Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

mercoledì 27 giugno 2012

Decreto sviluppo, non c'è nulla per il lavoro


Sul cosiddetto decreto sviluppo, il governo dà i numeri, parlando di 40 miliardi messi a disposizione per lo sviluppo.

Si tratta di un falso clamoroso. Le cifre reali che lo Stato mette a disposizione sono molto più basse, dell’ordine di qualche miliardo, non certo di più. Ad esempio, sugli incentivi per le ristrutturazioni, che sono il pezzo forte del decreto per quanto riguarda l’occupazione, il governo ha stanziato 200 milioni. Visto che l’incentivo copre il 50% della spesa, se ne desume che la mole di lavoro potenzialmente messa in movimento da questo provvedimento è di 400 milioni.

Si tratta di una cifra ridicola, più piccola del buco di bilancio del comune di Parma. Se calcoliamo che per attivare un posto di lavoro servono almeno 40.000 euro all’anno, stiamo parlando di 10.000 posti di lavoro. Oltre a questo dobbiamo tener conto che la ristrutturazione la può fare solo chi ha già i soldi da spendere perché lo sgravio fiscale lo riceverà dopo averlo speso. Qui casca l’asino perché il problema oggi in Italia è proprio che la gente non ha soldi da spendere, per cui non è nemmeno detto che quei 400 milioni di lavori si attivino tutti.
E questo sarebbe il pezzo forte per l’occupazione in un contesto in cui abbiamo milioni di disoccupati?


In realtà il decreto prevede molte facilitazioni per le imprese (che però se non hanno lavoro non assumono), grandi cartolarizzazioni del patrimonio pubblico – che è destinato così ad essere svenduto – e ulteriore taglio delle tasse per gli investitori finanziari, tagliando le tasse da pagare sui project bond. Così come vi è una grande facilitazione per la costruzione di nuove grandi opere e anche la previsione che il governo possa aggirare la volontà delle regioni nel dare il via libera alle infrastrutture energetiche. Questo vuol dire che questo decreto serve a sbloccare la costruzione dei rigassificatori, a fare un po’ di autostrade, a sbloccare la costruzione di centrali a biomasse o turbogas e probabilmente anche gli inceneritori se collegati in qualche modo con la produzione di energia elettrica. La dove la popolazione protesta e le regioni frenano, ci penserà il governo a dare permessi e mandare la polizia: come in val di Susa!


Ci troviamo cioè di fronte a un decreto che prosegue imperterrito nella linea sin qui tracciata dalle destre più ottuse: politiche neoliberiste, colate di cemento e inquinamento. Se questo è la fase 2, complimenti!
Le cose da fare erano altre:
In primo luogo un piano del lavoro con un ruolo diretto da parte dello Stato nei settori del riassetto del territorio, del rifacimento della rete idrica, della riconversione energetica degli edifici pubblici.

In secondo luogo un reddito sociale per i disoccupati e la riduzione delle tasse a lavoratori e pensionati.

In terzo luogo un piano di politica industriale e sociale a partire dalla mobilità sostenibile che coinvolgesse a pieno le imprese pubbliche a partire da Fincantieri e Finmeccanica.


Queste semplici misure, che possono dare un milione di posti di lavoro, sono finanziabili in primo luogo con un tetto di 5.000 euro alle pensioni e ai loro cumuli, agli stipendi dei parlamentari e dei dirigenti pubblici. In secondo luogo una bella tassa patrimoniale sulle ricchezze al di sopra degli 800.000 euro. In terzo luogo un aumento delle tasse per i redditi sopra 100.000 euro e in quarto luogo l’istituzione di una tassa di successione con una franchigia di 400.000 euro.


In questo modo si ridistribuirebbe reddito dall’alto in basso aumentando la disponibilità delle famiglie e si farebbero posti di lavoro veri in settori utili, dando così un vero contributo ad uscire dal tunnel. Nulla di tutto questo ci è stato annunciato. Spero almeno che taglino effettivamente qualche spreco.

mercoledì 6 giugno 2012

Spesa militare, 23 miliardi di euro


La spesa militare italiana è tutt’altro che trasparente, spezzettata com’è nei bilanci di diversi dipartimenti. Lo scrive lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) nel suo rapporto annuale e lo rimarcano i ricercatori dell’organizzazione Sbilanciamoci in “Economia a mano armata”, il libro bianco sulle spese militari presentato a Roma alla Fondazione Basso.

“Questo conferma ciò che denunciamo da tempo, ovvero che il bilancio della Difesa italiana sia difficilmente comprensibile e quindi poco trasparente, in primo luogo perché spese riconducibili alla Difesa sono collocate in altri capitoli di bilancio dello Stato, come le spese per i sistemi d’arma finanziate dal ministero dello Sviluppo economico e le missioni internazionali a carico del ministero dell’Economia”.

Per effetto delle manovre estive per ripianare il debito dello Stato con la legge di Stabilità del 2012 il bilancio della Difesa è passato dai 20,5 miliardi del 2011 ai 19,9 miliardi. La cifra totale delle spese militari tuttavia raggiunge i 23 miliardi se si considerano anche gli 1,7 miliardi destinati ai sistemi d’arma e gli 1,4 miliardi per le missioni all’estero. “Le spese militari sono spese scomode, per questo si tende a nasconderle, in tutti i Paesi”, ha spiegato Massimo Paolicelli, presidente dell’Associazione Obiettori non violenti. Per esempio, secondo quanto riferito dal ministero i fondi al “Funzione difesa” sono pari allo 0,84 per cento del Pil (contro una percentuale che, nel 2004, era dello 1,01 e che attualmente negli altri Paesi europei è, in media, dell’1,61 per cento). Dato da cui sono però escluse la funzione sicurezza, ossia i compiti dei carabinieri che sono la quarta forza armata; le funzioni esterne, come il trasporto idrico per le isole minori e i voli di Stato; il trattamento di ausiliaria.

L’Italia spende tanto e spende male. Come sottolineato da Paolicelli, le Forze armate stanno diventando uno “stipendificio”, per citare le parole dell’ex capo di Stato maggiore della Difesa, generale Vincenzo Camporini, Soprattutto perché chi dà gli ordini è più numeroso di chi li riceve: 95mila graduati per 83mila militari di truppa e su tutti 476 tra generali e ammiragli. Per dare il senso della sproporzione gli Stati Uniti hanno 900 generali per 1,5 milioni di militari. Oppure, ed è il caso degli F-35, si distolgono fondi che potrebbero essere usati in altro modo per l’acquisto di armamenti che sono stati bersaglio di critiche tecniche che ne contestano l’efficacia.

Tutto ciò si inserisce in uno scenario globale in cui, per la crisi, la spesa militare è rimasta quasi invariata rispetto all’anno precedente: nel 2011 si stima abbia raggiunto i 1.738 miliardi di dollari ossia il 2,5 per cento del Pil mondiale. Stati Uniti, Cina, Russia, Gran Bretagna e Francia – i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – occupano in quest’ordine i primi cinque posti nella classifica dei Paesi con la spesa militare più alta, stilata dal Sipri. Segue il Giappone, mentre l’Italia scivola all’undicesimo posto, superata dal Brasile, con una spesa che l’istituto di Stoccolma stima in 34,5 miliardi di dollari (27 miliardi di euro).

Altro esempio di come i dati varino per la poca trasparenza.
Tuttavia – dati del 2010 – l’Italia è ben salda tra i primi dieci in altre due classifica. La prima è quella delle maggiori imprese produttrici di armi, con Finmeccanica al nono posto forte di un volume d’affari di 14 miliardi di dollari. L’Italia è infine nona tra i Paesi esportatori di armi, terza se si prendono in considerazione soltanto i Paesi dell’Unione europea. Come per i partner europei anche per Roma, si legge nel dossier di Sbilanciamoci, tra gli acquirenti di armi “made in Italy” figurano “governi autoritari di nazioni con alti livelli di spese militari”, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, o in cui ci sono “grosse limitazioni alle libertà civili e democratiche”, è il caso dell’Algeria e della Libia.

“Dalla crisi si esce con un nuovo modello di sviluppo di cui fa integralmente parte la riconversione civile dell’economia militare”, scrive Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci, nel suo intervento. Le proposte per farlo ci sono. Tra queste: la riduzione di 3 miliardi di spese militari con una riduzione degli organici e un’integrazione dentro la cornice europea e Onu; una riduzione dei programmi d’arma a partire dal no all’acquisto degli F-35; un no ai militari nelle città destinando gli stessi fondi, 72 milioni di euro, per pagare gli straordinari delle forze di pubblica sicurezza. E ancora la destinazione a uso sociale delle caserme dismesse, la riconversione dell’industria militare e lo stanziamento di 200 milioni di euro per il Servizio civile nazionale, contro gli attuali 68 milioni, per investire in programmi e formazione.