprimersi non toccava minimamente le loro posizioni contrattuali.

La memoria non può che tornare quindi al 1980 quando la cosiddetta "marcia dei colletti bianchi" impose la fine dell'occupazione dello stabilimento Torinese che durava ininterrotta da 35 giorni, segnando forse la più cocente sconfitta del movimento operaio del dopoguerra. Da allora, in questi ultimi trent'anni, la classe operaia ha vissuto il più brutto periodo della sua storia: ha visto l'introduzione del lavoro precario e interinale, il diminuire dei salari, l'innalzamento dell'età pensionabile e la perdita dei diritti sindacali. Il tentativo attuale del padronato, del quale gli accordi di Pomigliano e Mirafiori sono solo rappresentazioni, va oltre anche a queste sconfitte: si vuole di fatto, riportare i metodi produttivi all'800 e le condizioni dei lavoratori a quelle dello schiavismo.

Ieri come oggi, per perseguire i loro interessi, i padroni hanno trovato degli alleati all'interno dei lavoratori stessi, nei sindacalisti "gialli" e nei capi-reparto. Laddove non può la disperazione personale dell'operaio arriva il padrone a corrompere, a comprare,dividere, mentire e ingannare: A mettere gli uni contro gli altri i lavoratori.

Resta il fatto che nei centri produttivi dello stabilimento, nelle carrozzerie il NO ha vinto ovunque, e senza il voto dei "quadri" asserviti, il NO avrebbe vinto, anche se di misura, nel totale dei lavoratori. Marchionne non esce quindi per nulla vincitore da questo scontro. Da oggi infatti egli è consapevole che la maggioranza degli operai lo avverserà continuamente, che questi potranno contare nel futuro anche dell'appoggio di chi ha votato SI solo per disperazione, che attorno alla resistenza eroica degli operai di Mirafiori si sta serrando un fronte unitario di lotta pronto a mettere in piedi uno sciopero generale ad oltranza.

Insomma se trent'anni fa Mirafiori segnò la fine della lotta di classe in Italia, oggi Mirafiori può e deve diventare l'emblema e il punto di partenza di una nuova stagione di lotta operaia.

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Non c'è nessuna vergogna nella resa degli operai della Fiat. Ciò che doveva avvenire è avvenuto implacabilmente. La classe operaia italiana è livellata sotto il rullo compressore della reazione capitalistica. Per quanto tempo? Nulla è perduto se rimane intatta la coscienza e la fede, se i corpi si arrendono ma non gli animi.
Gli operai della Fiat per anni e anni hanno lottato strenuamente, hanno bagnato del loro sangue le strade, hanno sofferto la fame e il freddo; essi rimangono, per questo loro passato glorioso, all'avanguardia del proletariato italiano, essi rimangono militi fedeli e devoti della rivoluzione.
Hanno fatto quanto è dato fare a uomini di carne ed ossa; togliamoci il cappello dinanzi alla loro umiliazione, perché anche in essa è qualcosa di grande che si impone ai sinceri e agli onesti.

(tratto da Antonio Gramsci, "L'Ordine Nuovo", 8 maggio 1921)

venerdì 14 gennaio 2011

Resisteremo al fascismo aziendale

Questo inizio di anno 2011 non ha portato nessuna buona notizia sul fronte del lavoro e dei diritti in generale, calpestati ad ogni piè sospinto, basti pensare che Marchionne è stato eletto l'uomo dell'anno dal Sole 24 ore, giornale della Confindustria, proprio quella confederazione degli industriali che Marchionne ha deciso di lasciare, per essere libero da vincoli per intraprendere il "suo piano di rinascita" ( da non confondere con quella di Gelli ) "industriale ovviamente", per un mondo del lavoro al ribasso.
Non mi resta altro che lasciare spazio alle parole di Cremaschi che riassumono tutto il dramma dell'Italia di oggi.



Comunque vada il referendum a Mirafiori noi andremo avanti. La lotta contro l’autoritarismo e il fascismo aziendale di Marchionne e per un lavoro dignitoso e libero continuerà.

E’ stata la Fiat a volere questo referendum, come hanno mostrato anche le goffe richieste di alcuni sindacati di rinviarlo. E’ stata la Fiat a volere il giudizio di Dio conclusivo sul contratto nazionale e sui diritti e le libertà sindacali.

I lavoratori di Mirafiori dovrebbero votare per conto di tutti i lavoratori italiani la rinuncia a tutto. Questo referendum non ha alcuna legittimità formale e morale, è solo una brutale estorsione a danni di lavoratrici e lavoratori che, in condizione libera, non avrebbero un dubbio a dire di no. La Fiat per prima ha dichiarato di non essere disposta ad accettare il no minacciando la chiusura della fabbrica. Perché allora, nel caso opposto, dovrebbe farlo la Fiom? Sapendo che anche coloro che voteranno sì lo faranno con la rabbia e le lacrime agli occhi?

Che il principale partito di opposizione, che si autodefinisce democratico, non veda la lesione dei principi costituzionali della democrazia in questo plebiscito autoritario, è la più grande vittoria di Berlusconi. Questo referendum è illegittimo formalmente e moralmente, anche perché secondo l’accordo dovrebbe essere l’ultima volta che si vota. Come in tutte le tirannie, si vota di non votare mai più. Non si eleggeranno più le rappresentanze sindacali, e le assemblee di oggi dovrebbero essere le ultime libere. Le iscrizioni alla Fiom saranno proibite, così come qualsiasi forma di libera scelta sindacale. Come chiamare questo, se non fascismo aziendale? D’altra parte, per imporre le condizioni di supersfruttamento che vuole la Fiat si può solo creare un regime di ricatto permanente. Anche dopo il voto, se dovesse passare il sì, i lavoratori subiranno sempre la minaccia o del licenziamento individuale, con le clausole capestro che saranno costretti a firmare uno
per uno, o della chiusura della fabbrica, come è scritto nell’accordo.

Di fronte a questa vergogna tutte le parole paiono insufficienti e forse solo le lacrime del pensionato Fiat, comparse su tutte le tv, esprimono il dramma. Chi vede in questo il progresso o è un mascalzone o è un’idiota.

Comunque vada il voto i lavoratori non resteranno soli perché avranno la Fiom al loro fianco, dentro e fuori dalla fabbrica, nell’iniziativa sindacale così come di fronte ai giudici. La Fiom non firmerà mai questo accordo e continuerà la lotta per rovesciarlo. Non ci sono riusciti i tedeschi, nel 1945, a distruggere Mirafiori, non ci riuscirà Marchionne oggi.

Giorgio Cremaschi