Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

martedì 29 marzo 2011

Quel 25 Aprile, Alex e gli slum di Nairobi


di Marco Paolini


Ammetto di averci pensato a lungo, a questa prefazione. Ammetto di avere condiviso la fatica di trovare le parole con amici e compagni.
Come fai a presentare un libro così? Non servono parole, non bastano; servirebbero i fatti, i buoni esempi, ma noi siamo più bravi a darne di cattivi, mica come padre Alex… Come fai a presentare uno così, uno che agisce, sempre e comunque, uno che usa le parole, le lingue come ponti, mai come ostacoli, uno che sa essere messaggio evangelico, rinunciando alla sua voce per darla ai poveri, uno che con rispetto sa ricordarti che l’Africa, se la vuoi vedere è anche dietro la porta di casa tua, uno che non sa farsi bastare l’impegno una tantum con cui altri, non pochi, lavano le proprie coscienze.

Uno che ti ricorda che non servono i soldi per dare o restituire dignità, né ai ladri, né ai derubati.

Un Francesco d’Assisi solido come un faggio trentino, capace di farsi carico del peso della disperazione altrui senza esserne schiacciato, capace di farsi megafono del grido muto degli inascoltati del mondo. Come fai? Non lo so. No, lo sappiamo! Ma per provarci partiamo dall’inizio, dal nostro inizio.

Nel 2001, assieme ad un gruppo di amici, organizzammo una manifestazione all’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano. Eravamo in periodo preelettorale e cercavamo un modo nostro, fuori dai patrocini degli schieramenti politici, per manifestare il nostro dissenso, gridare il nostro «basta» a tutti i «contro» e condividere la fatica di cercare dei «per» in cui credere.

Fu un’autoconvocazione per un 25 aprile di resistenza che chiamammo Appunti partigiani e che da allora rinnova i suoi comizi d’amore ogni anno su quello stesso palcoscenico. Sul palco tutti uguali, sette minuti ciascuno, in un passaggio di testimone tra rockstar e artisti di strada, cabarettisti, attori di teatro, musicisti classici e scrittori. Mai da soli, ciascuno accompagnato da qualcun altro, come nella vita dovrebbe essere.

Dietro le quinte a fare in modo che tutto funzionasse, che ogni scelta fosse condivisa, altri amici: organizzatori, tecnici, uffici stampa, cuochi, tuttofare. Tutti gratis, tutti con il solo scopo di dare significato a quel 25 aprile e, magari, un pochino aiutare il prossimo, quello della Comasina, come quello di Breganze, ma anche di Nairobi, di Korogocho. Decidemmo infatti di devolvere l’intero incasso raccolto con le offerte del pubblico al progetto di padre Alex Zanotelli a Korogocho.

Ci aspettavamo cinquemila persone, ne vennero più di quindicimila, c’era chi già conosceva padre Alex e chi ancora no, ma tutti capirono che una piccola offerta era un atto di giustizia prima ancora che di solidarietà. Fu una giornata lunga, faticosa e meravigliosa, e la raccolta delle offerte fu generosa.

Il giorno dopo, chiamammo padre Alex per dirgli cosa avevamo fatto e lui ci disse: «Grazie per aver organizzato l’incontro, grazie di cuore a tutti. Per i soldi che avete destinato a Korogocho… sono imbarazzato. È bello sentire che tanta gente ci è vicina, ma non è altrettanto facile l’usare soldi a Korogocho quando si cerca di fare un cammino con la gente. Ecco perché sono così titubante sui soldi… lasciatemi pensare».

Poi parlò con una suora inglese, sister Gill, che dal 1987 lavora a Korogocho con i malati di Aids ed assiste oggi, insieme con le comunità di base di Korogocho, oltre novecentocinquanta «casi» terminali di Aids nelle loro case. Lei accettò di usare quei soldi per i malati di Aids di Korogocho.
Alex ci disse che dovevamo andare a vedere, a respirare quell’aria, quella quotidiana fatica di vivere e quell’amore per la vita.

Ci andammo, qualche mese più tardi, con l’amico scrittore Gianfranco Bettin che aveva condiviso con noi gli Appunt partigiani. Era dicembre, da noi inverno, là piena estate; partimmo con enormi valigie, cariche di abiti, penne, quaderni, gomitoli di lana, tutte cose che questo mondo ha in abbondanza e che lì valgono come pietre preziose. Ricordiamo bene quel viaggio, l’incontro con Gino, un missionario laico che ha dedicato la sua vita ai poveri d’Africa, con padre Alex, con sister Gill e con la gente di Korogocho.

Credevamo di essere preparati a quell’incontro, e invece… Le dimensioni, difficili da descrivere, da immaginare, difficili da credere perfino quando ce le hai sotto gli occhi e sotto i piedi: a Nairobi il 55% della popolazione, circa due milioni di persone, vive nell’1,5% del territorio municipale, e nell’80% dei casi per una baracca di lamiera paga l’affitto a gente che non vive nemmeno in baraccopoli, ma in città.

Korogocho è una delle tre grandi baraccopoli che circondano la capitale, è immensa, ma ci vivono «appena» centomila persone, a Kibera sono oltre un milione… gente a cui può accadere qualsiasi cosa senza che il mondo se ne accorga, perché sulla carta non esiste.

Mentre eravamo là, a Kibera scoppiò una rivolta: i proprietari delle baracche, per sfrattare un gruppo di abitanti da un appezzamento diventato edificabile, bruciarono le baracche. Per gente che non ha nulla tutto è prezioso e una baracca di lamiera rappresenta l’unico tetto possibile per la propria famiglia, così scoppiò la ribellione.

Padre Alex ci impedì di andare a Kibera, disse che era troppo pericoloso, lui però con Gino ci andò, per ragionare, mediare, aiutare.

Negli scontri che seguirono morirono alcune persone. Di questa, che imparammo essere la consueta modalità di sfratto per vincere la resistenza dei baraccati, l’Europa, l’Italia, forse non ne avrebbe saputo nulla se Gianfranco Bettin non avesse chiamato la redazione di alcune testate giornalistiche italiane.

Alex ha vissuto in baraccopoli, tra gli ultimi e con gli ultimi, per tutti i dodici anni che ha passato a Korogocho, unico lusso: la chiave di un minuscolo baracchino con una turca. La turca, il bagno, è uno dei parametri per valutare il livello di benessere di una baraccopoli; averne una ogni duecento famiglie è un risultato cui Korogocho è arrivata dopo un lungo cammino.

A Korogocho le fogne sono a cielo aperto, eppure non c’è la puzza che ti aspetteresti. In realtà odore c’è, ma è di bruciato, di fuochi arsi per terra e, su tutto, la discarica, ma non le fogne. «Perché ve ne stupite?». A nessuno piace vivere nella puzza dei propri escrementi. Qui la gente ci vive, la loro conquista di dignità passa anche dal tenere puliti gli scoli, i rivoli, le mille e mille stradine e pertugi di un dedalo in cui perdersi è facilissimo.

Non c’è nulla ai nostri occhi che ti aiuti a orientarti, non un cartello, uno slargo, un crocicchio delineato, seguiamo Alex che ci guida e ci raccomanda di fare attenzione, di non restare indietro, soprattutto di non lasciare che i bambini ci seguano: per loro il rischio di perdersi è altissimo e qui c’è gente che nei loro sorrisi non vede il candore della vita che si rinnova, della speranza in un futuro migliore, ma purtroppo solo un business.

I bambini scomparsi qui raramente vengono ritrovati. Alex è instancabile, dall’alba fino a notte fonda. Quando il sole cala accende la pila e, come un minatore, continua la sua opera di sostegno e assistenza. Ha una parola per tutti, un gesto per ogni dolore: quello rabbioso delle sbornie, quello perso della colla respirata, quello disperato della vita che si spegne. Perfino per noi, per il nostro smarrimento che ci assale di fronte alla realtà dei baraccati. La nostra amicizia con padre Alex e la nostra stima passano da questo suo operare, dal suo fare quotidiano, dal suo saper pregare oggi, in italiano, in inglese o in kikuyu, invocando «Papà», partecipando la sua fede anche con chi di fede non ne sente.

Anche oggi, al Rione Sanità di Napoli, Alex combatte con gli ultimi, in prima linea per il diritto all’acqua, e oggi anche per il diritto all’aria pulita, che interessi camorristici e connivenze politiche sembrano voler negare ai cittadini. Conosciamo poche persone che con tale coerenza e convinzione perseguono il loro cammino, consapevoli dei rischi, ma disposti al sacrificio per il bene collettivo.

Alex è una di quelle persone che per ogni cosa giusta che dice ne fa almeno altre quattro, una persona che prima di parlare «è» e «fa». In questo non è certo l’unico, ce ne sono altre, ma non si notano. E poi Alex sa ascoltare, e parlare con lui è sempre illuminante.
È per questo suo «essere» che Alex si è guadagnato il rispetto anche di chi professa religioni diverse e persino di molti avversari. Ed è sempre per questo suo «essere» che per taluni Alex rappresenta un pericolo. Non dobbiamo farne un eroe e lasciarlo solo, dobbiamo ripartire il rischio che corre, stando al suo fianco nelle battaglie con il nostro agire quotidiano.

Non abbiamo bisogno di eroi, e men che meno di martiri, ma di esempi che ci siano compagni. In tempi di egoismo sempre più marcato e di interessi sempre più privati, la sua figura è un riferimento prezioso, aiuta a dare senso e forza alla resistenza quotidiana. In Africa, ma anche in Italia, tra gli ultimi, e tra chi non vuole rassegnarsi ad una società che condanna sempre più persone ad una vita da ultimi.

domenica 27 marzo 2011

Non ci sono più i peccatori di una volta


In questo laboratorio permanente del mondo alla rovescia che è l’Italia anche i detti popolari vengono capovolti: ad esempio, fatto l’inganno trovata la legge. Così, se il problema è la minore età della ragazzina che il premier avrebbe pagato per portarsela a letto, quale migliore soluzione se non quella di fare una legge che abbassa il limite della maggiore età? I suoi fedelissimi in Parlamento ci hanno provato e fortunatamente la proposta è rimasta carta straccia ma qualcuno, poche centinaia di metri più in là, Oltretevere, ha intravisto tutte le potenzialità della furbata facendone velocemente tesoro. Vediamo come.

In Vaticano, Paese dove non esistono reati (“scandalo pedofilia” docet), ma solo peccati (“scandalo pedofilia” docet) più che la pena e la punizione valgono la confessione e l’espiazione (qualche ave maria e si ricomincia, “scandalo pedofilia” docet). Nel paese dove non esistono reati e punizioni il più efficace strumento di controllo, sia individuale che sociale, è il confessionale. Tanto che è opinione diffusa tra gli esperti vaticanisti che ci sia solo un uomo sulla Terra più potente del papa dei cattolici: il confessore del papa dei cattolici. Perché è l’unico che ne conosce tutte le segrete colpe. Dunque, chiudendo il cerchio, il sacramento della confessione sarebbe il più potente strumento di controllo al mondo. Veniamo al dunque.

È passata quasi completamente sotto silenzio (rilanciata solo da Giacomo Galeazzi su La Stampa) un’intervista rilasciata all’Ansa da monsignor Gianfranco Girotti, reggente della Penitenzieria apostolica, il dicastero vaticano che si occupa dei “problemi di coscienza”. «Oggi – ha detto Girotti in occasione di un corso sulle nuove forme di peccato e la maniera giusta per affrontarle, organizzato per 750 sacerdoti dalla Penitenzeria – ci sono nuovi peccati che prima neanche si immaginavano.

Le nuove frontiere della bioetica, innanzitutto, ci mettono di fronte ad alterazioni moralmente illecite e che riguardano un campo molto esteso». Su tutte, il «ricorso ad alcune tecniche di fecondazione artificiale, quale la Fivet, cioè la fecondazione in vitro, non moralmente accettabili». Il concepimento, chiarisce Girotti «deve avvenire in modo naturale tra i due coniugi». Ma la fecondazione assistita può comportare anche un altro «fatto non lecito» e cioè «il congelamento degli embrioni» che «sono persone». Sorvoliamo su quest’ultima affermazione tanto è fuori dalla realtà e puntiamo al bersaglio grosso: d’ora in poi, per i credenti, l’aver fatto ricorso alla fecondazione assistita è un peccato da confessare.

Non stupisce anche voi che nel paese dove opera una delle più efficaci strutture di raccolta e controllo delle informazioni, si accorgano solo oggi – vale a dire con un ritardo di almeno tre decenni – che esiste la fecondazione in vitro? Se la risposta è sì, sappiate che non siete gli unici e che anzi siete in compagnia di insospettabili personaggi.

Sollecitato da Galeazzi, il professor Bruno Dallapiccola (genetista del Consiglio superiore di sanità, direttore scientifico dell’ospedale Bambin Gesù di Roma e presidente di Scienza&vita, il braccio armato della Cei nell’affossamento del referendum contro la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita) è apparso visibilmente perplesso, per non dire attonito. «La posizione della Chiesa – dice lo scienziato – non è mai stata molto favorevole, però mi stupisce il fatto che la fecondazione assistita venga inclusa tra i peccati visto che viene effettuata nel mondo anche in alcune strutture cattoliche».

Punto primo, avverte tra le righe il genetista, la Chiesa rischia di perdere cospicue entrate in denaro. Punto secondo, detto sempre tra le righe, quella di Girotti non è una posizione del tutto condivisa: «Mi stupisce il riferimento alla Fivet, poiché ormai la tecnica più utilizzata, in almeno il 70 per cento dei casi, è l’Icsi, cioè l’iniezione del singolo spermatozoo nella cellula uovo. La Chiesa ha avuto una posizione di apertura su questa nuova tecnica che di fatto è l’anticamera della fecondazione in vitro.

È segno che su questi temi esistono posizioni variegate nelle gerarchie ecclesiastiche». Stiamo calmi, perché le sorprese non finiscono qui. Sempre Girotti all’Ansa: «Oggi si offende Dio non solo rubando o bestemmiando, ma anche con azioni di inquinamento sociale, rovinando l’ambiente, compiendo esperimenti scientifici moralmente discutibili». Per non dire poi della sfera dell’etica pubblica dove pure entrano in gioco nuovi peccati come «la frode fiscale, l’evasione, la corruzione». E anche queste sarebbero nuove forme di peccato (reato)?

Girotti ci sta forse dicendo che fino a ieri la Chiesa cattolica considerava moralmente lecito per le sue pecorelle truffare, frodare ed evadere il fisco? In effetti, pensando a quello che hanno combinato, a livello legislativo, specie dal concordato di Craxi in poi certi “laici devoti”, la risposta è scontata. Ma la questione che più ci stuzzica in questo contesto è: a cosa è dovuta quest’improvvisa (e surreale) infornata di “peccati” che se presi alla lettera rischia di inaridire parte dei flussi di denaro che finiscono nei forzieri dello Stato vaticano? È lecito pensare che lo scopo sia mettere una pezza a una inarrestabile perdita di potere? Probabilmente sì, se ritorniamo al ragionamento iniziale.

Nella stessa intervista all’Ansa il direttore della Penitenzeria ammette: la Chiesa è preoccupata perché il sacramento della confessione è in grave crisi, il 60 per cento dei fedeli rinuncia. I motivi di questo fenomeno – che si traduce in un minor controllo sul comportamento e quindi sul pensiero delle persone credenti – possono essere i più disparati e non tocca a noi scoprirli. Probabilmente tra di essi ci rientra pure il fatto che oramai non siano pochi (specie in Italia) quelli che ritengono moralmente lecito fare quasi tutto ciò che consente loro di fregare il prossimo. E dunque, pensano, perché confessarsi?

Ecco allora, in conclusione, monsignor Girotti con la sua geniale trovata (che al momento servirebbe a salvare la capra e col tempo, se funziona, a riportare pure i cavoli), direttamente mutuata dai ghost writer del “caso Ruby”: i peccatori sono pochi? Nessun problema, per solleticare il senso di colpa del gregge e ricondurlo all’ovile è sufficiente aumentare i peccati.

Del resto, come diceva Totò, è la somma che fa il totale.

di Federico Tulli

venerdì 25 marzo 2011

Sabato 26 marzo - Una risposta in comune

È possibile che un movimento pacifista degno erede della seconda superpotenza mondiale di un tempo dica qualcosa di netto su quanto sta accadendo a una notte di scafo dalle coste italiane? È possibile che un movimento antirazzista che ha fatto della battaglia contro i centri di detenzione per migranti esternalizzati nel deserto libico il cardine della sua opposizione al regime di Gheddafi scenda in campo senza allinearsi alla politica dei bombardieri franco-anglo-italiani?

Sabato 26 è prevista a Roma una manifestazione importante, una di quelle che possono decidere una stagione politica. L'ha convocata il Forum italiano dei movimenti per l'acqua, per sensibilizzare l'opinione pubblica su una campagna referendaria che rischiava di spegnersi nel silenzio mediatico.
Lo tsunami atomico giapponese l'ha poi inevitabilmente arricchita di un altro contenuto fondamentale: la battaglia contro la riapertura della stagione nucleare in Italia.
Anche qui, c'è in ballo un referendum che il governo sta provando a far saltare perché ha capito che andrebbe incontro a una disfatta. Le due campagne (per l'acqua pubblica e contro il nucleare) si legano quasi naturalmente, e basterebbe questo per fare della giornata del 26 un appuntamento decisivo.

Senonché, in questa primavera densa di stravolgimenti internazionali, è esplosa in maniera dirompente e improvvisa la guerra di Libia, appendice insanguinata della breve stagione dei gelsomini che ci ha entusiasmato con le manifestazioni libertarie di Tunisi e la democrazia autorganizzata di piazza Tahrir. Non si può tacere, non si può stare con Gheddafi e nemmeno con la presunta civiltà imposta a suon di Tomahawk all'uranio impoverito.

Il movimento pacifista italiano è obbligato a riflettere su una vicenda che ci coinvolge molto da vicino, per i trascorsi coloniali del nostro Paese e per tutto ciò che ci lega all'altra sponda del Mediterraneo. Non si può lasciare l'opposizione alla guerra alle argomentazioni di bassa lega che circolano pure negli ambienti di governo.

Il manifesto si candida a essere parte attiva nella discussione, a promuoverla e ospitarla sulle sue pagine, conscio che una risposta disarmata va elaborata collettivamente. Ma bisogna andare in piazza subito, e la prima occasione utile è la manifestazione di sabato prossimo a Roma. Rispettandone i contenuti e l'impostazione iniziale, e semmai colorandola d'arcobaleno. Magari scopriremo che tutti insieme si possono vincere i referendum e perfino provare ad aiutare la mai nata primavera libica senza prenderla a cannonate.

dal Manifesto.

lunedì 21 marzo 2011

ALLA CONQUISTA DEL... GAS


L'intervento “umanitario” è, infine, cominciato. Paesi ex-colonialisti ed ex-schiavisti hanno deciso, in nome di quei diritti umani da essi sistematicamente calpestati, di applicare anche alla Libia il “trattamento Jugoslavia”: guerra e smembramento del territorio in entità nazionali separate.

Lo hanno fatto per interessi economici, per il gas, per rinsaldare il controllo di quel Nord Africa attraversato (anche di recente) da profonde tensioni sociali? No di certo (dicono loro). Lo hanno fatto (dicono sempre loro) per difendere i civili libici dai massacri del criminale Gheddafi, quello stesso criminale che per anni l'Italia ha pagato per essere il fedele e spietato gendarme dei flussi migratori africani diretti verso l'Europa, grazie anche ad un trattato avviato dal governo di centro-sinistra Prodi-Ferrero- Mastella e non concluso solo perché valutato “troppo oneroso
economicamente”: in sostanza, Gheddafi voleva troppi soldi, ma per il resto il trattato poteva andare.

Gli “interventisti umanitari” hanno rispolverato il solito e ben collaudato armamentario già usato per Somalia, Jugoslavia, Iran, Afghanistan, ecc... ed hanno scatenato l'attacco per rovesciare una situazione che stava evolvendo ormai chiaramente verso la sconfitta militare dei rivoltosi (la cui direzione politica è caratterizzata da personaggi del vecchio regime appoggiati da settori ribelli dell'esercito e da vecchi arnesi filo-americani). Ma qual'è la partita che si sta giocando sulla pelle del popolo libico? È la solita partita che si gioca da anni, la partita della diversa ripartizione delle aree di influenza nel mondo e della predazione delle ricchezze dei paesi aggrediti da parte dei paesi aggressori.

L'astensione dei paesi cosiddetti "BRIC" (Brasile, Russia, India, Cina) e della Germania sulla risoluzione del Consigli di Sicurezza dell'ONU che istituisce la No Fly Zone sulla Libia e che in sostanza da “via libera” all'intervento militare, evidenzia in modo chiaro il punto della questione. La divisione non è tra paesi “cattivi” e paesi “buoni”, tra paesi “sensibili” e paesi “insensibili” alla difesa dei diritti umani, tra paesi “pacifisti” e paesi “guerrafondai”...

La divisione è tra potenze economiche emergenti e potenze economiche declinanti, con le potenze declinanti che tentano di frenare il proprio declino economico e di rafforzarsi nella competizione inter- imperialistica globale a colpi di intervento militare. Queste potenze declinanti (USA ed Europa Occidentale) tentano di usare l'arma delle armi per conquistare o riconquistare aree di influenza e mercati delle materie prime.

Queste potenze si muovono assieme, ma non hanno gli stessi obbiettivi strategici. USA e Francia, ad esempio, mirano a due obbiettivi opposti: la prima a minare l'autonomia energetica francese (e in generale europea), la seconda mira ad estenderla. Ed anche Francia e Italia hanno obbiettivi opposti: i francesi vanno a riprendersi in Cirenaica un “posto al sole” dopo i tempi delle rivolte anti-coloniali; l'Italia si è unita alla coalizione non per occupare bensì “per non farsi occupare” ovvero per non farsi scippare interessi faticosamente conquistati in questi anni. Lo ha chiarito benissimo il Ministro La Russa che ha detto che non si danno le chiavi di “casa propria” a qualcuno senza controllare che cosa ne fa.

Questo è il quadro in cui si sviluppa l'aggressione alla Libia, un quadro di cui non sono protagonisti né gli amici di Gheddafi, né i nemici di Gheddafi anche se saranno loro - ovvero il popolo libico - a pagarne tutte le dure conseguenze. E chi ancora continua a trastullarsi con Gheddafi si - Gheddafi no fa il gioco, consapevolmente o meno poco importa, delle potenze militari che stanno devastando la Libia uccidendo migliaia di persone “semplicemente” per difendere o conquistare interessi economici.

In questo momento è importante che tutte le persone e le forze politiche e culturali che si definiscono antimperialiste si mobilitino per denunciare la natura predatoria dell'aggressione e per esprimere la propria solidarietà con il popolo libico; non solo, ovviamente, con la parte che sta sotto i missili all'uranio impoverito e al fosforo bianco degli “occidentali”, ma anche con la parte che oggi esulta insensatamente all'intervento salvifico di Sarkozy e soci senza rendersi conto che se l'aggressione avrà successo il destino dei territori “liberati” sarà quello di diventare “cortile di casa” di alcuni paesi europei e occidentali. E nel cortile di casa c'è sfruttamento, non libertà.

Se Gheddafi deve essere eliminato (come merita anche per la brutale repressione degli immigrati) a farlo deve essere una rivolta popolare socialista che riprenda e conduca avanti il cammino progressista degli esordi della Jamahiriya, non certo le rivolte sostenute dalle “bombe umanitarie” dei paesi imperialisti.

19 marzo 2011

CSPAAAL
Comitato di Solidarietà con i Popoli dell'Asia,
dell'Africa, dell'America Latina

domenica 20 marzo 2011

La risolluzione dell'ONU che porta alla guerra


Il Consiglio di sicurezza dell’Onu si è pronunciato a favore dell’istituzione della No fly zone sulla Libia e dell’autorizzazione all’uso di non meglio precisati mezzi necessari a prevenire violenze contro i civili.

In altri termini, ha autorizzato la guerra.

Il pallido e fino ad oggi insignificante Ban Ki Moon, diventato presidente dell’Onu solo in virtù dei suoi buoni uffici con gli Usa e del suo basso profilo, si è esaltato fino a definire la risoluzione 1973 storica, in quanto sancisce il principio della protezione internazionale della popolazione civile.
Un principio che vale a corrente alternata. Non ci sembra di ricordare sia evocato quando i cacciabombardieri della Nato fanno stragi di civili in Afghanistan. Altrettanta solerzia non è risultata effettiva quando gli F16 dell’aviazione israeliana radevano al suolo il Libano o Gaza, uccidendo migliaia di civili innocenti.

Si tratta, in realtà, di un precedente ben pericoloso. Sul quale giustamente paesi come la Russia, la Cina, il Brasile, l’India e la Germania hanno espresso più di una riserva. Che si è limitata però ad un’astensione, che lascerà di fatto liberi quei paesi che hanno deciso di bombardare Tripoli e sostituire Gheddafi con le fazioni a lui ostili per un cinico calcolo geopolitico e di convenienze.

Sia chiaro a tutti che i diritti umani e le giuste aspirazioni dei giovani libici alla democrazia e a liberarsi dal regime non c’entrano nulla con la decisione di Parigi e Londra, seguite a ruota dal sempre più deludente Obama, di attivare l’intervento militare.
Chi sarà in futuro a decidere quali violenze contri i civili sono accettabili o meno saranno solo e sempre le superpotenze militari imperialiste e occidentali. E lo faranno con il sostegno del sistema di informazione mondiale che selezionerà alla bisogna chi e come andrà bombardato, chi potrà o meno rimanere al potere.

Chi stabilisce, infatti, che si decide di bombardare la Libia, mentre si consente all’Arabia Saudita di inviare truppe per sedare le proteste nel vicino Baherein, mentre si lascia il presidente dittatore da trentadue anni dello Yemen, Abdullah Saleh, sparare da giorni sulla folla che ne chiede a gran voce e da tempo le dimissioni? Si arriva al paradosso che la petromonarchia del Qatar, anch’essa impegnata nel reprimere le proteste del Baherein con il suo esercito, ha allo stesso tempo annunciato che invierà i suoi caccia per la democrazia in Libia.
Tutto ciò dimostra solo come nel caso libico si è da subito tentato di intervenire militarmente per interessi geopolitici.
Quale è infatti la razionalità politica di tale scelta? Semplice.

Come sempre, ciò che muove gli eserciti non sono le intenzioni umanitarie, ma ben altre ragioni e motivazioni. Seguite il petrolio, il gas e i dollari e troverete la risposta.
Per ciò che riguarda la Francia e la sua frenesia di menar le mani si segua, oltre alla via del petrolio, quella dell’uranio che alimenta le sue centrali nucleari e quelle che vende per il mondo.
Il cessate il fuoco unilaterale dichiarato dal governo libico forse lascia del tempo per cercare di evitare la tragedia di una guerra nel mediterraneo. Temiamo duri poco. Sarà cercato in ogni modo un pretesto per giustificare comunque l’attacco, ora che una parvenza di legittimità internazionale è stata data dalla sciagurata risoluzione 1973.
L’Onu, che dovrebbe prevenire i conflitti fra gli Stati, in questo caso ha varato una decisione che potenzialmente potrebbe allargarlo e diffondere la guerra.

Una decisione quindi si storica, ma per stupidità. Una stupidità alla quale, naturalmente, non si sottrae il governo italiano, pronto a dare basi uomini e mezzi all’impresa.

In buona compagnia del Pd – già d’altronde in prima fila nelle guerre umanitarie del passato – che condivide apertamente tale scelta.

Mentre la situazione in Libia stava precipitando, solo alcuni paesi progressisti dell’america latina hanno avanzato, invece di minacce e proclami, una proposta di mediazione, di soluzione politica del conflitto capace di scongiurare la guerra civile e l’intervento esterno.

Questa proposta è rimasta colpevolmente abbandonata. Se vi sono ancora degli spiragli per evitare il peggio vanno usati ed agiti fino in fondo. Serve da subito una mobilitazione del popolo della pace per fermare la macchina da guerra che sta scaldando i suoi motori. Serve scendere subito in piazza contro la guerra e per chiedere che l’Italia rimanga fuori da questa nuova e sciagurata avventura bellica. Noi ci saremo.


Liberazione 19 marzo 2011

sabato 19 marzo 2011

Nucleare, tre domande e tre risposte.


“Non facciamoci prendere dalle emozioni”, hanno detto a caldo i governanti di fronte alla tragedia di Fukushima. Salvo poi farsi prendere dai sondaggi e innestare una rapida e forse falsa marcia indietro. Ma prendiamoli alla lettera: ragioniamo.

1. Il nucleare italiano serve al paese per smettere di importare elettricità dalla Francia o piuttosto ai francesi per estendere il loro mercato?

In Italia l’energia elettrica costa all’industria parecchio di più che in altri paesi europei. Il doppio, si potrebbe dire, talvolta anche di più. Bisogna tenerne conto, perché è l’unico argomento non immediatamente contraddittorio o falso a favore del nucleare nazionale, come per esempio l’indipendenza dall’estero o i vantaggi in direzione del riscaldamento globale. Ma davvero con due o quattro reattori nucleari il costo dell’elettricità per le industrie italiane scenderebbe di molto?

Con il sistema di prezzi e di bollette attuale non sarebbe così. Anzi il rischio sarebbe di pagare nelle bollette la costruzione o l’eventuale interrotta costruzione delle centrali. In altre parole, conta molto di più il sistema di prezzi in atto, molto legato all’oligopolio elettrico che non l’efficienza produttiva leggermente incrementata da poche centrali nucleari. I due o quattro reattori in funzione tra dieci anni potrebbero modificare marginalmente lo svantaggio che sarebbe recuperato meglio con una politica industriale indirizzata da scelte produttive, di prodotto e di processo, più “leggere”, con minori contenuti energetici. Nel decennio ottanta l’Italia è stata capofila in Europa da questo punto di vista, per poi lasciarsi andare alla deriva. Contro la scelta nucleare militano i costi di costruzione, l’inadeguatezza del territorio, scarsamente pianeggiante e con fiumi in cattiva salute o esauriti, per cui l’acqua necessaria in grande quantità, per il raffreddamento, dovrebbe essere ricavata dal mare, con la conseguenza di rendere più fragile l’impianto e più a rischio il territorio.

Inoltre devono essere prese in considerazione, la diffusa sismicità, la presenza ininterrotta di città, paesi e anche luoghi isolati, notevoli da un punto di vista storico, archeologico, paesaggistico. Infine gli aspetti di salute pubblica sempre negati e sempre riaffioranti per le persone, soprattutto i bambini, che vivono nei pressi di un reattore; e quelli di sicurezza, sempre rimossi da parte dei sostenitori. D’altro canto Enel, maggior produttore nazionale, possiede centrali nucleari in Spagna e in Slovacchia. Potrebbe, se volesse, esportare una parte dei chilowatt nucleari in Italia, attraverso la rete europea, costringendo i francesi a subire una concorrenza. Il fatto è che Enel è il socio di Électricité de France o Edf nell’impresa del nucleare nostrano e inoltre è il maggior importatore di elettricità dalla Francia. I margini ottenuti da Enel importando i chilowatt “nucleari” sono considerevoli; Enel compra a poco e vende a molto. Nessuna impresa del settore è interessata a fare chiarezza, perché il sistema elettrico nazionale è ampiamente remunerativo per tutti: ogni giorno il prezzo è fatto dal peggiore dei venditori accettati. Infine deve essere ricordato che Edf ha un assoluto bisogno di esportare energia elettrica da qualche parte e in quantità e l’Italia serve ottimamente allo scopo.

La Francia non sa come fare. La nazione sorella è letteralmente prigioniera del suo nucleare e non è in grado di ridurre la propria dipendenza. Può solo continuare, con l’incubo di non trovare soluzioni sicure o almeno accettabili per il futuro spegnimento dei suoi 58 reattori, la gestione sicura degli impianti non più in produzione (decommissioning) e la collocazione delle scorie. Rispetto all’Italia vi si determina una riduzione nei consumi di gas ma consumi petroliferi poco diversi da quelli italiani, con un numero di abitanti corrispondente, pur in assenza di reattori nucleari in Italia, a conferma del fatto che il nucleare serve solo alla generazione elettrica.

2. L’Italia ha perso terreno per l’assenza di energia nucleare diretta?
Se l’Italia è “cresciuta” meno di altri nei decenni passati, non è certo per carenza di centrali nucleari, quanto per cattiva politica ed egoismo rapace. Da un punto di vista economico generale, alla mancata crescita del Pil, spesso lamentata, si sarebbe potuto ovviare con un aumento di occupazione nei servizi e nella manutenzione del territorio e delle città. Sarebbe cresciuto il Pil con la soddisfazione dei cittadini. Si sarebbe potuto e si potrebbe investire nella scuola, nell’università, nella ricerca, nella cultura.

L’Italia sarebbe più forte e interessante, più degna d’affetto e considerazione; e più ricca anche di Pil, se è questo che conta. La scelta del nostro paese industriale è stata quella di cedere rami di attività molto importanti: chimica, farmaceutica, elettromeccanica di consumo, telefonia mobile, informatica. E sono tutti settori nei quali la differenza non è data dai quantitativi di energia elettrica disponibili o dal loro costo, ma dalla qualità d ricerca e innovazione nonché, un po’, dal costo del lavoro. L’energia elettrica in Italia è sovrabbondante.

3. Il nucleare italiano risolve i problemi energetici nazionali?
I problemi di prospettiva sono dati soprattutto dal 20/20/20 prescritti per il 2020 con l’accordo del dicembre 2008 da parte del Consiglio europeo. La formula matematica, per chi non lo ricorda, significa che per l’anno 2020 si devono ridurre del 20% le emissioni di gas serra (anidride carbonica), il 20% dell’energia deve essere da fonti alternative e l’efficienza energetica deve aumentare del 20%. Una corsa, o anche una corsetta, al nucleare distoglie dai veri obiettivi.

Sposta risorse economiche, sociali e intellettuali verso altri fini che non sono quelli ritenuti essenziali dall’Unione europea o Ue, in vista non tanto di un futuro successo industriale o economico, ma semplicemente di un futuro. L’Ue ha accettato l’indicazione degli scienziati raccolti nell’Ipcc o Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazione unite sul disastro ambientale in corso per il riscaldamento globale e ha indicato la prima tappa del proprio percorso, indicando ai paesi membri obiettivi da rispettare.

Il 20/20/20 è poi una prima tappa, insufficiente per salvare l’attuale società umana, ma serve come partenza e come apprendimento. Ogni paese che si divincola, guarda altrove, perde l’obiettivo, è in errore e deve cambiare. Da questo punto di vista la reale scelta obbligata tra nucleare e rinnovabili, tra atomo e sole, non è aggirabile con un “ma anche”. Le risorse, scarse, sono da indirizzare verso un risultato pratico e visibile.

Va aggiunto che il nucleare vedrebbe il nostro paese a rimorchio della Francia o degli Stati uniti, mentre il solare, per non citare che uno degli sviluppi possibili, ci potrebbe reintrodurre in testa ai paesi più avanzati. C’è un altro aspetto, quello che un mix di impianti leggeri, adatti ai luoghi e meno invadenti dal punto di vista della natura è preferibile per chi creda nella democrazia dei beni comuni.

Non sarà invece d’accordo chi è convinto che la natura vada dominata sempre e in ogni caso. Ma dai tempi in cui il re Serse fece frustare il mare, quest’ultimo comportamento non è saggio, tanto nei confronti della Natura – del mare (Ellesponto) in questo caso – quanto di chi è costretto dai suoi comandanti a fare una cosa tanto stupida.

di Guglielmo Ragozzino

giovedì 17 marzo 2011

150 anni di unità nazionale: conquiste e perdite



In occasione del 150° anniversario dell’unificazione nazionale potremmo porci due semplici domande.

La prima: Cos’è che dal 1861 ad oggi riteniamo che sia stato maggiormente tradito rispetto agli ideali risorgimentali?

L’elenco è breve:
1. il Mezzogiorno è stato il grande penalizzato, in quanto s’è voluto trasformarlo in un’enorme colonia di risorse umane, naturali e materiali per l’industrializzazione del centro-nord. Se ancora oggi i meridionali avvertono come traditori i Savoia e persino Garibaldi, il motivo è tutto qui: la cronica mancanza di una riforma agraria a favore delle plebi rurali; la netta subordinazione delle esigenze agricole a quelle industriali.

2. Unità nazionale e processo industriale hanno voluto dire decollo di un sistema sociale basato sul capitalismo privato, senza alternative di sorta; quel capitalismo che porterà sì al miracolo economico della belle époque e del consumismo anni Cinquanta e Sessanta, ma anche al brigantaggio, all’emigrazione, all’abbandono delle terre, alla penetrazione massiccia del capitalismo nelle campagne (e quindi alla formazione di monocolture per i mercati e alla fine di qualunque esperienza di autoconsumo e di comunità di villaggio).

3. Lo sviluppo del capitalismo privato, prima concorrenziale poi monopolistico (con l’appoggio dello Stato), ha comportato una devastazione irreversibile dell’ambiente naturale, nel senso che si è preferito privilegiare la “produzione di beni industriali” piuttosto che la “riproduzione di beni naturali” (al nostro paese s’è imposta con la forza l’idea di “consumare” quante più merci possibili).

4. La centralizzazione dei poteri politici, nella capitale romana, ha mortificato enormemente gli usi, i costumi, le tradizioni, le lingue locali e regionali, nonché l’autonomia delle comunità territoriali e degli Enti Locali (cosa che oggi si cerca di recuperare, senza però rimettere in discussione lo sviluppo capitalistico del paese, attraverso l’idea di “federalismo”, che, guarda caso, sembra procedere in parallelo a una accelerazione dei processi politici verso una repubblica presidenziale).

5. La permanenza di uno “Stato del Vaticano” ha reso impossibile un’effettiva separazione giuridica e politica tra Stato e chiesa, un’affermazione della laicità dello Stato, una formulazione autenticamente democratica degli articoli costituzionali riferiti alla libertà di coscienza e di religione (l’art. 7, p.es., sarebbe semplicemente da abolire).

La seconda domanda: dal 1861 ad oggi cos’è che si è maggiormente sviluppato a favore della democrazia sociale, culturale e politica?

1. Nel secondo dopoguerra si è sviluppato lo Stato sociale (scuola, sanità, previdenza, assistenza ecc.), che però si è cominciato progressivamente di smantellare sin dall’inizio degli anni Ottanta e soprattutto a partire dal crollo del cosiddetto “socialismo reale“, di cui lo Stato sociale dei paesi occidentali costituiva una sorta di “mimesi”. Si fa questo senza rendersi conto che gli sbocchi inevitabili del puro liberismo sono stati, fino ad oggi, due guerre mondiali, intervallate da decenni di disumane dittature, e là dove non s’è imposta la dittatura politica (p.es. in Francia o in Inghilterra) è stato solo perché si beneficiava ancora dei vecchi imperi coloniali, cioè di una dittatura economica.

2. Le battaglie condotte dal mondo del lavoro contro il capitale (anni Venti, Resistenza e anni Sessanta e Settanta) hanno sicuramente contribuito a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, ma anche queste conquiste si stanno progressivamente riducendo, soprattutto a causa del fatto che il globalismo del capitale sta inducendo alla delocalizzazione delle imprese occidentali, là dove il costo del lavoro è minimo.

3. La donna ha sicuramente aumentato la consapevolezza di una propria diversità di genere da far valere nel rapporto con l’uomo, ma l’Italia resta ancora un paese molto indietro rispetto ad altri paesi nord-europei. Soprattutto la donna italiana non è in grado d’intervenire nella rappresentazione che di lei danno i mass-media (tv, cinema, carta stampa e pubblicità).

4. E’ aumentata la sensibilità per i problemi dei consumatori, ma resta ancora molto forte l’egemonia economica dei produttori. Il consumatore vede il produttore come un nemico da combattere proprio perché il produttore vede il consumatore come un “pollo da spennare”.

5. E’ notevolmente cresciuto l’interesse per i problemi ambientali, per le produzioni biologiche e per quelle ecosostenibili, ma nel complesso ciò non scalfisce il trend dominante, che resta basato su saccheggio e spreco di risorse naturali, e questo nell’illusione che scienza e tecnica siano sempre in grado di risolvere i loro stessi problemi, ma anche nell’errata percezione di causare danni minimi coi nostri comportamenti sbagliati, per non parlare della irresponsabilità con cui assegniamo ad altri o alle generazioni future il compito di rimediare ai nostri guasti.

6. E’ aumentato il senso di appartenere a una comunità europea, ma siamo ancora lontanissimi dall’avere un’identità comune europea. Gli Stati continuano a muoversi in maniera separata e non vogliono attribuire al Parlamento europeo poteri effettivi. Le religioni, specie quella cattolico-romana, ostacolano notevolmente la formazione di un’identità europea laica. L’Europa continua ad essere avvertita come un di più, spesso inutile e oneroso.Probabilmente però la cosa che più manca alla coscienza degli italiani non è il senso della democrazia o della laicità, che pur certamente da noi difettano più che altrove in Europa.

E’ piuttosto la consapevolezza di ciò che l’Italia fa nel mondo. Noi non sappiamo nulla di come il nostro paese si muove all’estero. Non sappiamo cosa produce, cosa acquista, come lo faccia, che rapporti abbia con tutti i paesi della terra. Soprattutto non sappiamo quali siano i legami internazionali che determinano il nostro benessere.

lunedì 14 marzo 2011

Giappone, economia del disastro: l'effetto farfalla

Venerdì scorso, la scossa di 8.9 gradi Richter che ha devastato il nordest del Giappne ha fatto ondeggiare i grattacieli di Tokyo pochi attimi prima che la borsa chiudesse, condizionandone comunque la performance. Certo, l'indice Nikkei sui futures ha perso tre punti, ma nonostante non si sapesse ancora dello tsunami, il settore delle costruzioni già faceva un bel balzo in alto, con le azioni di alcune compagnie edili delle aree più colpite che registravano fino a più trenta per cento.

Quando Tokyo ha chiuso e le notizie provenienti dal Sol Levante si sono diffuse nel mondo, le borse hanno cominciato a comportarsi schizofrenicamente, con Wall Street, buona ultima per questioni di fuso orario, che registrava addirittura una rivalutazione dello yen. La ragione? Capitali giapponesi - cioè yen, appunto - che tornano a casa per la ricostruzione.
E tanto per complicare il quadro complessivo, il prezzo del petrolio è sceso su tutti i mercati mentre quello del gas è salito. Per il primo si teme una battuta d'arresto dell'economia del Giappone, terzo consumatore mondiale; nel caso del secondo, al contrario, si prevede che il Sol Levante ne utilizzerà di più per sopperire alla probabile riduzione di energia nucleare disponibile.

L'imprevedibile e cinico andamento delle borse rivela però almeno due verità.
Primo: economia di carta (leggi "finanza") ed economia reale sono interlacciate attraverso mille nessi imperscrutabili ai più.
Secondo: il disastro umano e sociale dell'accoppiata terremoto-maremoto potrebbe avere esiti imprevedibili, sul medio-lungo periodo, per l'annaspante economia giapponese e per quella planetaria tutta.

Nel quarto trimestre del 2010, il Pil del Sol Levante aveva registrato una contrazione dell'1,3 per cento. Oggi, non pochi analisti ritengono che il boom delle (ri)costruzioni trainerà l'economia nipponica così come avvenne già all'indomani di Hiroshima e Nagasaki. Una crescita Cinese, insomma, con una differenza.

Oltre Muraglia, edilizia e infrastrutture, anche se in odore di bolla, sono comunque trainate dalla richiesta abitativa di una moltitudine spinta a migliorare i propri standard di vita. In Giappone invece, con la violenza della natura, si dispiega quella del capitale: la distruzione diventa occasione per un nuovo processo di accumulo e può apparire tutto sommato, a qualche occhio capitalista, una buona notizia.

Nell'immediato, si prevede però una contrazione dell'economia. Alcune fabbriche sono chiuse, la produzione ridotta, le comunicazioni rallentate. Un destino beffardo per gli inventori del modello Toyota, del just-in-time, l'idea cioè che per aderire meglio alle richieste di un mercato finito e volubile, non si debba tenere merce in magazzino, ma farla circolare al massimo di velocità ed efficienza per arrivare là, dove c'è domanda, prima e meglio di altri.
Oggi non c'è merce da far circolare e, qualora ci fosse, non la si porterebbe da nessuna parte. Bisogna leccarsi le ferite e poi, piano piano, ripartire. Ricostruire, appunto.

Forse magazzini un po' più pieni sarebbero serviti a contrastare un'altra emergenza che già si intravede. E qui le ricadute sono planetarie. La distruzione, specialmente lo tsunami, ha infatti inferto un duro colpo alla produzione di riso, di cui il Giappone è uno dei maggiori consumatori mondiali (9 milioni di tonnellate). Finite le scorte, Tokyo importerà massicciamente, dando ulteriore impulso al prezzo delle commodities e all'inflazione alimentare, figli del global warming e della speculazione globale.
È in virtù di questo nesso economico che terremoto fa rima con intifada, tsunami con rivolta del pane.

Si dice, nella teoria del caos, che il battito d'ali di una farfalla in Brasile può scatenare un uragano in Giappone. Oggi, in direzione contraria, un terremoto nel nordest del Sol Levante può far approdare un barcone di migranti africani a Lampedusa.

Gabriele Battaglia

domenica 13 marzo 2011

Nucleare? tuttapposto!!



Terremoto e Tsunami in Giappone destano sgomento. Le reazioni non possono essere che di solidarietà e sostegno al popolo giapponese colpito da questa tragedia.

In questa tragedia c'è un evento che parla direttamente all'Italia: si tratta delle conseguenze degli incidenti nelle centrali nucleari. Ancora non sono chiare tutte le conseguenze, anche per le reticenze del Governo. E' un fatto che gli incidenti si sono rivelati, ora dopo ora, sempre più gravi, fino all'evacuazione di decine di migliaia di persone e al rilascio di radioattività di cui per ora non conosciamo la gravità esatta.

Il Governo italiano che ha fatto ricorso al voto di fiducia per reintrodurre il nucleare in Italia dovrebbe riflettere alla luce degli avvenimenti giapponesi.
Il Governo italiano dovrebbe decidere di sospendere il progetto nucleare, o almeno di bloccarne l'attuazione fino all'effettuazione del prossimo referendum che punta a cancellare la legge 99/2009, aspettando il responso degli elettori.

Fino ad ora il Governo ha dimostrato di avere paura del referendum abrogativo e preferisce buttare dalla finestra 300 milioni di euro pur di evitare un successo dei referendum. Infatti basterebbe fare coincidere le elezioni amministrative con i referendum per risparmiare 300 milioni, ma l'Esecutivo sa che il nucleare è stato approvato dal parlamento solo imponendolo con il voto di fiducia e che la maggioranza dei cittadini è tuttora contraria.

La scelta nucleare è stata fatta su pressione della lobby affaristica italiana ed internazionale che punta sul grande affare nucleare, in spregio all'esito dei referendum del 1987, che con percentuali fino all'80% si pronunciarono per l'uscita dal nucleare.
C'è anzitutto una questione democratica. Può un parlamento come questo, per di più ricattato dal voto di fiducia, capovolgere il voto dei cittadini ?

A questo, punto la scadenza dei prossimi referendum abrogativi deve essere utilizzata per bloccare la folle scelta del Governo di tornare alle centrali nucleari in Italia e di dissipare un bene pubblico come l'acqua. C'è un'evidente sinergia tra il referendum per garantire che l'acqua resti bene pubblico e quello per bloccare la scelta nucleare.
Arrivare al quorum nei referendum è la difficoltà maggiore da superare, per questo il Governo ha scelto di fatto il boicottaggio del voto.

Partecipare al voto e contribuire a realizzare il quorum è un buon antidoto contro la disaffezione elettorale che da due decenni sta colpendo il nostro Paese.
Perché il nucleare va bloccato ? Anzitutto per ragioni di costo. L'Enel ha cercato di dimostrare che il nucleare conviene, ma per farlo ha raccontato balle sui veri costi di costruzione delle nuove centrali. Nel 2009 Enel sosteneva che una nuova centrale Epr sarebbe costata tre miliardi di euro. Di fronte all'esplosione dei costi dei prototipi finlandese e francese ha dovuto alzare la cifra a quattro miliardi. In realtà il costo reale è ormai di otto miliardi di euro a centrale. Con questi costi non esiste la possibilità di produrre energia elettrica a prezzi inferiori alle fonti attuali, anzi questi saranno maggiori.

Non è vero neppure che l'Italia sarebbe energeticamente più autonoma, perché dovremmo importare quasi tutto, certamente le tecnologie più sofisticate e il combustibile. Inoltre, il combustibile nucleare è disponibile per alcuni decenni, esattamente come il petrolio e gli altri combustibili fossili. Come hanno detto 200 imprenditori, prima firma Pasquale Pistorio, investire oltre 30 miliardi nel nucleare per le prime 4 centrali vorrebbe dire bloccare di fatto gli investimenti nel risparmio energetico e nelle rinnovabili.

L'Italia non ha le risorse per fare tutto. Lo conferma Enel che ha venduto parte delle sue energie rinnovabili per diminuire il suo debito e poi gettarsi nella costosissima avventura nucleare .
Le centrali nucleari sono enormi concentrazioni di investimenti e quindi di affari, con tutte le preoccupazioni conseguenti. Mentre il risparmio energetico e le energie rinnovabili si spandono su migliaia di investimenti e di operatori diffusi.

Il nucleare è pericoloso. Lo smaltimento delle scorie radioattive non è stato risolto in alcun paese al mondo. Si aggiunga il problema delle scorie accumulatea dalle centrali dismesse e quello dei siti in cui sono costruite.
Ci sono scorie che rilasceranno radiazioni per decine di migliaia di anni, alcune tipologie per centinaia di migliaia. Costruendo le centrali condanneremmo le future generazioni a convivere con i pericoli e le conseguenze di queste scelte per tempi maggiori di quelli della storia umana conosciuta.

Questo è il peggior regalo che le attuali generazioni possono fare a quelle che verranno.
Dopo Three miles Island e Chernobyl ora c'è il grave incidente in Giappone. Per non parlare di tanti altri incidenti, per fortuna meno gravi, le cui notizie vengono nascoste. Ad esempio, in Francia si sono avuti 19 incidenti nei primi due mesi dell'anno.
I pericoli non sono rappresentati solo dagli incidenti. Le centrali rilasciano radiazioni anche durante il loro funzionamento normale, come hanno dimostrato diverse indagini. L'ultima ricerca è stata svolta in Germania e ha rilevato, nelle aree più vicine alle centrali nucleari, un aumento delle leucemie di 2.2 volte nei bambini.

Approfittando della crisi libica e dell'aumento dei prezzi del petrolio i nuclearisti sono tornati all'attacco, omettendo di dire che le centrali nucleari non sono la soluzione, perchè anche il più ottimista tra loro ammette che prima del 2020 non entreranno in funzione. Fino al 2020 che facciamo ?

In realtà la soluzione dei problemi energetici è data risparmio energetico e dalle fonti rinnovabili perchè non dipendono da vicende internazionali, perchè possono essere introdotte in tempi brevi, con investimenti più limitati e con risultati occupazionali 15/20 volte maggiori del nucleare. Il Governo, come è noto, sta facendo il contrario, rischiando così di compromettere lo sviluppo delle rinnovabili per favorire l'avventura nucleare.

Solo puntando su risparmio energetico e rinnovabili potremmo essere pronti per gli appuntamenti del 20/20/20 concordati con l'Europa.
Se il Governo, come è probabile, ignorerà ogni principio di precauzione, occorrerà occorrerà intensificare la mobilitazione per arrivare al quorum e vincere il referendum sul nucleare, oltre che quello sull'acqua bene pubblico.

sabato 12 marzo 2011


«A difesa della Costituzione» non è uno slogan qualsiasi. La manifestazione di oggi può rappresentare una svolta se riuscirà a chiarire - finalmente - qual è il terreno sul quale si sta svolgendo, in Italia, il più impegnativo scontro politico, ma anche la più profonda battaglia culturale. E non da oggi.

L'intero ultimo ventennio s'è caratterizzato per la volontà di modificare il «patto costituente». È in particolare la nascita del berlusconismo che dà origine e impulso a un ciclo politico post-costituzionale.

La «discesa in campo» dell'imprenditore Berlusconi è esplicitamente motivata dalla fine del sistema costituzionale classico. Il partito-azienda che egli promuove non ha alcun legame con la Costituzione. Anzi la costituzione è per esso un corpo estraneo, un intralcio alla realizzazione immediata degli scopi politici da conseguire.

La divisione dei poteri, le garanzie dei diritti, le misure di bilanciamento tra gli organi politici, il rispetto per i ruoli distinti e le prerogative di ciascun soggetto istituzionale (dal Parlamento alla magistratura, dalla Corte costituzionale al Presidente della repubblica), che rappresentano l'essenza del costituzionalismo democratico, diventano d'improvviso solo un impaccio.

È la Costituzione che «impedisce di governare», che ostacola il governo del fare. Un governo che trae la sua legittimazione unicamente dal consenso di una minoranza di cittadini, fatta passare per una maggioranza di popolo (se non per tutto il popolo unitariamente inteso) grazie ad una distorsione elettorale accompagnata da una propaganda ingannevole.

Come in tutti i regimi populisti ciò che unicamente conta è l'acclamazione, il poter ricondurre il potere a una fonte d'origine popolare, non al popolo reale, nelle sue divisioni e i suoi contrasti, bensì al suo volto mitico. Una volta investito del potere il "sovrano" non ha più limiti, è egli - egli solo - che opererà per il bene del popolo, con fare paterno.

L'"eletto" del popolo (non invece eletto dal popolo) non potrà certo essere giudicato per le modalità con cui opera, la delega di potere politico a lui conferita è assoluta, non può esservi un contropotere, nessun diritto può farsi valere dinanzi a chi incarna senza sbavatura alcuna il popolo nella sua "identità totale".Quanto di più lontano dall'idea che il costituzionalismo ha imposto nella modernità giuridica, spezzando proprio la convinzione medioevale dell'assolutezza della sovranità.

Il costituzionalismo ha imposto la supremazia delle regole su quella del potere: oggi non a caso si torna a parlare di "neomedioevalismo istituzionale".
Eppure in Italia questa storia di lungo regresso è apparsa ai più la forma politica nuova, in grado di dare risposta all'evidente crisi della democrazia rappresentativa. Una crisi, quella della rappresentanza politica, che non poteva - e non può - essere negata.

Per un lungo trentennio la nostra vita democratica è stata organizzata dai partiti di massa, che assorbivano l'intera rappresentanza popolare.

Legittimati in questo ruolo da una chiara disposizione costituzionale (l'articolo 49), i partiti storici che avevano dato vita alla repubblica e innervato - nel bene e certamente anche nel male - la democrazia costituzionale italiana, erano tutti ben consapevoli che il loro potere, e quello dei tanti leader che si sono avvicendati al governo, aveva una essenziale base di legittimazione nella Costituzione.

Lo scontro politico poteva essere acceso e le divisioni inconciliabili, ma la tavola di valori costituzionali, il progetto emancipante che in essa era iscritto, non venivano esplicitamente contestati da nessuno. Le ideologie del Novecento dividevano, ma la costituzione univa. Porsi sopra la legge non sarebbe stato concepibile, voleva dire attentare alla Costituzione. La fedeltà alla Costituzione non poteva essere discussa a pena dell'esclusione dal circuito della rappresentanza politica. Poi non è più stato così.

Se ci si vuole interrogare sulle ragioni di fondo che hanno indotto le diverse forze politiche (chi più chi meno) ad abbandonare la strategia della legittimazione costituzionale, non ci si può fermare a constatare la crisi dei partiti politici di massa.

Non v'è infatti un nesso necessario tra un certo tipo di partito e la costituzione. Quest'ultima va ben oltre le specifiche forme organizzative che assume la libera dialettica politica, nei singoli paesi e nei diversi contesti storici.

Negli Stati Uniti - ad esempio - partiti di massa di stampo europeo non sono mai esistiti e la personalizzazione del potere è iscritta nella cultura democratica di quel popolo, ma il rispetto per i Padri fondatori non ha mai cessato di porsi a fondamento indiscusso di ogni potere, anche di quello presidenziale.

In Europa, non si vede nessun ordinamento politico, pur se in crisi, contestare la legittimazione della lex superior e anzi il "patriottismo costituzionale" è indicato come la via da perseguire per superare le difficoltà della politica e riequilibrare le divisioni sociali che la recessione economica rende laceranti.

In Italia il regime populista sembra in una fase agonica, ma tenta l'ultimo assalto alla legge suprema, progettando un'epocale riforma costituzionale della giustizia. Alla piazza del 12 marzo è affidato l'immenso compito di raccogliere la bandiera caduta della costituzione per respingere nel passato, da dove è arrivato, il cavaliere medioevale che ci governa.

mercoledì 9 marzo 2011

Sicurezza nucleare? ci pensa Veronesi!!

Veronesi fa di mestiere l'oncologo e, nel tempo libero, l'esperto nucleare. Lascia l'incarico di senatore del Pdmenoelle (partito nuclearista) per la presidenza dell'Agenzia per la sicurezza nucleare. Ha 85 anni e, come è giusto, le conseguenze del nucleare, di un futuro che non vedrà mai, non lo preoccupano. Con quella dentiera può dire ciò che vuole...



Di Giorgio Ferrari, comitato antinucleare:
Ho lavorato nel settore nucleare per più di venti anni svolgendo i controlli sul combustibile nucleare per tutte le centrali dell'Enel e non ho mai sentito tante grossolanità da uno scienziato che per di più occupa un posto delicato come quello di presidente della Agenzia per la sicurezza nucleare.

Sono l'unico esperto nucleare ad aver fatto obiezione di coscienza dopo l'incidente di Chernobil, mettendo a rischio la mia professionalità e la mia stessa carriera e penso con sgomento al fatto che la sicurezza nucleare venga gestita con le modalità assurde stabilite dal governo: dodici mesi per svolgere il licencing di una centrale nucleare e del deposito nazionale per le scorie, quando il maggiore ente di sicurezza del mondo (la Nrc statunitense) ci impiega non meno di tre anni disponendo di oltre mille tecnici esperti, mentre la nostra Asn ha solo duecento dipendenti assai poco preparati.

Che ne sa Veronesi dei problemi che sorgono in fase di certificazione di un progetto nucleare?

Di come si valuta un massimo credibile incidente, dei controlli da effettuare in fase di costruzione e di esercizio di un impianto?

Di come anche i più sofisticati sistemi e procedure di sicurezza falliscono: a Three Mile Island i malfunzionamenti dei servizi di emergenza furono sei e solo due erano attribuibili al fattore umano.

Certo, finché medici come lui si faranno schermo delle statistiche dell'Oms e della Iaea, che sostengono che a Three Mile Island non è morto nessuno e che a Chernobil i morti sono poche migliaia, allora i cittadini dovranno veramente temere per la loro sicurezza.

Ci sono scienziati russi, bielorussi ed ucraini che hanno illustrato nei loro studi le decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di patologie post Chernobil, che vengono costantemente ignorati e boicottati da uomini come Veronesi e dall'omertà che contraddistingue la maggioranza della cosiddetta comunità scientifica (non solo italiana).

E poi basta con le falsità che il nucleare ci rende liberi dal petrolio dato che solo il 5 per cento dell'energia elettrica è prodotta con questa fonte mentre la stragrande maggioranza del suo consumo va nei trasporti e nell'industria, e poi è assai probabile che sarà l'uranio ad esaurisrsi prima dei combustibili fossili.

Basta con la favola che tutti i problemi del nucleare (dalle scorie ai reattori di quarta generazione saranno risolti) perché sono gli stessi problemi che studiavamo in Enel trenta anni fa prevedendo di risolverli entro il 2000, ed ora che siamo nel 2010 ci dicono che la loro soluzione è spostata di altri trenta anni!

Se Veronesi è disposto a tenersi le scorie nucleari nella sua camera da letto, come pare abbia dichiarato, è affar suo (anche se in proposito sarebbe interessante sapere come la pensano i suoi vicini di casa), ma se il presidente dell'Asn (che è un'autorità indipendente) afferma che le centrali nucleari sono studiate per durare fino a cent'anni, allora si apre un serio problema di competenza e di affidabilità dell'intera struttura che, a mio giudizio, non può che risolversi sollevando Veronesi dal suo incarico."

martedì 8 marzo 2011

Dalla parte del torto


L’Assessore provinciale Simonetta Pellegrini, ha sbandierato sulla stampa e nelle televisioni di avere stanziato nel Piano di azioni integrate, finanziato dal Fondo sociale europeo, 6 milioni di euro per i prossimi 2 anni. Vorrei chiarire che, intanto il Fondo non è “integrato” perché la Provincia non ci mette nemmeno un Euro in più rispetto a quelli derivanti dal finanziamento regionale. Inoltre si prevede uno stanziamento di 3.000.000,00 di euro per il 2011 e di 2.700.000,00 per il 2012, in pratica il 17% di risorse in meno rispetto al 2010 ed il 34% in meno rispetto al 2009.

Anno

2009

2010

2011

2012

Risorse previste

4.536.000,00

3.661.357,00

3.031.000,00

2.750.000,00

Inoltre la Provincia, nel 2009 e nel 2010 usufruiva di un bando straordinario finanziato dalla Fondazione MPS per sostenere i disoccupati, che, probabilmente, nel 2011 e 2012 non ci sarà più. In realtà il Fondo Sociale è stato tagliato dalla Regione per finanziare altri settori, nonostante il Governatore Rossi, dopo il discorso natalizio del Presidente Napolitano, annunciava che per il 2010 metteva 100 milioni di euro a disposizione delle politiche giovanili. Come al solito parole, parole, parole.

Intanto i giovani (disoccupati) e le fasce più deboli della Provincia avranno un Fondo Sociale tagliato con il macete ed i giornali continueranno ad essere intasati da dichiarazioni inutili. Questa è l’amara e cruda realtà.

Ieri i consiglieri provinciali del PD, del PDL e dell’IdV hanno votato favorevolmente a questo taglio e la cosa più grave si sono espressi contro una mozione che chiedeva l’istituzione di un bando straordinario e la messa in campo di strumenti finalizzati a sostenere il reddito dei disoccupati e degli inoccupati, compresa l’istituzione di un Fondo di Solidarietà.

Il rammarico per quanto successo non è solo la constatazione che il PD ed il PDL sono tutt’uno in termini di politica economica, ma la cosa che mi ha amareggiato di più è aver visto votare alcuni consiglieri contro la propria volontà e facendosi scappare un “non vorrei farlo, ma…..”.

Quanto avvenuto ieri in Consiglio provinciale a Siena è molto grave e purtroppo mette a nudo l’incapacità della politica e dei politici nel dare risposte ai cittadini che rappresentano. Sono consapevole del momento critico che stiamo attraversando a causa della crisi economico-finanziaria, ma è proprio per questo che occorre un impegno straordinario nel cercare gli strumenti per garantire un vivere dignitoso alle comunità che si rappresentano. Occorre una politica forte ed autorevole. Quando si taglia i Fondi destinati al sociale significa che siamo alla frutta, che la politica è impotente per cui gli Enti possono fare anche a meno della rappresentanza. E’ inutile sprecare soldi per le elezioni. Tanto non cambierà niente.

E’ necessario cambiare rotta, ridando forza alle Assemblee elettive ed ai cittadini. Occorre ricostruire una sinistra di opposizione, una sinistra vera che riporti nei consigli l’autorevolezza e la forza per cambiare le cose e per dare risposte concrete ai bisogni dei più deboli, tanto i forti sono garantiti dal potere e dal danaro.

domenica 6 marzo 2011

Sciopero generale di 4 ore il 6 maggio. "La peggiore delle decisioni migliori"

di Giorgio Cremaschi

E' inutile nascondersi dietro le parole. Lo sciopero generale proclamato dalla segretera della Cgil si presenta come uno sciopero a metà. Da un lato, è evidente, esso raccoglie una domanda di mobilitazione che è partita dalla piazza del 16 ottobre scorso dove si sono incontrati Fiom e movimenti.

Dall'altro, però, non solo per le sue dimensioni, le quattro ore, ma anche per gli obiettivi, si presenta come uno sciopero in assoluta continuità con le iniziative del passato.

Il 26 giugno dell'anno scorso la Cgil proclamò uno sciopero generale di quattro ore contro la politica del governo Berlusconi. Un anno dopo, fa la stessa identica cosa, nello stesso identico modo. In mezzo a queste due date è cambiato il mondo.

L'attacco di Marchionne, quello della Gelmini, il propagarsi dal pubblico al privato, dai metalmeccanici agli insegnanti agli addetti al terziario, della devastazione contrattuale, ha messo in discussione tutto. Cisl e Uil sono state complici convinte di tutte le scelte del governo, della Confindustria, della Fiat.

E' avanzato un processo di distruzione dello stato sociale che in Italia viene presentato come Federalismo.

Tutto questo si è accompagnato all'aggravarsi della crisi della democrazia, all'abolizione delle libere elezioni nella Fiat come nel lavoro pubblico, all'attacco alla Magistratura, all'aggressione alla Costituzione, all'impunità di Berlusconi rivendicata e proclamata come sistema di governo. Eppure dopo tutto questo, lo sciopero generale proclamato dalla segreteria della Cgil è lo stesso di un anno fa.

E' evidente che questo errore di sensibilità e scelta politica nasce da un vizio di fondo che persiste nella linea della confederazione. Si continua a negare la realtà. Si continua a credere che oltre Marchionne, oltre Berlusconi e Sacconi, oltre gli accordi separati, ci sia ancora un mondo ove si possa ricostruire una politica unitaria con Cisl e Uil e un patto sociale con la Confindustria. Questo mondo in realtà non esiste più.

C'è oramai un blocco di potere, una vera e propria concertazione che fa sì che tutte le principali decisioni di politica economica e sociale siano prese di comune accordo fra la Lega, Tremonti, Berlusconi, la Confindustria, Cisl e Uil. C'è un blocco di potere concertativo che governa l'Italia ed esclude la Cgil.

Questo blocco di potere fa sì che Berlusconi continui, nonostante i suoi misfatti, a restare in sella, mentre appare inconcludente e inefficace l'opposizione politica. Il gruppo dirigente della Cgil continua a illudersi che prima o poi la signora Marcegaglia, la Cisl, la Uil, facciano un'altra politica.

E' la stessa illusione che coltiva Bersani quando chiede alla Lega di dissociarsi da Berlusconi. Ma negare la realtà può essere più facile che cambiare linea e comportamento. Per cui, specularmente, ad un'opposizione politica che ogni cinque minuti chiede la caduta di Berlusconi, ma non fa nulla di vero e serio perché ciò avvenga, così la Cgil chiede un cambiamento profondo nelle politiche economiche e sociali, ma poi non fa uno sciopero generale in grado di bloccare davvero il Paese.

E' questa contraddizione che è stata immediatamente colta in tutti i luoghi di lavoro ove, dopo la prima cauta soddisfazione per la proclamazione dello sciopero generale, è emersa la rabbia per la data e soprattutto per le quattro ore. Sbaglia chi, come fa il nostro caro amico Loris Campetti su il manifesto, sottovaluta questo aspetto e si fa trascinare nella vecchia logica del bicchiere mezzo pieno.

Questo sciopero generale così com'è non va, bisogna cambiarlo. Innanzitutto si deve mettere nella piattaforma che esso va proclamato non solo contro il governo, ma anche contro la Confindustria e contro il sistema delle imprese. Pensiamo alla Confcommercio, che sta estendendo ovunque, assieme al governo, il modello Marchionne.

Bisogna smettere di illudersi che ci sia un altro padronato buono che è pronto a dissociarsi dall'amministratore delegato della Fiat. In secondo luogo bisogna fare uno sciopero generale di otto ore. Già diverse categorie: la scuola, la funzione pubblica, il commercio, i metalmeccanici, hanno deciso o paiono intenzionati a decidere, l'estensione dello sciopero. Bisogna provare a bloccare il Paese e non a fare uno sciopero di circostanza.

Nelle prossime settimane, ogni luogo di lavoro, ogni rappresentanza sindacale, ogni struttura, dovrà essere portata a discutere e a decidere sugli obiettivi e sull'estensione dello sciopero. Lo sciopero dovrà essere un appuntamento di tutto il Paese che lotta per i diritti e la democrazia.

Per questo si dovranno incontrare i movimenti sociali e gli studenti. Essi devono essere soggetti attivi e partecipi dello sciopero e non semplicemente spettatori tollerati. Infine questo sciopero va costruito politicamente anche rispetto a Cisl e Uil. Il primo maggio unitario, che precede lo sciopero è una pura ipocrisia e rischia persino di danneggiare la giornata di lotta se quel giorno, nelle piazze, si dovrà diplomaticamente tacere di essa.

Si faccia un primo maggio che prepari lo sciopero, che ne spieghi le motivazioni e gli obiettivi e si vada in piazza anche per questo. Pazienza se Cisl e Uil a questo punto ne saranno travolte o saranno costrette a non partecipare.

Bisogna fare sul serio. Ogni giorno le lavoratrici e i lavoratori, i giovani, i disoccupati e i precari sono di fronte a drammi che si abbattono sulla loro vita. Per questo mobilitazioni rituali non servono più a nessuno e possono persino diventare controproducenti. Abbiamo a questo punto due mesi per arrivare a uno sciopero generale vero. Facciamo sì che ogni appuntamento - lo sciopero dell'11 marzo dei sindacati di base, le altre lotte e mobilitazioni, le assemblee degli studenti e dei movimenti sociali, le manifestazioni della società civile, da quella del 12 marzo a quella sull'acqua - pur conservando naturalmente la propria autonomia, servano anche a far sì che lo sciopero del 6 maggio sia un appuntamento di tutti.

Impadroniamoci di quella data e facciamo dello sciopero generale proclamato senza convinzione dalla segreteria della Cgil una data che segni la vita sociale e politica Paese. Con la consapevolezza che oggi più che mai è necessaria la critica a quei gruppi dirigenti che non vogliono cogliere la dimensione dura e drammatica del conflitto in atto. La trasformazione dello sciopero del 6 maggio in uno sciopero generale vero, è la strada sulla quale dobbiamo muoverci.