Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

sabato 20 febbraio 2010

l’energia deve essere prodotta là dove viene consumata.

Molto semplice. Ma è fattibile?


Evidentemente sì, se l’intera Provincia Autonoma di Bolzano ha deciso di crederci. Proprio ai Colloqui di Dobbiaco, infatti, è arrivata la dichiarazione ufficiale dell’Alto Adige che ha deciso di eliminare la sua dipendenza dai combustibili fossili entro il 2020.

L’Assessore all’Ambiente e all’Energia, Michl Laimer, ha dichiarato che “le fonti energetiche rinnovabili sono disponibili in loco, la capacità di sfruttamento è in fase di sviluppo, garantiscono la continuità dell’approvvigionamento, consentono di creare nuovi posti di lavoro, hanno prezzi stabili, sono eco-sostenibili, non danneggiano l’ambiente ed hanno emissioni molto basse o pari a zero”. E gli amministratori locali sono convinti che già entro il 2013 l’Alto Adige potrà dipendere al 75% da fonti rinnovabili, e completare il processo in altri sette anni.



Questo in un territorio che in termini ambientali è già un’isola felice: ad oggi il ricorso a fonti energetiche rinnovabili è al 56%. Un dato strabiliante se si confronta con quello italiano (5,2% la quota delle rinnovabili nel 2005) ed eccellente anche nel raffronto con la performance nazionale migliore d’Europa, quella della Svezia (39,8% nel 2005). L’elettricità altoatesina è attualmente prodotta integralmente da centrali idroelettriche che forniscono un’energia che eccede del 50% i bisogni locali. È la domanda termica ad essere coperta, per ora, al 44% con combustibili fossili, e sono appunto questi che gli amministratori locali intendono rimpiazzare nel 2020.

Con quali fonti? Si punta sull’eolico, ma soprattutto sulle centrali solari (sia per l’energia elettrica che per quella termica) e a biomasse.

Sul fronte del fotovoltaico, in Alto Adige si concentra già il 50% degli impianti presenti in Italia, e si è scelto con decisione di proseguire su questa strada con l’intenzione di arrivare ad installare un impianto sul tetto di ogni casa.

Sul fronte delle centrali a biomasse e biogas, invece, – che si avvalgono del patrimonio boschivo, degli scarti della lavorazione del legno, delle deiezioni animali e dei rifiuti organici – la Provincia ha predisposto nuovi piani di taglio delle piante vecchie e di riforestazione, anche in un’ottica di cura continua e meticolosa del territorio e delle foreste.

In tutto questo è molto forte l’intenzione di insegnare ai cittadini ad amministrare meglio, e direttamente, l’energia che producono e utilizzano. L’esempio trainante è quello della centrale a biomasse di Dobbiaco-San Candido, grazie alla quale Dobbiaco ha vinto per il secondo anno consecutivo il premio “Comuni rinnovabili” di Legambiente. Questa centrale non è nelle mani dei privati, ma è gestita da una cooperativa di cui fanno parte 700 famiglie e il Comune, e beneficiano di 600mila euro di utili l’anno. Come li useranno? La loro idea è di comprare la vicina centrale idroelettrica, di proprietà privata.

Infine, in Alto Adige non si tralasceranno il geotermico e l’idrogeno: i 291 piccoli impianti geotermici attuali aumenteranno di numero, mentre stazioni di servizio che distribuiranno l’idrogeno come carburante per l’autotrazione saranno installate sul tratto dell’Autobrennero che va da Verona a Monaco di Baviera. Questo nuovo combustibile sarà prodotto da impianti eolici al valico di frontiera (con la partecipazione di Austria e Baviera), idroelettrici a Bolzano e fotovoltaici a Rovereto.

Tutto questo è considerato dall’assessore Laimer come un obiettivo “assolutamente realistico”: battere la strada delle rinnovabili e presentarsi alla prossima Conferenza sul clima di Copenaghen con un progetto realizzabile si può. L’Alto Adige dimostra così che l’autarchia energetica non è un risultato alla portata solo di comunità isolane o piccoli centri abitati.

Un esempio che andrebbe auspicato anche in Toscana, dove il sole, la geotermia, l’eolico sono risorse che la natura ci ha fornito, forse anche più dell’Alto Adige stesso, invece sento ancora parlare di rigassificatori di inceneritori ed infine del nucleare!!!, non capisco cosa ci impedisce di essere una regione ad impatto zero, dove tutti noi potremmo trarne soltanto benefici, forse ancora una volta la politica perde l’occasione per riavvicinarsi alla gente!!!

venerdì 19 febbraio 2010

Persi 5 milioni di ettari di terreni agricoli in 40 anni

L'Italia ha una lunga storia legata alle calamità naturali, ma negli ultimi anni tra alluvioni, terremoti, slavine ed eruzioni vulcaniche la situazione sembra veramente degenerare. Le cause sarebbero, secondo una ricerca della Coldiretti guidata dal Professor Angelo Frascarelli, sia i cambiamenti climatici che le progressiva e sempre più preoccupante sottrazione di terreni all'agricoltura.

Questi due fattori insieme, oltre ovviamente alla cattiva amministrazione del territorio e all'abusivismo, sono infatti la causa del grave dissesto idrogeologico del nostro paese, dissesto che minaccia ben 5581 paesi, ovvero il 70% dei comuni italiani. Di questi 1700 sono a rischio frana, 1285 a rischio alluvione, mentre 2596 a rischio di entrambe le tipologie di calamità.

Se il riscaldamento climatico è una sfida globale che “globalmente” deve essere affrontata - senza nulla togliere a ciò che ciascuno di noi può fare - la sottrazione dei terreni all'agricoltura è invece un problema tutto italiano. Negli ultimi 40 anni, dice la ricerca della Coldiretti, l'Italia ha perso 5 milioni di ettari di terreni agricoli, ovvero il 25% di quanti ne aveva, appunto, 40 anni fa. Per farvi un'idea delle dimensioni vi basti sapere che questa cifra corrisponde a due volte la superficie della Lombardia.

Ma come vengono utilizzati questi terreni? Gli usi sono i più diversi ma le voci principali raccontato una destinazione ad uso industriale, residenziale, civile e infrastrutturale. Riassumendo: la città si sta mangiando la campagna!

La situazione è in rapido peggioramento; ormai solo molto raramente quando un terreno viene venduto è un imprenditore agricolo a comprarlo. In grande aumento in questi ultimi anni l'acquisto di terreni per la costruzione di centrali a pannelli fotovoltaici o a biomassa, con tutte le valutazioni pro e contro che questi due tipi di industrie energetiche si portano dietro. "La grave iniquità di cui è vittima il settore agricolo” - sostiene il Presidente della Coldiretti Sergio Marini – “mette a rischio il futuro delle imprese e con la scomparsa del terreno agricolo si perdono per sempre paesaggio, biodiversità, cultura e ambiente".

Paesaggio, biodiversità, cultura, forse sono queste le perdite più grosse. In un paese in cui la cultura viene ormai da tempo data per scontata, oppure considerata - sbagliando - qualcosa che semplicemente c'è e ci sarà sempre, la perdita progressiva di questo micro-mondo agricolo è un ulteriore dramma che si aggiunge alle migliaia di morti per alluvioni, terremoti e frane.

Arriverà il giorno in cui stanchi delle continue morti e di un mondo fatto solo di un asfalto sporco e puzzolente molto più di un campo concimato, gli uomini cercheranno di tornare alla terra, di coltivarne i frutti e di recuperarne le tradizioni, ma, forse di tradizioni si sarà persa la traccia e di terra ci sarà solo quella dura e arida di uno spoglio "giardino condominiale".

mercoledì 17 febbraio 2010

Mamma, Papà: mi sbattezzo!!!

Ingerenza della chiesa? forse una soluzione c'è...
Stamani mi è arrivato un link, il titolo può sembrare curioso ma l'articolo fa alcune considerazioni interessanti, per questo voglio pubblicarlo...

Che l’Italia sia uno dei campioni del cattolicesimo lo dicono i numeri e lo testimonia al meglio quella Città del Vaticano che da due millenni ci portiamo in seno alla capitale. Che però l’affezione alla chiesa non sia più quella dei tempi d’oro, lo si vede dai banchi vuoti che ogni domenica spogliano le navate di quella che è l’esperienza topica del cristiano, ovvero la messa. Le ragioni di questo fenomeno sono legate all’inevitabile evoluzione della società e dei costumi, alla discordanza di pensiero riguardo a temi civili ed etici o al semplice disinteresse: essere laici, atei o agnostici è sempre stata più che altro una scelta personale, che all’atto pratico non implica conversioni formali come nei casi di affiliazione ad un’altra religione.

Per tutte queste persone i sacramenti impartiti durante l’infanzia sono più che altro ricordi di enormi abbuffate, parenti e regali e non rivestono più il significato originario di missione apostolica e comunione con Dio. Nonostante ciò, tutti coloro che pur non praticando sono stati battezzati, risultano nei registri vescovili, vengono perciò computati in quel 96% di popolazione cattolica e, secondo il Catechismo Ufficiale della Chiesa “non appartengono più a se stessi […] perciò sono chiamati […] a essere obbedienti e sottomessi ai capi della Chiesa”.

Vista da quest’ultima prospettiva, l’appartenenza alla confessione cattolica è un legame inscindibile con un’autorità che per quanto sia di matrice morale ha un’innegabile margine di azione temporale.
Per questo da circa vent’anni l’UAAR (Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti, di cui è presidente onorario l’astrofisica Margherita Hack) sta promuovendo iniziative volte a promuovere la non aconfessionalità dello Stato e delle sue istituzioni, arrivando ad ingaggiare una battaglia legale con il Vaticano per il riconoscimento formale della volontà di uscire dalla Chiesa cattolica.

Nel 1995, dopo aver ottenuto solo risposte evasive dalle autorità ecclesiastiche, gli azionisti dell’UAAR lanciavano un appello a Stefano Rodotà, allora garante per la tutela della privacy, in cui chiedevano espressamente di intervenire nei confronti delle parrocchie refrattarie alla cancellazione del battesimo. Dopo 4 anni, nel 1999 arriva la risposta del garante che, pur riconoscendo il fatto che il battesimo è incancellabile in quanto fonte di un fatto storicamente avvenuto, decreta la possibilità di far annotare la personale volontà di apostasia e di non essere quindi più formalmente “figli della chiesa”. Da quel momento in poi, l’UAAR ha mobilitato una campagna permanente per informare sulla pratica dello sbattezzo e combattere quel nicodemismo così diffuso entro i nostri confini geografici.

Il meccanismo codificato dalla giurisprudenza canonica e statale è di una semplicità estrema: è necessario conoscere la parrocchia nella quale si è ricevuto il battesimo ed inoltrarle una raccomandata con ricevuta di ritorno in cui si esplicita la propria volontà di uscire formalmente dalla Chiesa cattolica - è inoltre possibile scaricare i moduli dal sito http://www.uaar.it/laicita/sbattezzo. Entro 15 giorni il parroco è tenuto per legge a rispondere con una lettera in cui conferma di aver annotato sull'atto di battesimo e/o sul registro dei battezzati quanto richiesto dallo “sbattezzando”. Una volta avvenuto l’atto formale, questo comporta per il richiedente l’esclusione da tutti i sacramenti, l’impossibilità di fungere da padrino o madrina e la privazione delle esequie ecclesiastiche qualora non ci sia stato un pentimento previo alla morte.

Ad oggi non sono ancora disponibili le cifre esatte sulla diffusione del fenomeno e in molti hanno già bollato questa rivendicazione come una goliardata anticlericale-anarchico-comunista ma la pratica dell’apostasia significa soprattutto rivendicare la propria identità. Pensiamo infatti a tutti quei gruppi di persone che vengono ben poco velatamente osteggiati dalle istituzioni vaticane, come gli omosessuali, le donne e il loro corpo, i conviventi, i divorziati: per questi soggetti il battesimo è un’incongruenza riscontrabile in ogni pronunciamento dottrinale e in tutte quelle chiusure dogmatiche che impediscono ogni tipo di partecipazione attiva alla comunità cristiana.

Sbattezzarsi è anche una presa di posizione politica di fronte agli atteggiamenti d’ingerenza cui il papa ed i vescovi ci hanno abituato: dalla condanna del profilattico espressa un anno da fa da Benedetto XVI, alle vere e proprie dichiarazioni di guerra che hanno interessato il referendum sulla legge 40 sono molti gli esempi in cui buona parte della popolazione italiana, pur essendo battezzata, ha intimamente o attivamente dissentito dai dettami di San Pietro.

Qui non si vuol certo fare l’apologia dello sbattezzo, ognuno ha il diritto di credere in ciò che gli è più congeniale e di comportarsi di conseguenza. Certo è, però, che secondo la sentenza della Corte Costituzionale n. 239/84, l’adesione a una qualsiasi comunità religiosa deve essere basata sulla volontà della persona ed è molto difficile che questa possa essere riscontrata nei bambini dai 3 ai 5 mesi; se a questo si aggiunge che per la legge 196/2003, l’appartenenza religiosa è considerata un dato personale sensibile - esattamente come l’appartenenza sindacale e politica, la vita sessuale e l’anamnesi medica - ben si capirà come mai oggi l’apostasia formale sia un esigenza sempre più sentita.
di Mariavittoria Orsolato

lunedì 15 febbraio 2010

Elezioni Regionali, par condicio, ci pensa il governo...a toglierla di mezzo!!

L'informazione durante la fase più calda della campagna elettorale per le regionali sarà in mano ai Tg nazionali e locali.

È uno degli effetti sostanziali del regolamento approvato martedì, in tarda serata, dalla commissione di Vigilanza.

Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, è intervenuto ieri per chiedere di «abolire la par condicio, una legge assurda e liberticida.

La mia idea è di assegnare a ogni partito uno spazio proporzionale ai propri voti». Quanto alla decisione della Vigilanza, secondo il premier «ha pesato il fatto che la classe politica si proponga in trasmissione pollaio e che queste risse continue abbiano contribuito molto ad abbassare l'apprezzamento della politica da parte dei cittadini».
La frase-chiave del regolamento varato dalla Vigilanza è questa: «Le trasmissioni d'informazione, con l'eccezione dei notiziari, a partire dal termine ultimo per la presentazione delle candidature, sono disciplinate dalle regole proprie della comunicazione politica». L'opposto, tra l'altro, di quello che stabilisce la legge sul par condicio del 2000 che distingue nettamente la comunicazione politica dalle trasmissioni d'informazione e approfondimento. Il periodo è quello degli ultimi 30 giorni prima del voto regionale, previsto per il 28 e il 29 marzo, inclusi gli eventuali ballottaggi dell'11 e 12 aprile. Secondo Pierluigi Bersani, segretario del Pd, «la decisione della Vigilanza va rivista perché tocca profili di libertà.

La preoccupazione dei radicali è storica ed è quella di vedere garantito l'accesso; la preoccupazione del centrodestra, altrettanto storica, è di chi vuole ovattare la realtà e nascondere i problemi». Di rivedere il testo non se ne parla: «Da parte del Pdl e della Lega c'è indisponibilità a rivedere il regolamento approvato ieri» ha dichiarato Giorgio Lainati dopo una riunione dei gruppi parlamentari.

Nel corso della seduta, del resto, la norma "chiave" è stata prima accantonata e poi votata dal centro-destra dopo una consultazione con Palazzo Chigi. Il presidente della Vigilanza, Sergio Zavoli, spiega che il regolamento non prevede «la soppressione delle trasmissioni informative, che possono ospitare tribune politiche o essere collocate in altri orari».
Il presidente della Rai, Paolo Garimberti, mette in luce «le ricadute di carattere economico sull'azienda». Per i consiglieri d'opposizione Giorgio Van Straten e Nino Rizzo Nervo «non solo viene compressa l'autonomia editoriale della Rai, ma le inevitabili variazioni di palinsesto determineranno pesanti conseguenze anche sul fronte dei ricavi pubblicitari». Sono scesi in campo anche i conduttori delle trasmissioni d'informazione più popolari da Bruno Vespa a Giovanni Floris, che parla di «ingordigia della politica, che si mangia l'editore», sino a Michele Santoro. Roberto Rao (Udc) sottolinea: «Le responsabilità della delibera è tutta del relatore Marco Beltrandi, del Pdl e della Lega, anche se di certo non hanno giovato all'esito finale le divisioni interne al Pd». L'esclusione dei piccoli partiti dalla prima fase elettorale, radicali compresi, ha provocato alcune divisioni tra i radicali e il Pd: alcuni suoi esponenti sono stati accusati di essersi astenuti sull'emendamento presentato da Lega.
Il testo non è così univoco e chiaro. L'articolo 2 distingue, intanto, la comunicazione politica, «che si realizza mediante le tribune elettorali e politiche» dalle eventuali altre trasmissioni disposte dalla Rai dai programmi d'informazione, compresi gli approfondimenti ricondotti a una testata giornalistica. In tutte le altre trasmissioni nazionali e regionali della Rai è vietata la presenza di candidati «o di esponenti politici» e anche il trattare di «vicende e fatti personali di personaggi politici».
Il primo periodo dell'articolo 6, quello contenente la frase "incriminata" è però ambiguo: i notiziari diffusi dalla Rai e i programmi d'approfondimento «si conformano» non solo al pluralismo e all'imparzialità ma anche «allo specifico criterio della parità di trattamento tra i soggetti e le diverse forze politiche». Quali? Quelle individuate per la comunicazione politica: soggetti politici e candidati governatori con liste presenti in almeno un quarto dell'elettorato coinvolto. La norma rischia di estendersi anche ai Tg? Il regolamento distingue però i telegiornali, tenuti solo alla completezza dell'informazione e alla pluralità dei punti di vista, rispetto alle trasmissioni d'informazione, costrette alle forche caudine della comunicazione politica.

LE REGOLE


I paletti per l'accesso
Nella comunicazione politica è garantito l'accesso, negli ultimi 30 giorni, alle liste dei candidati per il rinnovo dei consigli regionali che interessino almeno un quarto dell'elettorato e ai candidati presidenti sostenuti da liste o coalizioni presenti in almeno un quarto degli elettori


La parità di trattamento
Il tempo va ripartito per metà in parti uguali tra questi soggetti. La parità di trattamento va garantita in un periodo di due settimane di programmazione


Niente politici altrove

È vietata la partecipazione di politici nelle altre trasmissioni, es. Ballarò e Annozero.

domenica 14 febbraio 2010

Società della Salute, istruzioni per l'uso...

Cos’è la società della salute, quali obiettivi si pone? Quali sono gli eventuali vantaggi per i cittadini? Cosa cambierà nella gestione della “salute” all’interno del nostro distretto?
Queste sono, in estrema sintesi, le domande più importanti che i cittadini si pongono a riguardo del nuovo consorzio pubblico denominato Società della Salute Senese.
La società della salute ha concretizzato un concetto assolutamente nuovo sul piano culturale ossia il passaggio dalla sanità alla salute.
In sintesi la società della salute rappresenta il governo unitario della risposta socio-sanitaria sul territorio.
Il miglioramento dello stato di salute e di benessere dei cittadini; la soddisfazione e la partecipazione del cittadino; l’efficienza e la sostenibilità del sistema sono gli obiettivi che si è posto il Piano Sanitario Regionale 2002/2004.
Le strategie per cogliere questi obiettivi sono da un lato politiche integrate a livello regionale e locale, dall’altro un modello di salute basato sulla responsabilizzazione dell’intera comunità, sulla partecipazione e coinvolgimento dei cittadini. In questo nuovo quadro culturale e di relazioni, la centralità degli enti locali e la concertazione a tutti i livelli istituzionali diventano punti essenziali. Dare vita ad un percorso unitario e condiviso sulla persona nella sua interezza e dare risposte integrate a bisogni di natura socio-sanitaria è lo scopo del nuovo consorzio pubblico formato dai 15 comuni in provincia di Siena e dall’azienda Asl.
Gli strumenti attraverso i quali tutto questo potrà essere realizzato sono rappresentati dal Piano Integrato di Salute (PIS) che non è altro che lo strumento principe di programmazione a livello di distretto e in termini sintetici la capacità di promuovere la salute per obiettivi di salute. Abbiamo parlato poco sopra della rivoluzione copernicana messa in atto dal governo toscano: l’attenzione alla persona. Si è infatti acquisita la consapevolezza, sostenuta anche dai dati scientifici, che l’85% dei fattori che determinano la salute del cittadino non sono sanitari. In altri termini la salute si promuove intervenendo sugli stili di vita, l’alimentazione, l’uso corretto del territorio, la prevenzione degli incidenti. La società della salute serve per costruire il rapporto di continuità tra ospedale e territorio e si avvarrà per questo di un continuo e puntuale monitoraggio per la valutazione delle prestazioni e dei loro risultati in modo da migliorare la programmazione, l’erogazione delle risorse e l’impiego delle stesse.
In questo nuovo contesto viene da chiedersi quali sono i vantaggi per i cittadini. Innanzi tutto una prevenzione a tutto campo che punta alla riduzione delle occasioni di ammalarsi, poi la possibilità di fare riferimento a sportelli unici per accedere ai servizi socio-sanitari, avere percorsi integrati tra territorio e ospedale per garantire dimissioni seguite sul territorio, semplificazione dell’accesso, ottimizzazione dei servizi, un rapporto più strutturato tra medici di medicina generale, pediatri di libera scelta e ospedale.
Nel biennio di sperimentazione, alla Società della salute competeranno governo e controllo, indirizzi e programmazione. Gli organi della Società della Salute sono: Giunta, composta da sindaci o assessori delegati dei comuni e il Direttore Generale dell’Azienda Usl, il Presidente, individuato tra i rappresentanti dei comuni presenti nella Giunta. Al direttore, nominato dalla giunta, spettano i compiti di rappresentanza legale, di responsabilità gestionale e di direzione del personale.

Come riportato dall’articolo della regione toscana si evince che ci sono tanti buoni motivi perché si debba passare a questo tipo di modello per i servizi sociali, buoni motivi ripeto, che posso anche condividere, ma bisogna essere obbiettivi e aggiungere altri elementi altrettanto importanti per capire se la scelta è davvero un opportunità per i comuni e per i cittadini oppure no, e mi vengono in mente alcune domande:
1, quali e quanti sono i servizi che andrà a coprire la società?,
2, con quali dipendenti e con quali costi?,
3, quanto dura la convenzione che andremo a sottoscrivere?,
4, I costi e il servizio saranno uniformi su tutto il territorio per i comuni? E i finanziamenti per i comuni consorziati come sono ripartiti?
5, I comuni possono decidere di uscire dal consorzio se i servizi erogati non sono soddisfacenti?

1) I servizi principali che erogherà la nuova Società saranno principalmente 2; la non autosufficienza e la disabilità, per le altre funzioni socio-assistenziali continueranno ad essere svolte dagli attuali gestori ( ASL e Comune ) con propri capitoli di spesa, quindi non si tratterà di prevenzione a tutto campo, come sbandierato, ma di singoli servizi.


2)I dipendenti e le risorse finanziarie confluiranno in questa società in rapporto alle proprie quote parte in necessità di quest’ultima, per un periodo di 6 mesi il personale della società utilizzerà quello comandato degli enti, dopo ai dipendenti trasferiti/confluiti nella stessa si applicherà in via transitoria il contratto di lavoro relativo al personale del servizio sanitario nazionale, quindi un contratto diverso per chi fino a ieri aveva un contratto statale e con questo, non potendolo scegliere, per il lavoratore mi sembra veramente discriminante e causerà senz’altro dei contenziosi nei confronti della nuova società.


3) Il contratto con i comuni consorziati avrà durata quindicennale ma si potrà rescindere non prima dei due anni, quindi avremo il tempo di riscontrare sul territorio se la scelta è stata giusta, trarre le conclusioni del caso e agire di conseguenza.


4) i costi saranno uniformati su tutto il territorio gestito, senza però specificare nella convenzione che andremo a votare in consiglio, ma quali saranno i prezzi che il singolo cittadino dovrà sostenere non lo sappiamo. Speriamo che le tariffe non siano ritoccate in alto per garantire l’uniformità del servizio in tutti i quindici comuni.

Per quanto riguarda i finanziamenti si attingerà dal fondo sanitario regionale, dagli enti e comuni consorziati con una cifra pro-capite per cittadino residente, e cosi sarà ripartita la spesa-parte se la società dovesse andare in perdita.

5) i Comuni possono uscire dalla società non prima di 2 anni.


Queste sono le cose che la nuova società dovrà essere capace di fare, programmazione coerente con i territori, contenimento dei costi, innovazione organizzativa, attività di controllo, coordinamento delle funzioni, garantire un servizio di assistenza sociale con le stesse qualità e negli stessi tempi, sia ai cittadini di Siena, sia ai cittadini di S.Giovanni DAsso.
Come ogni progetto nasce dal bisogno di migliorare e di questo ne sono convinto, se tutto questo riuscirà nell’intento, non potrò che esserne soddisfatto, ma come ripeto il dubbio che possa trasformarsi in un altro ente doppione e burocrate che perde di vista i cittadini, proprio nel momento del bisogno, mi fa stare male.
Noi siamo una delle ultime realtà a consorziarsi, e Monteriggioni nella fattispecie è un esempio di come una piccola amministrazione può riuscire a gestire le problematiche sui servizi sociali in completa autonomia ed efficienza con ragguardevoli risparmi, quindi la società della salute è avvertita….

sabato 13 febbraio 2010

Acqua, Alemanno accellera la privatizzazione su Acea

Più di un centinaio di persone al freddo fuori dal Campidoglio non sono bastate a fermare la mozione di maggioranza per la privatizzazione di Acea. Ha vinto la linea Alemanno che impegna il Comune ad intraprendere il cammino verso la cessione di gran parte delle proprie quote. Nell'aula Giulio Cesare non troppo affollata si accende un dibattito serrato fra maggioranza e opposizione. Complici anche le elezioni regionali alle porte, quello dell'acqua diventa improvvisamente un tema “rovente” su cui nessuno sembra voler venire a patti.

L'opposizione si schiera compatta, con tanto di cartelli, contro la privatizzazione di Acea; Rutelli accusa Alemanno di voler svendere l'acqua dei romani agli investitori privati.Il sindaco, da parte sua rinfaccia all'ex Margherita di essere stato proprio lui il primo ad intraprendere il cammino della privatizzazione, facendo scendere le quote del comune all'attuale 51 per cento.

Alla fine l'opposizione abbandona l'aula.In realtà l'opposizione maggiore la fanno quei pochi manifestanti che riescono a superare i controlli ed entrare per assistere alla seduta – che non risparmiano qualche “vergogna!” urlato ai consiglieri – e quei tanti che restano fuori a distribuire volantini e a cercare di informare le persone. Tutto inutile ai fini della mozione, che viene approvata.

In una nota si spiega che il sindaco e la giunta dovranno "porre in essere tutte le azioni necessarie per delineare un percorso di cessione delle quote azionarie di Acea, in eccesso rispetto ai limiti indicati dalla legge, che garantiscano al Comune di Roma il controllo della società e, in particolare, del servizio idrico".

Dunque solo un primo passo verso la privatizzazione, niente di definitivo. Un impegno che sollecita il Comune "ad agire in ottemperanza e secondo modalità e tempi previsti dalla legislazione vigente, e comunque in coerenza con le opportunità offerte dal mercato [...] e ad attuare tutte le iniziative necessarie per assicurare il rispetto degli obblighi di trasparenza procedurale previsti dalle disposizioni vigenti, informandone il Consiglio e acquisendo il relativo consenso".Gli organizzatori del presidio, perlopiù facenti parte del Crap, Coordinamento romano acqua pubblica, hanno comunque di che essere soddisfatti.

Si tratta di una vittoria, anche se amara, l'essere riusciti in così poco tempo ad organizzare una rete solida di associazioni e cittadini. Ci sono le basi per continuare su questa strada.L'idea di partire “dal basso”, dai Municipi, coinvolgendo i vari consiglieri comincia a sortire i primi effetti. Che la strada imboccata sia quella giusta lo dimostra il caso di Torino.

Qui un Comitato per l'acqua pubblica cittadino è riuscito a far approvare una delibera contro la privatizzazione in tutte e dieci le Circoscrizioni. Arrivata in comune, la mozione, forte dell'appoggio di tutte le circoscrizioni, ha vinto la resistenza del Sindaco Chiamparino.

È stata così approvata una modifica allo Statuto che “impegna la Città a mantenere in mano interamente pubblica gli impianti e la gestione senza scopo di lucro del servizio idrico integrato”. Dunque ci sono tutti i presupposti perché anche a Roma si continui a sperare. E a lottare. “Noi siamo qua per dire che sull'acqua non si scherza – dichiara uno degli organizzatori – e vogliamo ben oltre che il ritiro di questa proposta di privatizzazione.

Vogliamo che si ragioni sull'acqua come bene comune e che si inizi a pensare di scorporare il servizio idrico da Acea, che ormai è una multiutility collocata in borsa. Vogliamo iniziare un percorso perché l'acqua torni davvero ad essere un servizio pubblico, partecipato solo dai cittadini”.

sabato 6 febbraio 2010

IL DENTISTA SOCIALE CONTRO LA CRISI E' REALTA', DOPO I GAP VINTA ANCHE QUESTA SFIDA

Montecatini Terme (Pt)
La cena sociale è ormai una felice abitudine, il centro sociale resiste, anche nei nostri cuori. Invece l'odontoiatra sociale suona strano. Chi può ridare o togliere il sorriso fa pagare e strapagare questa sua abilità. Ci vuole la cessione del quinto dello stipendio e tanto coraggio per affrontare la poltrona e il camice bianco più temuti del paese. Assodato che invece l'odontoiatra sociale non è una categoria dello spirito (esiste, è vivo e lotta insieme a noi) andiamo a conoscerlo. Un misto di ansia e di curiosità: mica vorrà sottoporre la cronista ad un saggio delle sue - peraltro indubitabili - doti professionali?
L'appuntamento è direttamente nello studio del medico chirurgo Vincenzo Ortolani. Un'elegante palazzina stile liberty nel cuore della Toscana. Siamo a Montecatini, celebre centro termale, sufficientemente ricco e piuttosto ridente, pronto per essere ritratto in cartolina. «Buongiorno, desidera…». «Avrei un appuntamento con il professor Ortolani per un'intervista». «Per un'intervista…». Meglio ripetere a scanso di equivoci. L'ambiente è luminoso, pulito, lussuoso, di qualità. Il dottor Ortolani sta lavorando, finisce la seduta, si mette a nostra disposizione mentre un altro paziente attende il suo turno in sala di aspetto. La prima domanda è quasi obbligata: «Perché ha deciso di fare l'odontoiatra sociale?». «Follia? Sindrome del buon samaritano? Generosità?». «No, no, siete fuori strada - scuote la testa il professore - in realtà abbiamo vinto una scommessa». «Una scommessa?». «Proprio così: riuscire a fornire tutte le prestazioni odontoiatriche e protesiche reperibili sul mercato della sanità privata agli stessi costi della sanità pubblica. Come riferimento è stato scelto il listino prezzi fornito dall'ospedale Galliera di Genova». L'esperimento inizia in agosto, il paziente "numero zero" è Massimo Fiorentini, che fra le tante è il tesoriere toscano di Rifondazione comunista. E che diventerà uno dei migliori testimonial del dentista sociale Ortolani. C'è da credergli, a giudicare dal sorriso e dalla delicatezza dell'argomento. Perché farsi trapanare i denti non è una cosa facile, nessuno si fida del primo dentista che incontra. Ma continuiamo ad ascoltare Ortolani. «In questi mesi ogni paziente è stato visitato a titolo gratuito e - nel corso di questo primo contatto - è stato definito un programma terapeutico che il malato ha potuto discutere e concordare con il personale medico». «Ci sta dicendo che i primi 60/80 euro che si pagano inevitabilmente come si mette piede nello studio dentistico sono stati abbonati?». «Certo. In più offriamo una seduta d'igiene gratuita, eventualmente accompagnata da terapie di urgenza la cui necessità si fosse palesata nell'ambito della prima visita».
Andiamo avanti: «Le terapie eseguite - spiega ancora Ortolani - rispecchiano assolutamente i più aggiornati dettami di odontostomatologia: sono stati eseguiti impianti endossei, corone estetiche in ceramica senza metallo, terapia conservativa estetica, protesi totali…». Altra domanda d'obbligo: dottore, ma qual è il segreto del suo successo? «Ho investito sulla mia professionalità, utilizzando le più moderne tecniche computerizzate ed ottenendo un forte risparmio di tempo (un solo appuntamento al posto dei 5/6 normalmente necessari) con un notevole miglioramento della qualità estetica ed una sicura biocompatibilità dei manufatti. Non si può pensare di lavorare come negli anni ottanta». Nella sala d'attesa dell'odontoiatra sociale c'è un'atmosfera tutta particolare: non è facile potersi sedere da un dentista sapendo che alla fine si pagherà il giusto. E non è neanche piacevole dover contrattare il proprio sorriso, con un'anima divisa a metà fra l'onestà non solo intellettuale (la richiesta della fattura) e il portafoglio che piange («mi raccomando dottore, mi faccia lo sconto»). Ortolani conferma. «La riduzione del peso della contrattualizzazione economica - si fa riferimento al listino prezzi di una struttura pubblica - ha consentito di migliorare la qualità del rapporto medico-paziente. Devo dirle che tutto questo mi ha dato entusiasmo».
Perché chi bussa alla porta della onlus "Diritti e società" sono anche e soprattutto donne e uomini che non potrebbero permettersi di avere i denti a posto: lavoratori con stipendi bassi, precari, pensionati, padri e madri di famiglia che devono pensare alla salute dei loro bambini. Persone che mai e poi mai potrebbero pagare decine di migliaia di euro per avere la bocca in ordine. Usciamo dallo studio dentistico convinti di aver fatto una bella scoperta.
L'odontoiatra sociale esiste, non è un personaggio di Alan Ford e non lavora in uno scantinato con una strumentazione più da metalmeccanico che da chirurgo.
Chi pensava che non si andasse oltre i Gap (i gruppi di acquisto popolare che peraltro stanno andando a gonfie vele), si sbagliava.
Regaliamoci un sorriso.

venerdì 5 febbraio 2010

Quando si dice, il bicchiere mezzo vuoto!!!

L’altro giorno è uscito questo articolo sul sito del comune….

Il Comune di Monteriggioni ha stanziato fondi propri per contribuire al potenziamento delle corse del TRAIN sulle tratte Quercegrossa-Siena e Siena-Tognazza.Pur nelle difficoltà di bilancio in cui si dibattono gli Enti Locali, l’Amministrazione Comunale ha deciso di impegnare circa 8mila euro per contribuire alla maggiore spesa che il TRAIN dovrà sostenere per incrementare il servizio di trasporto pubblico. Il numero attuale di corse è stabilito in un Accordo di Programma generale che la Provincia concorda con i Comuni interessati e si è deciso di aggiungere alcune corse che riguardano la tratta Siena-Tognazza, così da consentire agli studenti universitari alloggiati presso la Casa dello Studente di Tognazza di raggiungere più agevolmente la Residenza universitaria, e la tratta Pianella-Quercegrossa-Siena a causa della crescita degli utenti del servizio.


Niente di strano, sembra uno dei tanti articoli dove l’amministrazione comunale fa uno sforzo per dare dei servizi ai poveri cittadini, i quali inspiegabilmente aumentano a dispetto dell’amministrazione stessa, sembra, ma non è cosi, c’è sempre una spiegazione.

Mi dispiace ripeterlo ma i problemi sono sempre i soliti, uno riguarda quello che si vuol far credere o almeno far vedere ai cittadini, il bicchiere mezzo vuoto, per esempio, invece che mezzo pieno, l’altro riguarda la programmazione urbanistica!!

Spiego meglio, prima viene glorificato dalla stessa amministrazione la costruzione di qualsiasi cosa, in ogni dove, con articoli che elogiano i nuovi insediamenti come una cosa irrinunciabile per lo sviluppo, bisogna costruire, perchè con gli oneri di urbanizzazione il Comune può finanziare scuole, parcheggi, centri civici, giardini pubblici, ecc., benissimo che si riesca a fare tutto questo, senza scordarci però, quando è stato costruito e riscosso gli oneri, che dentro a quelle case o aziende, ci vanno ad abitare o lavorare le persone. Dove prima c’erano 100 persone adesso ce ne sono 300 magari, le esigenze per chi torna in quella zona cambiano e il comune lo sa in anticipo che poi deve ampliare i servizi!!!


Non è colpa di chi ci torna, o delle aziende che ci viene insediato, l’amministrazione sa benissimo chi tornerà in quella determinata zona, dove e quando, quindi non deve far finta di cascare dalle nuvole, il potenziamento delle corse del Train erano previste e si sapeva benissimo che quei soldi andavano spesi, infatti erano accantonati per quell’utilizzo!!!

Quando nel mese di novembre domandai all’assessore ai lavori pubblici delle mancate corse del bus, sopratutto per la residenza studentesca, mi fu risposto che c’era già l’impegno di spesa perché l’accordo risaliva ai tempi dell’insediamento, cèra solo da aspettare i vari passaggi tecnici per attuare il tutto!!!!


Questo episodio di far vedere le cose solo da un angolatura mi fa venire in mente un altro "bicchiere mezzo vuoto", sempre sul sito comunale.....


Soltanto due mesi fa il neo assessore al turismo Rossana Giannettoni esordiva con toni trionfalistici le presenze turistiche nel nostro territorio:

Leggo con soddisfazione i dati dei primi sei mesi del 2009 dedicati ai flussi turistici registrati nelle strutture ricettive del comune.

La qualità del nostro territorio, le capacità degli operatori del turismo ed il lavoro di promozione fatto, sono riusciti invece a determinare buoni risultati".

Niente da obbiettare, sono dati ottimistici che ci rassicurano, ma come dicevo, leggendo tra le righe e facendo dei passi in dietro si può rifare alcune considerazioni che al suo tempo furono sottovalutate….

Ebbene i risultati conseguiti nel 2009, ripeto + 11 %, parlano chiaro, non capisco allora perché non dare possibilità a chi vuole farsi carico d’impresa di aprire esercizi commerciali nel nostro territorio.

Mi spiego meglio, era il 2007 e in consiglio venivano aggiunte licenze commerciali a quelle esistenti, con la sola assenza della zona 2, quella all’interno delle mura del castello, per capirci, che è anche una delle zone con maggiore flusso turistico per la nostra zona.


Col senno di poi è facile ragionare, ma l’articolo della minoranza nell’informatore di quell’anni lo riporta d’attualità.

Ripercorrendo quei giorni, si possono trarre alcune considerazioni, che la scelta di bloccare le licenze all’interno del castello fosse sbagliata ce lo dicono i dati, e l’assessore parlando del trend positivo di presenze lo sottolinea.

Rimane il problema che a suo tempo fu segnalato , che qualche maligno possa pensare che si è voluto favorire chi già era all’interno, a discapito di potenziali concorrenti.

L’articolo finiva con questa epigrafe, siccome noi teniamo alla reputazione della nostra amministrazione e soprattutto a quella dei suoi assessori, chi a orecchi intenda, ci piacerebbe che siano al di sopra di ogni sospetto.

Ebbene, anch’io rinnovo questo augurio, anzi, mi piacerebbe ritornare su questo argomento e poter fugare ogni dubbio con nuovi studi di settore per la zona del castello….

martedì 2 febbraio 2010

L'Italia l'iberale, insegue il modello cinese sul web

Il 20 gennaio il Senato ha approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza (D.d.l. 733) e, tra gli altri, un emendamento del senatore Gianpiero D’Alia (Udc) identificato dall’articolo 50-bis: ”Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”.Il testo diventerà l’articolo numero 60. Il senatore Gianpiero D’Alia (Udc) non fa parte della maggioranza al Governo e ciò la dice lunga sulla trasversalità del disegno liberticida della Casta. In pratica, in base a questo emendamento, se un qualunque cittadino dovesse invitare attraverso un blog a disobbedire (o a criticare?) ad una legge che ritiene ingiusta, i 'providers' dovranno bloccare il blog.
Questo provvedimento può far oscurare un sito ovunque si trovi, anche all’estero; il Ministro dell’Interno, in seguito a comunicazione dell’autorità giudiziaria, può infatti disporre con proprio decreto l’interruzione della attività del blogger, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine. L’attività di filtraggio imposta dovrebbe avvenire entro il termine di 24 ore; la violazione di tale obbligo comporta per i provider una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 50.000 a euro 250.000. Per i blogger è invece previsto il carcere da 1 a 5 anni per l’istigazione a delinquere e per
l’apologia di reato, oltre ad una pena ulteriore da 6 mesi a 5 anni per l’istigazione alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico o all’odio fra le classi sociali.
Con questa legge verrebbero immediatamente ripuliti i motori di ricerca da tutti i link scomodi per la Casta. In pratica il potere si sta dotando delle armi necessarie per bloccare in Italia Facebook, YouTube e 'tutti i blog', che al momento rappresentano in Italia l’unica informazione non condizionata e/o censurata. Vi ricordo che il nostro è l’unico Paese al mondo dove una 'media company' ha citato YouTube per danni chiedendo 500 milioni euro di risarcimento. Il nome di questa 'media company', guarda caso, è Mediaset.
Quindi il Governo interviene per l’ennesima volta, in una materia che, del tutto incidentalmente, vede coinvolta un’impresa del Presidente del Consiglio in un conflitto giudiziario e d’interessi. Dopo la proposta di legge Cassinelli e l’istituzione di una Commissione contro la pirateria digitale e multimediale, che tra poco meno di 60 giorni dovrà presentare al Parlamento un testo di legge su questa materia, questo emendamento al 'pacchetto sicurezza' di fatto rende esplicito il progetto del Governo di 'normalizzare' con leggi di repressione Internet e tutto il sistema di relazioni e informazioni sempre più capillari che non riescono più a dominare.
Tra breve non dovremmo stupirci se la delazione verrà premiata con buoni spesa. Mentre negli USA Obama ha vinto le elezioni grazie ad Internet, in Italia il governo si ispira per quanto riguarda la libertà di stampa alla Cina e alla Birmania. Oggi gli unici media che hanno fatto rimbalzare questa notizia sono stati il blog Beppe Grillo e la rivista specializzata Punto Informatico.
Dove non c’è libera informazione e diritto di critica il concetto di democrazia diventa un problema puramente dialettico.

lunedì 1 febbraio 2010

Acqua pubblica, patrimonio di tutti.

Il nodo della questione è tutto lì, nel titolo dell’articolo 15 del decreto legge n.135, o decreto Ronchi, tramutato in legge al Senato.
È lungo solo una riga ma vale miliardi.
Soldi che usciranno dalle tasche dei consumatori e che arriveranno in quelle di pochi grandi gruppi, «si assiste - per usare le parole dell’Antitrust - alla sostituzione di monopoli pubblici con monopoli privati».
Si prenda l’esempio di Acea.
La società serve il Lazio, una parte della Campania, l’Umbria, e 4 Ato su sei della Toscana ( compreso il Fiora ).
È il primo operatore nazionale del circuito idrico (ha il 10% del mercato).
È controllata al 51% dal Comune di Roma, al 10% circa dalla francese GdF-Suez e al 5% dal costruttore Caltagirone.
Ma presto il comune di Roma dovrà cedere a privati l’11% della società per un valore di circa 200 milioni.

La garanzia per la gestione di un bene primario oltre ad una migliore efficienza industriale è data innanzitutto dalla proprietà pubblica di reti e impianti del servizio idrico che, proprio perché appartengono al demanio, sono inalienabili.
L'acqua è pubblica e costituisce una risorsa da salvaguardare.

In questo contesto appare ancor più grave la decisione di non prevedere nel
provvedimento l'istituzione di una Autorità di controllo indipendente
sulle risorse e sul servizio idrico integrato, necessaria per la definizione
dei livelli minimi di investimento, qualità del servizio, controllo della gestione e
per la determinazione delle tariffe a garanzia soprattutto delle fasce sociali più
deboli.

Quello invece che si sta registrando, e tutti i dati sono concordi, che all’inizio degli anni 90, gli investimenti annui erano pari a circa 2 miliardi di euro l’anno, oggi si registrano investimenti pari a circa 700 milioni di euro l’anno, ora abbiamo da una parte un innalzamento delle tariffe per garantire il profitto ai soggetti e ai gestori privati e dall’altra una diminuzione degli investimenti e anche della qualità del servizio.
Nel 2008, secondo l’ultimo rapporto del Co.Vi.RI. relativo a 54 Ato, risultavano realizzati solo il 56% degli investimenti previsti (sei miliardi). Questo, a fronte di un’impennata delle tariffe di oltre il 47% negli ultimi 10 anni.
Seconde solo al petrolio.
In Toscana, ad esempio, dove è più forte la presenza di privati, ogni famiglia spende in media per l’acqua 330 euro all’anno a fronte di una dispersione del 34%. I privati, se non regolamentati, non portano efficienza.

Inoltre, secondo dati Istat, da gennaio 2000 a luglio 2009 l’aumento delle tariffe è stato del 47%.

In più esiste il problema di qualità delle acque destinate al consumo domestico, poco si parla del ricorso alle deroghe, previste dal D.Lgs. 31/01 e concesse dal Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali: negli ultimi 7 anni, ne hanno usufruito ben 13 regioni.
Se nel 2002 solo la Campania ne aveva fatto ricorso, accompagnata nel 2003 da altre2 regioni, per complessivi 5 parametri “fuorilegge” (fluoro, cloruri, magnesio, sodio, solfati), attualmente sono 8 le regioni in deroga (Lazio, Lombardia, Piemonte, Trentino, Umbria, Toscana,
Campania, Puglia), per un totale di 7 parametri: arsenico, boro, cloriti, fluoro, selenio, trialometani evanadio.
Tali Regioni devono provvedere affinché la popolazione sia adeguatamente informata, ma in alcuni casi non si specificano nemmeno i nomi dei singoli comuni coinvolti.
In ogni caso, ad oggi, il Lazio è la Regione con il maggior numero di amministrazioni comunali interessate da deroghe, ben 84 (nel 2006 erano 37) per 5 parametri, segue la Toscana con 21 comuni (ma nel 2008 erano 69 e nel 2005 addirittura 92) e tre parametri. ( fonte arpat )
Non penso che i privati, se non l’hanno fatto adesso, intendano migliorare la qualità dell’acqua facendo investimenti in tal senso, il loro compito è fare profitti, e non sarebbe la prima volta che i cittadini ci rimettano la salute a causa dei profitti, la beffa oltre il danno!!

Poi bisogna stare molto attenti, quando si parla di “acqua pubblica”, ci viene risposto dal politico di turno, “ma è pubblica: le fonti rimangono di proprietà pubblica, dai la gestione al privato con un 30 /40% di pubblico nella gestione e allora di che cosa vi lamentate? L’acqua rimane di proprietà pubblica e la gestione è privata”.
Questa è la trappola infernale perché, chi determina la situazione di mercato, è chi gestisce e non la proprietà della fonte. Sono i tubi, è la distribuzione dell’acqua. E’ come per l’energia, è la stessa cosa: chi detiene i tubi, i fili, detiene l’effettiva proprietà.

C’è un altro fatto fondamentale rispetto al processo di privatizzazione, se io sono un soggetto privato e devo gestire un servizio, e quindi anche distribuire una risorsa, l’obiettivo che mi pongo sarà quello di aumentare la quantità di prodotto che vendo anno dopo anno, tant’è vero che in Italia i "piani di ambito" che sono i piani attraverso i quali si gestisce la risorsa idrica, prevedono nei prossimi anni un aumento dei consumi pari al 18% circa, ossia i gestori privati prevedono un aumento di quella che è la vendita del proprio prodotto. Questo credo sia assolutamente da scongiurare, anche perché i cambiamenti climatici, quello che è il riscaldamento globale ha come primo effetto e come prima conseguenza, proprio un aumento della scarsità della risorsa. Allora bisognerebbe approntare politiche di risparmio idrico, politiche di uso sostenibile della risorsa, questo, i soggetti privati, anche legittimamente rispetto a quella che è la propria "mission" imprenditoriale non lo possono garantire, lo può garantire esclusivamente una gestione attraverso enti pubblici, proprio perché il suo primo obiettivo è di garantire un servizio e un diritto a tutti, anche per le generazioni future, e di poter usufruire di identico patrimonio naturale.

Cosa possiamo fare tutti noi per contrastare il processo di privatizzazione dell’acqua in Italia?
Uno è quella di modifica degli statuti comunali e provinciali, proprio perché l’ultimo provvedimento approvato dal Governo a novembre 2009, fa riferimento alla privatizzazione dell’acqua, perché riconosce nel servizio idrico un servizio a rilevanza economica e quindi deve essere messo necessariamente sul mercato e sottostare alle leggi del mercato e della libera concorrenza.

Io come cittadino e come consigliere ho scelto, ritengo che il servizio idrico e quindi l’acqua non sia un bene di rilevanza economica, non sia un bene che debba sottostare alle leggi del mercato, in mano a multinazionali quali ci ritroviamo senza saperlo ( ripeto nel Fiora SpA, come socio privato c’è GdF-Suez e al 5% il costruttore Caltagirone ).
Nel prossimo Consiglio Comunale ho presentato un'ordine del giorno dove chiedo che sia modificato lo Statuto Comunale inserendo il servizio idrico locale come privo di rilevanza economica in quanto essenziale per garantire l’accesso all’acqua e pari dignità umana a tutti i cittadini.

Solo in questo modo il Comune, e tutti noi, possiamo riappropriarci della podestà decisionale, di come gestire il servizio idrico e quindi fuoriuscire dalla legislazione nazionale e questo è fondamentale proprio per mettere uno stop al processo di privatizzazione in Italia.

In allegato il testo della mozione.

Al Sindaco del Comune di Monteriggioni
e.p.c. a tutti i Capigruppo consiliari

Ordine del giorno sul D.L. n. 135/2009, art. 15: riconoscimento del servizio idrico come privo di rilevanza economica

Premesso che:

L’acqua è una risorsa primaria, essenziale alla vita. L’accesso universale ad essa, la sua disponibilità e la sua conservazione devono essere perseguite quali garanzie di un diritto inalienabile per il presente e di quello a un ecosistema equilibrato per le generazioni future.

Oggi sulla Terra più di un miliardo e trecento milioni di abitanti non hanno accesso all’acqua potabile e si prevede che nel giro di pochi anni tale numero raggiunga i tre miliardi, nonostante la sua natura di bene comune necessario alla sopravvivenza.

Il quadro legislativo in tema di governo del Servizio idrico integrato è imperniato sulla L. 36/94 (detta “legge Galli”, dal nome del suo estensore), recepita dalla legge Regionale Toscana n°81/95 che ha istituito gli Ambiti Territoriali Ottimali (A.T.O.) obbligatori per i Comuni.

Precedentemente all’entrata in vigore della legge Galli, la gestione del servizio idrico si espletava in forme e modi totalmente diversi nei vari Comuni, alcuni dei quali gestivano il servizio in economia, altri tramite aziende speciali intercomunali e altri ancora attivando S.p.A. pubbliche.

L’attuazione della legge Galli nei 93 Ambiti italiani ha avuto applicazione diversificata e la Toscana è stata la prima regione italiana ad attuare in modo organico la legge quadro di cui trattasi.

La scelta operata in Toscana con la L.R 81/95 muoveva su due temi di fondo: la necessità di accorpare i servizi esistenti, fino ad allora molto frammentati, puntando al raggiungimento di economie di scala molto più efficienti, con il relativo contenimento dei costi, rispondere alla legge 36/94 che prevedeva la fiscalità particolare come unico finanziamento dell’intero Sistema idrico Integrato.

La scelta per la gestione del servizio, successiva all’adozione dei Piani di Ambito, in Toscana è stata quella del P.P.P. (Partenariato Pubblico Privato), con il socio pubblico in maggioranza e il socio privato con quote di minoranza, e il tutto è stato esplicato con procedure pubbliche di gara.




La gestione del servizio idrico integrato in Italia è attualmente normata dall'Art. 23bis della legge 133/2008 che prevede, in via ordinaria, il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali a imprenditori o società mediante il ricorso a gara e fa così lergo forzatamente all’ingresso dei privati nella gestione stessa.

Il recente Art. 15 del D.L. 135/2009, che modifica il suddetto Art. 23bis, muove passi ancor più decisi verso la privatizzazione dei servizi idrici e degli altri servizi pubblici, prevedendo:
• l’affidamento della gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica a imprenditori o società in qualunque forma costituite, individuati mediante procedure competitive a evidenza pubblica o, in alternativa, a società a partecipazione mista pubblica e privata con capitale privato non inferiore al 40%;
• la cessazione degli affidamenti “in house” a società totalmente pubbliche, controllate dai comuni (in essere alla data del 22 agosto 2008) alla data del 31 dicembre 2011.


Considerato che:

La risoluzione del Parlamento europeo del 15 marzo 2006 dichiara l’acqua “un bene comune dell’umanità”, chiede che siano effettuati tutti gli sforzi necessari a garantire l’accesso a essa alle popolazione più povere entro il 2015 e insiste affinché “la gestione delle risorse idriche si basi su un’impostazione partecipativa e integrata che coinvolga gli utenti ed i responsabili decisionali nella definizione delle politiche in materia di acqua livello locale e in modo democratico”.

Gli stessi organi della UE hanno più volte sottolineato che alcune categorie di servizi non sono sottoposte al principio comunitario della concorrenza; si veda ad esempio la Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo COM (2004) 374: “…le autorità pubbliche competenti (Stato, Regioni, Comuni) sono libere di decidere se fornire in prima persona un servizio di interesse generale o se affidare tale compito a un altro ente (pubblico o privato)”.

E’ peraltro noto che non esiste alcuna norma europea che sancisca l’obbligo per le imprese pubbliche di trasformarsi in società private (come ribadito da: Corte di giustizia CE, 2005; Commissione CE 2003 e 2006; Parlamento CE, 2006).

A partire dalla promulgazione della carta europea dell'acqua (Strasburgo 1968) si è affermata a livello mondiale non solo la concezione dell'acqua come "bene comune", ma anche del suo uso come diritto fondamentale dell'uomo.

Il Testo Unico sull’Ambiente” d.lgs. n. 152/2006, all'articolo 144, comma 2, afferma: "Le acque costituiscono una risorsa che va tutelata e utilizzata secondo criteri di solidarietà; qualsiasi loro uso è effettuato salvaguardando le aspettative e i diritti delle generazioni future".

Valutato che:

Da un punto di vista normativo lo strumento del decreto legge risulta inappropriato per simile materia e non è stato possibile svolgere nelle sedi deputate un’approfondita discussione a causa del voto “di fiducia” imposto sul provvedimento dal Governo, che ha impedito di fatto il confronto su un tema così delicato e complesso come la gestione della risorsa idrica.

Oggi il 61% del servizio idrico erogato in Italia è gestito da società interamente pubbliche, con il rischio evidente, conseguente l’obbligo di dismissione di almeno il 40% delle quote di capitale delle società pubbliche entro il 2011, di svalutare il patrimonio dei comuni.

Assumono rilevanza prioritaria la preventiva definizione delle regole attraverso le quali sia possibile, per l’istituzione locale, in ambiti territoriali strutturalmente ed economicamente ottimali, scegliere nell’interesse pubblico i gestori migliori, nonché il rafforzamento delle Autorità pubbliche di regolazione, di garanzia e di controllo, in grado di gestire le modalità degli affidamenti, di fissare le regole e di controllarne il rigoroso rispetto.
Vanno definiti i termini di utilizzo delle reti, che devono restare integralmente di proprietà pubblica.

Considerato che:

Il maxiemendamento presentato dal governo nella legge finanziaria prevede lo scioglimento dei consorzi di funzioni e risultano perciò a rischio di scioglimento le autorità di ATO costituite sotto forma di consorzio, con la conseguente mortificazione delle funzioni di programmazione e di controllo pubblico esercitato dai comuni per il tramite di tali autorità.

Sottolinea che:

L’esperimento di gestione del servizio idrico integrato condotto in Toscana, con la scelta di una esclusiva competenza pubblica nella programmazione e nel controllo e il mantenimento della maggioranza pubblica nella compagine societaria dei gestori del servizio, risulta certamente migliore della normativa attualmente in vigore.

L’esperienza toscana ha permesso, contabilizzando i relativi oneri sulla tariffa, di sviluppare investimenti importanti per la salvaguardia della risorsa, il miglioramento del servizio e l’adeguamento alle normative europee e mondiali sulla depurazione. Tuttavia, pur avendo la tariffa raggiunto il suo apice e sebbene si sia fatto più volte ricorso a finanziamenti pubblici o esterni, quali quelli della Fondazione MPS, non sono stati ancora effettuati molti degli interventi necessari per un adeguamento delle infrastrutture idriche, della qualità della risorsa e della capacità di depurazione. In particolare, le perdite idriche superiori al 40% gravano in modo pesante sulla disponibilità della materia prima in sé e anche, a causa dei mancati introiti, sulla possibilità di investimento.

Seppur penalizzato dalla remunerazione di legge del 7% dei capitali investiti (col rischio di una incentivazione dei consumi anziché del risparmio della risorsa) e dall’apporto spesso insufficiente di know-how del privato alla gestione, questo contesto ha permesso comunque la valorizzazione del patrimonio di esperienze compiute dai comuni nelle gestioni dirette e dalle società di capitali interamente pubbliche che gestivano il servizio precedentemente all’affidamento ai vari gestori.


Ricordato che:

Le criticità più rilevanti del servizio sono il deterioramento quantitativo e qualitativo delle riserve idriche nonchè l’elevata quantità di perdite, e che ciò è antitetico a un uso “sostenibile” della risorsa.

Gli investimenti necessari al raggiungimento degli standard di legge sui criteri di depurazione esorbitano le entrate assicurate dalla tariffa.

Tutto ciò premesso,

e ribadendo il proprio impegno, in accordo alla dichiarazione della “carta dell’acqua” della Toscana, a un uso “sostenibile” di tale risorsa, patrimonio pubblico e diritto individuale, nonché a impedire la svendita di un bene collettivo rilevante e strategico

IL CONSIGLIO COMUNALE DI MONTERIGGIONI

Esprime:

Il dissenso contro il decreto, colpevole di non tutelare il servizio idrico integrato, mercificandolo alla stregua di un bene di mera rilevanza economica anziché difenderlo come servizio pubblico essenziale, e di indebolire la presenza del pubblico nel controllo e nella gestione del servizio idrico, in modo particolare nelle società quotate in borsa.
-La volontà di fare quanto in suo potere per modificare il nuovo quadro normativo, imposto ricorrendo al voto di fiducia.
-L’impegno ad agire, in qualità di socio del soggetto gestore del servizio idrico, per migliorare la qualità del servizio erogato e contenere i costi di funzionamento.
-L’impegno a promuovere una cultura del consumo dell’acqua più rispettosa della scarsità e del valore della risorsa idrica.
-La convinzione che è indispensabile reperire nuove risorse pubbliche, da aggiungere alle entrate da tariffa, per sostenere gli investimenti necessari a: adeguare le riserve idriche a uno sviluppo economico sostenibile, operare un’adeguata manutenzione della rete, completare le condotte fognarie e gli impianti di depurazione su tutto il territorio, chiedendo a Stato, Unione Europea e Regione di destinare idonee risorse
-La disponibilità del Comune a compartecipare, nei limiti concessi dal bilancio e dal Patto di Stabilità, al piano straordinario di investimenti prefigurato.

Ribadisce

-che la gestione del servizio idrico integrato è un servizio pubblico locale privo di rilevanza economica, in quanto essenziale per garantire l’accesso all’acqua e pari dignità umana a tutti i cittadini, e si impegna a inserire tale principio nel proprio statuto comunale.