Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

martedì 8 novembre 2016

4 Dicembre, la democrazia ostacolo alla finanza

di Marco Bersani.

Affrontare il tema del referendum costituzionale dal punto di vista tecnico-giuridico o dal punto di vista politicista delle alleanze trasversali che si prefigurano, rischia di non far cogliere la portata reale di una scadenza che è un punto di svolta nella società italiana. Siamo in un periodo - ormai lungo - di profonda trasformazione del modello capitalistico, che, nella sua fase della finanziarizzazione spinta, ha la necessità di rompere il “compromesso sociale” su cui è nata l'Europa, per mettere in campo una strategia di mercificazione dell'intera società, della vita delle persone e della natura.
Il compromesso sociale è quello fra capitale e lavoro, che ha segnato tutto il dopoguerra del continente europeo: per motivi geopolitici (Europa al confine della guerra fredda e dello scontro tra capitalismo statunitense e socialismo reale) e per motivi socio-politici (le lotte dei movimenti operai studenteschi e sociali), l'incedere del capitalismo in Europa ha seguito una strada differente dalle esperienze di altri continenti. Nasce da questi processi l'insieme di diritti riconosciuti che per decenni ha caratterizzato lo stato sociale di tutti i paesi europei.
Oggi, l'enorme massa di capitali accumulata sui mercati finanziari ha la stringente necessità di nuovi mercati sui quali riversarsi per garantire una nuova fase di accumulazione e il proseguimento del modello neoliberista dentro la più grande - per intensità e durata - crisi economica sinora accaduta. Ma quali possono essere questi nuovi terreni di espansione se non esattamente quelli sinora fuori mercato, o comunque rigidamente regolati secondo l'interesse generale? 
E' questo il motivo per cui oggi sono sotto attacco i diritti del lavoro, i beni comuni, il territorio e i servizi pubblici: tutto deve essere infatti sottoposto alla valorizzazione finanziaria e alla profittabilità per pochi, mentre l'orizzonte esistenziale collettivo viene determinato dal concetto di “uno su mille ce la fa” e quello individuale dal concetto di “io speriamo che me la cavo”.
Se questo scenario è vero, e basterebbero i nuovi trattati internazionali di libero scambio in corso di negoziazione - dal TTIP, al CETA, al TISA - a dimostrarlo, dentro questi processi non può che essere rimesso in gioco anche il significato profondo della democrazia.
Un brevissimo excursus storico ci può aiutare a definire il problema: il modello liberista, poi affermatosi in Gran Bretagna con il governo Thatcher e negli Usa con il governo Regan, ha avuto in verità un antecedente poco studiato: il Cile di Pinochet, il cui sanguinoso colpo di Stato è stato salutato da Milton Friedman e dagli economisti della scuola di Chicago come “lo shock che rende politicamente inevitabile ciò che è socialmente inaccettabile”, dando vita al più completo piano di privatizzazioni della storia recente. Se dunque l'atto di nascita del modello neoliberale avviene non attraverso la democrazia, bensì attraverso la feroce distruzione della stessa, questo significa che capitalismo e democrazia (per quanto formale), lungi dall'avere un rapporto di consustanzialità, hanno piuttosto avuto una relazione di contingenza.
In altre parole, se la democrazia è funzionale il modello la assume; pronto tuttavia a farne a meno laddove divenisse un ostacolo.
C'è un significato importante dentro queste riflessioni: se oggi ciò che interessa ai grandi capitali finanziari è l'espansione su tutti i settori sinora preservati alla mercificazione, può tutto questo essere realizzato mantenendo le attuali forme di democrazia? E per stare alla nostra più stretta attualità: può il governo Renzi, dopo aver approvato in sequenza lo Sblocca Italia, il Jobs Act, la Buona Scuola e il decreto Madia, mantenere le garanzie - per quanto imperfette - dell'attuale Costituzione o ha la stretta necessità di imprimere una svolta autoritaria anche su quel terreno? Più che da un'articolata riflessione, la risposta viene resa evidente dalla pluralità dei poteri forti scesi in campo a sostegno del “sì” alla riforma costituzionale: da JP Morgan a Confindustrria, da Marchionne fino al recentissimo pronunciamento del presidente uscente Usa, Barack Obama.
Ecco perché collocare il sacrosanto NO al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre dentro i parziali alvei della disputa strettamente giuridica o, peggio ancora, della politica di alleanze partitiche, rischia di limitare la necessità di una forte mobilitazione sociale che fermi i disegni autoritari dei poteri forti, di cui il governo Renzi è lampante espressione.
E non solo. Bisogna votare NO e mobilitarsi per la vittoria referendaria anche per poter domani aprire la strada ad un nuovo processo costituente dal basso che, attraverso la partecipazione popolare, metta al primo posto la realizzazione di quanto previsto, e sinora mai attuato, dalla Costituzione, prevedendone anche dei cambiamenti sostanziali in direzione di una democrazia compiuta e partecipativa, oggi più che mai necessaria.
Altroché conservazione: vota NO chi vuole davvero cambiare la società.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 26 di dicembre 2016.

lunedì 12 settembre 2016

Jobs Act, riforma a licenziamenti crescenti

di Roberto Ciccarelli.

Renzismi. La riforma del mercato del lavoro è uno zombie utile da presentare solo ai vertici europei, per ottenere le lodi della Merkel in cambio di qualche briciolo di «flessibilità» in più per i bonus elettorali di Renzi. La verità è un’altra.
Secondo ai dati del ministero del lavoro, eliminato l’articolo 18 le aziende licenziano (+7,4%); tagliati gli sgravi contributivi, i contratti a tempo indeterminati continuano a calare (-29%).
Tutto secondo la norma. Peccato che il governo abbia raccontato altro negli ultimi due anni Crollano i contratti a tempo indeterminato e aumentano i licenziamenti. La logica del Jobs Act è stata, infine, registrata anche dal sistema delle comunicazione obbligatorie del ministero del lavoro che ieri ha pubblicato l’aggiornamento dei dati sulla riforma renziana per eccellenza, quella lodata da Angela Merkel come «impressionante». Impressionante lo è, in effetti, questa riforma, ma non nel senso del successo celebrato, con poca convinzione e come un disco rotto, a bordo della portaelicotteri Garibaldi e a largo di Ventotene nel dimenticato vertice Italo-Franco-Tedesco di fine agosto.
In primo luogo l’occupazione «stabile» diminuisce, perché sta calando la droga degli incentivi finanziati dal governo per sgravi contributivi dei neo-assunti. Aumentano invece i licenziamenti – sia per la crisi, ma soprattutto perché il Jobs Act li ha liberalizzati. In un tempo relativamente recente questo stupido e insapore inglesismo è stato usato per celebrare la nascita del 47esimo contratto precario: quello a «tutele crescenti».
I primi dati sui licenziamenti dimostrano che l’unica cosa che cresce nel mercato del lavoro italiano è la libertà di licenziare senza l’articolo 18. Ecco i numeri: +7,4% licenziamenti sul secondo trimestre 2016, +17,4% sul primo trimestre 2016. Tra le altre cessazioni sono aumentate quelle promosse dal datore di lavoro (+8,1%) mentre si sono ridotte quelle chieste dal lavoratore (-24,9%).
Nel secondo trimestre del 2016 sono state registrate 2,45 milioni di attivazioni di contratti nel complesso a fronte di 2,19 milioni di cessazioni.
Interessante il dato sull’aumento delle cessazioni richieste dal datore di lavoro rispetto a quelle richieste dal lavoratore: la differenza attesta che si è tornati a licenziare, con le nuove regole, nel 2016.
A riprova che qualcosa nel Jobs Act si è inceppato c’è il dato sulle attivazioni: rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, nel secondo trimestre dell’anno in corso sono diminuite del 29,4%, cioè 163.099 posizioni.
Dato già conosciuto da numerose rilevazioni dell’Inps che trova oggi conferma in quello elaborato dal ministero del lavoro.
Considerata la dispersione della raccolta dei dati sull’occupazione, divisa tra Istat Inps e Ministero, si assiste a una convergenza già in atto da mesi e ieri nemmeno manipolata come di consueto dal governo.
Va ricordato che la differenza tra questi dati e quelli dell’Inps sta nel considerare tutto il lavoro dipendente, compreso quello domestico, agricolo e nella pubblica amministrazione, oltre che dei contratti di collaborazione. Altro dato interessante sull’occupazione esistente: la maggior parte è a termine.
Bisogna inoltre considerare che un’altra parte è il risultato di una stabilizzazione dei contratti in corso: 84.334 sono contratti «trasformati»: 62.705 da tempo determinato e 21.629 da apprendistato a tempo indeterminato.
Dunque chi già lavorava continua a farlo, per fortuna.
Chi non aveva un posto, continua ad essere disoccupato, o a lavorare con i voucher, ad esempio. L’occupazione aumenta tra gli over 50 e non tra gli under 49. Questi numeri risentono della riduzione dell’incentivo all’assunzione a tempo indeterminato nel 2016. E rende comprensibile il motivo per cui i tecnici di Palazzo Chigi in queste settimane si stanno spaccando la testa per reperire le risorse nella prossima legge di bilancio e allungare di un biennio questi incentivi.
Senza questi fondi pubblici elargiti a pioggia alle imprese il bilancio del Jobs Act sarà peggiore.
Com’è evidente sin dall’inizio, infatti, una volta terminati gli incentivi, l’occupazione tornerà a livelli confacenti a un periodo di crescita senza occupazione fissa, deflazione e stagnazione.
Ovvero, alla situazione che Renzi, Padoan e il governo tutto hanno cercato di nascondere mettendo in circolo poco più, poco meno, di 10 miliardi di euro per un triennio di risorse pubbliche ad uso di privati. «Il tonfo del Jobs Act è ormai certificato» sostiene Arturo Scotto, capogruppo alla Camera di Sinistra Italiana». «Ministero reo confesso, il Jobs Act è un fallimento» concludono i parlamentari Cinque Stelle.
Cesare Damiano (Pd) ritiene che sia venuto «il momento di porsi seriamente il problema della manutenzione del Jobs Act. è prematuro decretare la morte». Probabilmente è vero: la renzianissima riforma è uno zombie agitato nei vertici europei per chiedere la grazia della «flessibilità».
Ai danni dei precari e disoccupati. I sindacati sono preoccupati. Per il segretario confederale Giuglielmo Loy «occorre ancora dare ossigeno all’unico strumento di tutela per imprese e lavoratori, la cassa integrazione, rendendola più flessibile nella durata».
Per tutti gli altri non coperti da questa misura occorrerebbe un reddito di base. Ma nel paese delle riforme del lavoro «non-ancora-morte» e della crescita-raso-zero nessuno si pone il problema delle tutele universali.