Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

venerdì 31 dicembre 2010

DICHIARAZIONE D’INTENTI DEI COMPAGNI E DELLE COMPAGNE DELLA TOSCANA

LAVORO SOLIDARIETA’ PER LA FEDERAZIONE DELLA SINISTRA:

Nessun esponente della sinistra di classe italiana siede più nel Parlamento nazionale e nel Parlamento europeo. E’ dalla fine dell'Ottocento, quando fu eletto il primo deputato socialista nel parlamento, fatto salvo il periodo fascista, che questo non accadeva. Il lavoro è privo di rappresentanza politica anche sul piano squisitamente istituzionale. Le forze presenti nel Parlamento all’opposizione del governo Berlusconi sostengono l’equidistanza tra capitale e lavoro come tratto costitutivo (PD), oppure si caratterizzano per un populismo demagogico che affida alla “legalità” la risoluzione dei conflitti fra impresa e lavoro (IDV). Vi è il fondato rischio che l’Italia approdi definitivamente ad una “americanizzazione” del quadro politico e sociale, dove interessi sociali e rappresentanza politica si riferiscano a frazioni della borghesia e dei gruppi industriali ed editoriali, in concorrenza si, ma esclusivamente all’interno del medesimo riferimento sociale e culturale. Il mercato, la libera concorrenza, la proprietà privata, l’equiparazione tra lavoratore ed imprenditore: il dominio del capitalismo e la sua sacralità. Lo stesso sistema istituzionale, attraverso una legge elettorale maggioritaria con premio di maggioranza, e l’accentramento negli esecutivi della residua dialettica politica, a scapito delle assemblee rappresentative, si organizza coerentemente con l’esclusione del lavoro come soggettività politica autonoma. L'iniziativa di Marchionne - antidemocratico, illiberale e autoritario, così definito dalla segretaria generale della CGIL Susanna Camusso - sul piano sociale è complementare a quella di Berlusconi sul piano politico-istituzionale. La firma di CISL e UIL li trasforma, oggettivamente, in sindacati aziendalisti che propagandano la posizione della FIAT. L'esclusione della Fiom-CGIL dalle fabbriche del gruppo FIAT, voluta da Marchionne ed appoggiata e difesa da CISL e UIL, rappresenta un ritorno agli anni Cinquanta, quelli della cacciata dei comunisti dalle aziende e dei reparti confino. La costituita Federazione della Sinistra, momento fondamentale di aggregazione della sinistra anticapitalista, deve assumere in pieno la gravità storica di questo passaggio. Una sinistra anticapitalista che non rinunci ad una teoria generale della transizione al socialismo e ad una idea di modello alternativo di società, pena l’essere subordinata alla cultura borghese e condannata a confliggere all’interno del recinto della società capitalista. Prc, Pdci, Socialismo 2000 e Lavoro-Solidarietà, consapevoli della necessità di dar vita ad un nuovo soggetto politico, hanno dato prova di umiltà, nel riconoscere che ciascun soggetto era singolarmente inadeguato alle necessità, e di grande generosità, affidando alla Federazione della Sinistra il compito di invertire la tendenza alla divisione ed alla frammentazione che tanto danno ha arrecato alla sinistra e soprattutto alla classe operaia. A questa unità non c’è alternativa, pena una miseranda lotta fratricida fra quel poco che resta delle tradizioni della sinistra di classe. Nella Federazione vivono i momenti più alti della storia del movimento operaio italiano, la tradizione comunista (proveniente dal PCI e dalla nuova sinistra) e quella socialista (con particolare riferimento alle capacità di analisi del capitalismo italiano “maturo” degli anni ’60 e ’70), l’antifascismo e le grandi lotte dei movimenti per la pace ed i diritti civili. La Federazione della Sinistra riafferma, finalmente, la centralità del lavoro. La sinistra italiana si è infatti progressivamente trasformata da soggetto rappresentativo di forti interessi di classe e portatore di un progetto di società alternativa, in un’area politico culturale definita da valori: una forza d’opinione non radicata nella classe. Gli operai - e più complessivamente il lavoro dipendente privato e pubblico-, venuti meno i partiti politici di massa, sono privi di potere politico. Si crea così uno squilibrio fra le classi sociali che mina la stessa Costituzione repubblicana. A opporsi in prima linea, nei luoghi di lavoro, è rimasta solo la CGIL come grande organizzazione di massa. Appare evidente come l’unica grande forza di contrasto alla distruzione dei diritti dei lavoratori, allo loro frantumazione, al razzismo e a tutela della democrazia come sintesi non solo di libertà e diritti politici ma anche di diritti materiali sia proprio la CGIL. Ma senza una forza politica che rappresenti e organizzi il lavoro la stessa tenuta della CGIL è messa a dura prova. La stessa CGIL, in assenza di una prospettiva di trasformazione generale della società e di un adeguato partito che rappresenti gli interessi di classe, è da troppo tempo sulla difensiva. I sindacati infatti, anche quando si muovono al meglio delle loro potenzialità, in assenza di un partito dei lavoratori di ispirazione socialista e comunista, sono destinati a muoversi su un piano di subordinazione e di resistenza. La presenza dei partiti di massa nei luoghi di lavoro alimentava infatti la diffusione tra i lavoratori di una cultura e di una progettualità che vivificavano l’azione dei sindacati. Questa è la precondizione per una ripresa dell’offensiva da parte della CGIL. Questa è per noi l’importanza strategica della Federazione della Sinistra, che va fatta vivere senza remore e titubanze come soggetto politico unitario ed autonomo. Per noi che abbiamo dato vita all’associazione Lavoro-Solidarietà, sindacalisti e delegati della CGIL che ritengono fondamentale mettere la propria faccia direttamente anche sul piano dell’iniziativa politica, la Federazione merita tutto il nostro impegno e la nostra passione. Allargare l’adesione alla proposta politica e ideologica di Lavoro-Solidarietà a tutti quanti e tutte quante ne condividano il profilo è il nostro impegno per l’oggi.

1. Per la difesa della Costituzione repubblicana, nata dalla Resistenza
antifascista, organizzata sui partiti di massa e sulla libera espressione del conflitto di classe, fondata sul lavoro.

2. Per il ripristino di una legge elettorale proporzionale senza sbarramento che ridia centralità del Parlamento e renda possibile la rappresentazione nella sfera istituzionale di forze politiche fondate sul lavoro.

3. Per un sistema di rappresentanza delle forze sindacali basato sul consenso ottenuto nelle votazione nelle RSU - da estendere obbligatoriamente a tutto il mondo del lavoro - e dalle adesioni certificate, in modo che nessuna minoranza possa sottoscrivere contratti validi per tutti i lavoratori, stabilendo altresì la possibilità che in caso di disaccordo da parte di forze sindacali rappresentative possa essere indetto, anche a fronte della firma di organizzazioni sindacali rappresentative dalla maggioranza dei lavoratori, un referendum sull’intesa eventualmente sottoscritta.

4. Per una politica industriale che impedisca la marginalità dell’Italia all’interno della divisione internazionale del lavoro, nella consapevolezza che la borghesia nazionale è totalmente incapace di svolgere questo ruolo, affidando i propri guadagni alla rendita e a forme di monopoli privati figli della svendita del patrimonio e delle competenze del pubblico.

5. Per l’intervento diretto dello Stato nei settori industriali strategici, ripubblicizzando altresì tutte le attività che rivestono un interesse collettivo prioritario, come le imprese a rete (energia, trasporti, acqua, rifiuti, telecomunicazioni) ed i beni comuni.

6. Per la riconquista di un sistema contrattuale di regole certe ed universali per tutti i lavoratori, che riunifichi il mondo del lavoro e che operi un recupero salariale reale, anche attraverso una distribuzione di una quota della crescita di produttività, tale da portare, in un tempo ragionevole, il monte salari globale al 50% del reddito nazionale, a fronte della quota attuale del 40%. Non c’è difesa della Costituzione possibile se non difendendo il ruolo politico del lavoro, e quindi il suo potere, a fronte del potere dell’impresa. Questione democratica e questione sociale per noi si tengono reciprocamente.

7. Per una proposta elettorale che metta in campo uno schieramento ampio, di alleanza democratica, a fronte della presenza di una destra eversiva come quella rappresentata dall’attuale maggioranza di Governo.

8. Per una proposta elettorale che contenga altresì elementi programmatici qualificanti sul piano sociale, come l’abolizione di tutte le normative che precarizzano il lavoro, distruggono l’Università e la scuola pubblica, aboliscono “di fatto” il diritto del lavoro sostituito dalla norma sull’arbitrato.

9. Per una politica industriale che una volta individuati i settori manifatturieri sui quali puntare utilizzi anche l’intervento diretto dello Stato nella proprietà, come accade in molti paesi europei.

10. Per una tassazione delle rendite e dei grandi patrimoni in modo da finanziare sia l’estensione e la riforma degli ammortizzatori sociali che politiche di sviluppo e infrastrutturali che indichino una via alta dello sviluppo, da accompagnare con maggiori investimenti in istruzione e ricerca.

11. Per la creazione di una cultura di governo di sinistra, per dire non solo cosa non bisogna fare, ma cosa si deve e si può fare e soprattutto cosa faremmo se riuscissimo ad ottenere i consensi necessari a governare. Per cosa dovremmo essere votati e soprattutto quale dovrebbe essere la tangibile utilità sociale per i soggetti che vogliamo rappresentare. Organizzare anzi, non solo rappresentare.

12. Per aprire da subito una offensiva politica nei confronti di Sinistra Ecologia e Libertà, per costruire una piattaforma programmatica comune in modo da riempire di contenuti più avanzati l’alleanza democratica.

13. Per la riunificazione, all’interno della Federazione, di tutti i comunisti e le comuniste, che vada oltre il necessario superamento della divisione del Prc e del Pdci, due partiti che nel nome si dicono comunisti e nel simbolo hanno la falce e martello. Processo che non sia esclusivamente organizzativistico, ma si confronti sull’analisi del capitalismo attuale e sulla storia del movimento comunista internazione, in modo da indicare quale prospettiva possa assumere l’indicazione del Socialismo del XXI° secolo.

Stare nella Federazione con le posizioni di Lavoro Solidarietà significa quindi rafforzare gli elementi di classe del progetto, rafforzare una visione maggioritaria della nostra iniziativa politica e del nostro radicamento sociale, comprendere la centralità della CGIL nello scontro sociale attuale, valorizzandone le iniziative, ponendosi come interlocutore privilegiato all’interno delle varie forze politiche. Per una forza di classe che organizzi la classe, facendo particolare attenzione alla forza lavoro precaria ed a quella immigrata - operai, 8 milioni e 149 mila secondo la rilevazione Istat del 2008, larga parte del lavoro dipendente pubblico privato d’altro genere, 7 milioni 301 mila sempre Istat 2008, giovani lavoratori atipici, gran parte del falso lavoro autonomo, migranti, disoccupati, gran parte dei pensionati: pur rappresentando la maggioranza della popolazione e ciò che dovrebbe costituire il blocco sociale della sinistra sono ad oggi divisi ed egemonizzati da 250 mila imprenditori privati e dalla parte abbiente di 3-4 milioni di lavoratori autonomi -, che faccia del marxismo il proprio strumento di analisi, che valorizzi il pensiero di Antonio Gramsci, che non sia né settaria né minoritaria – quando necessario magari estremista - , che sfidi la SEL sul terreno dell’unità della sinistra ed il Pd sul piano dell’alleanza democratica contro la destra eversiva. Una forza che riprenda il ripudio della guerra come risoluzione delle controversie internazionali, così come sancito nella Carta Costituzionale, ma soprattutto così come vive ed è sempre vissuto all’interno del movimento dei lavoratori, riprendendo anche una battaglia antimilitarista. Che stia sempre dalla parte della ragione: quella dei lavoratori e delle lavoratrici, della loro dignità, dei loro diritti e del loro potere organizzato.
Questo è il tempo della semina.

Firenze, dicembre 2010

lunedì 13 dicembre 2010

La crisi economica aumenta le disuguaglianze

Lo tsunami della crisi economica si sta abbattendo sui paesi che meno hanno contribuito a scatenarla. A questo ritmo, l'obiettivo di sradicare la fame e la povertà entro il 2015 rischia di rimanere un miraggio per la maggior parte dei paesi nel mondo. Lo denuncia la rete internazionale Social Watch nel rapporto “People First” diffuso in questi giorni. “Studiando l'impatto sociale della crisi a livello internazionale, emerge che a pagarne le conseguenze più dure sono i paesi impoveriti e le persone più vulnerabili, molte delle quali sono nuovi poveri”, afferma Jason Nardi, portavoce del Social Watch Italia. “Fra le prime vittime del crollo dei mercati finanziari vi sono i più poveri che, spendendo dal 50 all’80% del loro reddito in beni alimentari, risentono maggiormente dell'aumento del costo delle derrate agricole. Ma anche le donne, spesso impiegate in lavori precari o a cottimo, con minori salari e più bassi livelli di tutela sociale”. Tramite l’Indice delle Capacità di Base (BCI), il rapporto analizza lo stato di salute e il livello dell’istruzione elementare di ciascun paese. I risultati sono preoccupanti: al 2009, quasi la metà dei paesi analizzati (42,1%) ha un valore dell'Indice BCI basso, molto basso o critico. La maggioranza della popolazione mondiale vive in paesi in cui i principali indicatori sociali sono immobili o progrediscono troppo lentamente per raggiungere un livello di vita accettabile nel prossimo decennio. “Le cifre rivelano una situazione di disuguaglianza drammatica in tutto il mondo, sebbene i dati elaborati si riferiscano a un periodo in cui la crisi economica doveva ancora produrre i suoi effetti più profondi”, afferma Jason Nardi. “La crisi finanziaria offre un'opportunità storica per ripensare i processi decisionali in politica economica attraverso un approccio basato sui diritti umani”.

Il BCI è un indice alternativo che definisce la povertà non in termini di reddito, ma in base alla possibilità di godere di alcuni diritti fondamentali. In particolare, l’indice è costruito attraverso l'analisi di alcuni fattori determinanti per lo sviluppo di un paese: la percentuale di bambini che arriva alla quinta elementare, la sopravvivenza fino ai cinque anni di età e la percentuale di nascite assistite da personale qualificato. A livello mondiale, emerge che nel 18% dei paesi è in atto una regressione in alcuni casi accelerata. Tra questi, il 41% fa parte dell’Africa subsahariana. Un dato preoccupante per una regione che già in precedenza registrava i valori più bassi. L'Asia meridionale sta invece progredendo rapidamente, pur partendo da valori molto bassi, mentre in America Latina e nei Caraibi non si registrano miglioramenti. Al ritmo di sviluppo attuale, solo Europa e Nord America potrebbero raggiungere entro il 2015 valori accettabili dell'indice. Ciò significa che, in mancanza di cambiamenti sostanziali, per tale data gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio concordati a livello internazionale non verranno raggiunti.

Lo scenario desta ancor più preoccupazione se si considera che solo Danimarca, Norvegia, Svezia, Olanda e Lussemburgo hanno rispettato gli obiettivi delle Nazioni Unite, destinando almeno lo 0,7% del Pil all’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (Aps). Nonostante le ripetute promesse del nostro governo, si prevede che l'Aiuto Pubblico allo Sviluppo in Italia subirà un drammatico taglio, scendendo dallo 0,2% del PIL a meno dello 0,17%. Al pari della Grecia e di poco al di sopra della Repubblica Ceca, l'Italia si ritrova così agli ultimi posti tra i paesi industrializzati.

Le differenze tra uomo e donna non si riducono, mentre cresce la distanza tra i paesi più virtuosi e quelli in cui la discriminazione è maggiore. Lo rivela l'Indice di Parità di Genere (GEI), sviluppato e calcolato per il 2009 dal Social Watch. Il GEI analizza la disparità tra i sessi, classificando 157 paesi in una scala in cui 100 indica la completa uguaglianza tra donne e uomini.

I valori più alti nell'Indice di Parità di Genere sono attribuiti alla Svezia (88 punti). Seguono Finlandia e Ruanda - entrambi con 84 punti nonostante l'enorme differenza in termini di ricchezza tra i due paesi. Poco al di sotto si classificano Norvegia (83), Bahamas (79), Danimarca (79) e Germania (78). L’indice dimostra quindi che un alto livello di reddito non è sinonimo di maggiore uguaglianza e che anche i paesi poveri possono raggiungere livelli di parità molto elevati, sebbene uomini e donne vivano in condizioni non facili. In questa speciale classifica, l’Italia scende rispetto al 2008 dal 70° al 72° posto, con un valore di 64 punti, collocandosi subito dopo paesi come Grecia, Slovenia, Cipro e Repubblica Dominicana (66). Confrontando il dato dell’Italia con la media europea (72), emerge il ritardo del nostro paese nel raggiungere un’effettiva uguaglianza di genere.

“L’indice della parità di genere rivela se una società sta evolvendo verso una maggiore equità di genere o rimane ferma. La mancata riduzione del divario nei diritti tra uomo e donna conferma la miopia dei governi. La distinzione tra paesi del cosiddetto Sud del mondo e quelli del Nord sviluppato è sempre più sfumata”, afferma Jason Nardi, portavoce del Social Watch Italia. “La promozione della parità tra i sessi è uno degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio: i nostri dati dimostrano che quell’obiettivo invece di avvicinarsi si sta allontanando”. Nelle prime 50 posizioni dell’indice sono compresi i due terzi dei paesi dell’Unione Europea, ad esclusione di paesi come Irlanda, Slovacchia, Repubblica Ceca, Grecia e Italia. Tra i primi 50, c’è inoltre una significativa rappresentanza di paesi in via di sviluppo, tra i quali Filippine, Colombia, Tanzania e Thailandia. L’insufficiente progresso nella riduzione della disparità di genere ha portato, in molte realtà, a una crescente polarizzazione: mentre nei paesi dove l'uguaglianza è maggiore si registra una tendenza verso il miglioramento, gli Stati con livelli di discriminazione più elevati evolvono in modo negativo. É il caso dell'America Latina e dei Caraibi, da una parte, e dell'Asia Orientale e del Pacifico, dall'altra. Crisi economica: donne più vulnerabili

La situazione di estrema disuguaglianza tra uomo e donna è stata aggravata dall'attuale crisi economica. Le donne, infatti, sono più esposte alla recessione globale perché hanno minore controllo della proprietà e delle risorse, sono più numerose nei lavori precari o a cottimo, percepiscono minori salari e godono di livelli di tutela sociale più bassi. L'ONU riferisce che il tasso globale di disoccupazione femminile potrebbe arrivare al 7,4%, contro il 7,0% di quella maschile. Ciononostante, il Social Watch ricorda che la crisi non presenta soltanto sfide, ma anche l’opportunità di cambiare l'architettura finanziaria globale e definire politiche innovative, basate sull’equità e sul rispetto dei diritti.

L'indice GEI è composto da una serie di indicatori della disparità di genere che coprono tre dimensioni: l'istruzione, la partecipazione all'attività economica e l'empowerment (concessione di pieni poteri alle donne). L'analisi del divario nei tassi di alfabetizzazione e di iscrizione a scuola dei diversi paesi mostra che i progressi registrati nella sfera dell'istruzione sono di gran lunga maggiori rispetto a quelli registrati nelle altre dimensioni della parità di genere. Nell'accesso agli spazi decisionali e nell'esercizio del potere, invece, la disuguaglianza tra uomini e donne è più evidente: non c'è un solo paese dove le donne abbiano le stesse opportunità degli uomini di partecipare ai processi economici o socio-decisionali. I progressi nella partecipazione all'attività economica registrati nel 2008, infine, sono stati completamente azzerati nel 2009. In particolare nella regione dell'Africa subsahariana.

domenica 12 dicembre 2010

Resoconto Consiglio Comunale del 29 novembre 2010

Dopo due mesi dallo scorso consiglio comunale ci siamo ritrovati a dover affrontare un ordine del giorno di 15 punti, dove negli ultimi giorni, fino un ora prima del consiglio, abbiamo sostenuto un tour de force per le commissioni che si sono susseguite una dopo l’altra.

Al primo punto ci sono state due mozioni, simili nell’argomento, ma distanti nella richiesta, visto che si parlava della ZTL all’interno del castello di Monteriggioni dove già esisteva, ma non era più sostenibile il transito e la sosta dei privati e degli operatori commerciali e andava rivisto il regolamentato.
Ovviamente per il suddetto regolamento ha competenza la giunta ma l’indirizzi gli devono essere forniti dal consiglio, quindi sono approdate in consiglio le due mozioni, dove quella del centro sinistra prendeva quello di buono che era stato fatto finora apportando gradualmente altre regolamentazioni alla circolazione e alla sosta, nello specifico a rilasciare permessi in misura agli stalli di sosta, a rilasciare permessi ai residenti senza scadenza, a prevedere il carico e scarico merci soltanto nella mattina, ad intensificare i controlli con la polizia municipale, ecc.

Quella del Polo, riconosceva che la pratica della pedonalizzazione è necessaria nei centri di interesse storico, che ovviamente questo apporta una riqualificazione ambientale utile per il luogo stesso e per i turisti che ne usufruiscono, e che in sostanza i parcheggi all’esterno delle mura erano sufficienti per l’uso esclusivo sia dei residenti sia degli operatori commerciali, quindi le loro richieste erano di limitare la totalità del transito, con il divieto assoluto di sosta e di fermata, compreso ai portatori di handicap, cosa secondo me veramente discriminatoria e inaccettabile, per non parlare della rimozione totale della segnaletica orizzontale e verticale.

Ne è scaturita una discussione molto variegata, con spunti di riflessione, ma al momento del voto è passata la linea della maggioranza, che in questa circostanza condivido, in quanto il luogo è si di interesse storico, architettonico, turistico, ma è cosi attrattivo perché all’interno ancora vivono delle persone, molte delle quali anziane, e per le quali delle forti restrizioni alla circolazione e alla sosta possono portare a dei disagi non indifferenti, quindi il passaggio va fatto gradualmente.

La mozione successiva è stata voluta e sottoscritta da tutti i gruppi consiliari con la richiesta di moratoria sulla pena di morte, rievocando la vicenda Sakineh Mohammadi Ashtiani, che è stata condannata nel maggio 2006 per aver avuto una "relazione illecita" con due uomini ed è stata sottoposta a 99 frustate, come disposto dalla sentenza.
Successivamente è stata condannata alla lapidazione per "adulterio durante il matrimonio", accusa che lei ha negato.

Questo esempio ancora una volta mette in evidenza le condizioni in cui versano i diritti delle donne, che sono ancora una volta negati, e questo fa si che si possa perpetrare le più feroci violenze nei loro confronti.
Sullo slancio di questa vicenda, del suo caso umano, che il Comune di Monteriggioni tutto, vuole riaffermare il diritto universale alla vita chiedendo nelle sedi preposte la moratoria della pena di morte, per accelerare un processo che ha già visto dagli anni 90 oltre 50 paesi rinunciare al suo uso e il suo uso restringersi in molti paesi per un accresciuto rispetto della vita umana e per riaffermare il diritto fondamentale di ogni individuo alla vita.
Permette di fermare un sistema giudiziario che non è mai infallibile. Permette di introdurre misure alternative sempre aperte alla riabilitazione umana, capaci di risarcire la società e di scoraggiare ogni senso di vendetta.

Non si può togliere quello che non si può restituire.
Non si può aggiungere una morte alla morte già avvenuta.
Non si può legittimare, da parte dello stato, il diritto a infliggere la morte mentre si vorrebbe sostenere il diritto alla sicurezza della vita.

Lo stato e la società civile non può mai scendere al livello di chi uccide. Una giustizia capace di essere sempre dalla parte della vita è la via per riconciliare interi paesi e popoli dopo sanguinose guerre e atroci sofferenze, come mostra la scelta coraggiosa contro la pena capitale di paesi come Ruanda, Burundi, Cambogia, che hanno vissuto un terribile genocidio, come indica il Sudafrica che è uscito dall’apartheid senza pena di morte e indicando la strada di una giustizia senza vendetta.
E’ passata all’unanimità.


Al punto successivo dopo l’approvazione dei verbali della seduta del 29 di settembre c’era il riordino degli uffici e dei servizi, adeguamento alla normativa che fa riferimento alla famosa legge Brunetta, che è stato rimandato alla seduta successiva per aggiungere un comma, voluto dal PdL.
Su questo punto all’ordine del giorno farò al momento opportuno due considerazioni distinte, una tecnica perché come ci ha illustrato il segretario in commissione, è stato fatto un lavoro di riordino di tutti gli allegati e integrazioni che facevano parte del vecchio regolamento ma erano state approvate in tempi diversi e portate dentro allo stesso, che la disciplina in materia di riordino degli uffici va contestualizzata sulla dimensione del nostro comune e sulle esigenze degli uffici perché il tutto sia più armonioso possibile, ma del resto esisteva già qualcosa con il dlgs del 2000, dove già si parlava di valutazioni e il riferimento era il “peg”.
L’altra considerazione è più politica in quanto il dlgs del 2009 non è altro che il recepimento della legge Brunetta in materia di riordino degli enti locali e quindi non posso che fare una critica nella sua impostazione di massima dove nelle parole “merito, performance, trasparenza, si nasconde un solo risultato, ed è specificato nella norma stessa come indicatore primario, cioè “collegamento tra obbiettivi ed allocazione delle risorse” cioè ancora una volta una norma circolare dove l’una è complementare al’altra, di conseguenza il badget diventa un pilastro portante della norma, dove nel riordino si nasconde una sempre più costante riduzione dei costi, limitazione e controllo della spesa degli uffici, e quindi di conseguenza una limitazione all’autonomia dell’ente, perché abbiamo già visto con il patto di stabilità quante restrizioni alla spesa e quindi all’autonomia, delle scelte degli enti locali, alla faccia del federalismo, questo riordino non è altro che la continuazione di questa politica di tagli e controllo della spesa, che portano in primo luogo alla limitazione di autonomia dell’ente da parte del governo centrale con delle leggi ad ok.
Al punto7 c’è stata la modifica del regolamento di contabilità sulla disciplina alla prestazioni di fideiussioni, accollo, subentro, e di altro genere da parte del Comune, per operazioni di indebitamento destinate ad investimenti di interesse pubblico da parte di aziende speciali, consorzi di cui fa parte, società di capitali di cui è socio e da altri enti da esso dipendenti diversi dalle società di capitali.

Al punto 9 c’è stato il piano delle opere pubbliche in quanto è strettamente legato al bilancio, per cui erano state fatte delle variazioni di spesa e sulle stesse dovevano essere portate in consiglio per la votazione.
L’unica nota stonata, è stata la convocazione della commissione un ora prima della seduta consiliare, senza nemmeno l’invio della documentazione ai commissari delle voci per cui facevamo la variazione di importo, che denota una scarsa organizzazione e una scarsa considerazione dei commissari dei gruppi di minoranza che ne fanno parte.
Le variazioni apportate, anche se di lieve entità e magari opportune, non hanno permesso nient’altro che la mera presa d’atto di quello che ci illustrava l’assessore, quindi anche per questo il mio voto è stato negativo.
Le variazioni erano sulla rifiuterai del pian del Casone, un piccolo aumento di spesa, sul museo della Francigena dove veniva tolto l’intero importo di 400mila euro, sul progetto a Badesse di “cose comuni”, che anche questo progetto veniva azzerato, le recinzioni dei campi sportivi che venivano aumentato il capitolo di 20 mila euro, il rifacimento delle strade asfaltate che passava da 100mila a 138 mila euro, il completamento delle opere di urbanizzazione del Rugio, avendo escusso la fideiussione a suo tempo stipulata con l’impresa costruttrice, e il capitolo della protezione civile al quale veniva tolto 10mila euro in quanto nel mese di dicembre non era previsto nessun intervento.

Al punto 10 c’era il bilancio di previsione 2010 e piano esecutivo di gestione ratifica delibera di giunta n° 190 del 04 novembre 2010
Al punto 11 l’estinzione del mutuo di 1milione e 200mila euro contratto con la banca MPS, utilizzo avanzo di amministrazione 2009
Al punto 12 bilancio di previsione 2010 assestamento generale – variazioni - approvazione
Su questi punti trattandosi di bilancio, per coerenza, visto che avevo votato contro al bilancio di previsione scorso, ho ridato il mio voto contrario sul punto 10 e sul punto 12, dove comunque farò una riflessione sul consuntivo del 2010, dove non ci saranno previsioni ma sarà il risultato amministrativo di quest’anno, e come ho ripetuto, il mio voto sarà sull’insieme delle voci che formano il bilancio e non sulle singole variazioni che possono essere forvianti e improcrastinabili sul momento.
Sul punto 11 mi sono astenuto visto che con il patto di stabilità l’avanzo d’amministrazione non può essere usato se non per estinguere i mutui ho trovato legittimo che venisse fatto quest’operazione in quanto era l’unico mutuo che gravava sulle casse del comune, nonostante l’accordo della fondazione MPS, che garantiva il pagamento delle rate.
Quindi con l’estinzione

Ai punti 13, 14, e 15 ci sono state due convenzioni urbanistiche e una variante puntuale sul comparto TU 26, dove viste le caratteristiche delle delibere il mio voto è stato di astensione, in quanto sul punto 13 la modifica sostanziale era nell’accordo tra il costruttore a cedere un appartamento al comune in cambio della variazione di destinazione di parte del fabbricato, il punto 14 si riferiva al termine dei lavori per un sovrappasso pedonale e la stipula della fideiussione congrua con l’opera da realizzare.
L’ultimo punto è una variante puntuale in quanto si ridefinisce le opere che sono a carico del lottizzante, in questo caso l’accesso al lotto con la corsia di accelerazione interna al comparto per garantire la sicurezza dell’ingresso e uscita delle autovetture della stessa.

domenica 5 dicembre 2010

Un colpo di spugna per cancellare il diritto di sciopero!

Dopo che la legge detta “Collegato lavoro” ha posto in essere l’attentato
permanente ai diritti dei lavoratori, come sanciti nei contratti collettivi e
nelle leggi, compresa quella processuale, il governo, in conto proprio e per
conto di Confindustria, ha messo sotto tiro il diritto di sciopero.
A differenza di altri paesi europei, le procedure di sciopero nei servizi
pubblici in Italia sono già macchinose e lunghe, per rendere meno efficace lo
strumento e indebolire il potere di contrattazione dei lavoratori e delle
lavoratrici italiane.
La legge n. 146/90, infatti, stabilisce già oggi che, per poter effettuare la
prima azione di sciopero, tra procedure di raffreddamento e di conciliazione e
proclamazione, occorre che passi almeno un mese. In pratica se il padrone
licenziasse un lavoratore dei trasporti, la risposta di solidarietà e di lotta
per lui potrebbe scattare solo dopo un mese ...
Ma al peggio non c'è limite. Così, ecco che il 27 febbraio 2009 il Consiglio
dei ministri approva un disegno di legge delega in materia di sciopero nei
trasporti, che continua il suo cammino senza che nessuno lo fermi o si
opponga.
Il disegno di legge stabilisce il requisito minimo di rappresentatività del
50% per poter proclamare uno sciopero. Il sindacato che non lo possiede, ma
raggiunge una soglia di rapresentatività superiore al 20% può proclamare
sciopero solo se prima indice un referendum e ottiene il consenso di almeno il
30% dei lavoratori interessati. Una volta raggiunto il quorum, lo sciopero
dovrà rispettare le procedure previste dalla legge n. 146/90.
Il sindacato che ha meno del 20% di rappresentatività non potrà né indire il
referendum né proclamare sciopero.
Dietro la cortina fumogena delle dichiarazioni a favore dei diritti degli
utenti dei trasporti, risulta chiaramente che Sacconi (ormai prossimo al
“premio Nobel” come ministro contro il lavoro!), il suo governo, i partiti
concorrenti del cosiddetto centro-destra attivo per sfiduciarlo e, sotto sotto,
anche quelli di centro sinistra vogliono rendere impraticabile ogni forma di
sciopero nel settore, malgrado esso sia un diritto individuale e indisponibile,
cioè non sottraibile alla disponibilità di ogni singolo lavoratore.
E’ chiaro che non è democratico far dipendere l’esercizio del diritto di
sciopero dalla cosiddetta rappresentatività, in genere basata sulla debolezza
in cui si trovano oggi i lavoratori e sul clientelismo sfrenato delle “grandi”
centrali sindacali a caccia di iscritti cui offrire briciole di diritti.
La democrazia, infatti, consiste nel libero diritto di ogni formazione
sindacale di proclamare sciopero e nel libero diritto di ogni lavoratore di
aderirvi o non aderirvi.
Se si vedono anche alcuni altri aspetti del disegno di legge, non si può non
arrivare alla conclusione che l’obiettivo che esso si prefigge consiste nella
pratica cancellazione del dirito di sciopero.
Per esempio, l’obbligo di dichiarazione preventiva di adesione allo sciopero,
che costringe il lavoratore a dichiarare se ha intenzione di aderire allo
sciopero o no, col rischio di sanzione nel caso non rispetti quanto dichiarato.
E’ chiaro che quest’obbligo mira a scoraggiare il lavoratore dal partecipare
agli scioperi, perché, in tempi bui come gli attuali, lo pone nella condizione
di esporsi in prima persona, sottoponendolo alle intimidazioni e ai ricatti
della gerarchia aziendale e (perché no?) alle promesse di premi all’ “onore
crumiro”.
O l’inasprimento delle sanzioni in caso di azioni fuori dalle regole. Sanzioni
per migliaia di euro, che rappresentano minacce in stile “terroristico”,
perché precipitano tutti nella paura e nell’abbandono di ogni volontà di
lotta.
O lo sciopero virtuale: un ennesimo colpo di perfida fantasia del ministro,
che comporta la prosecuzione dell'attività lavorativa con perdita della
retribuzione per il lavoratore e il versamento da parte del datore di lavoro di
un contributo a un “fondo con finalità sociali”.
Con buona pace di chi pensa che lo sciopero dovrebbe essere uno strumento
utile a spostare a favore dei lavoratori i rapporti di forza col padrone!
Ma il Sacconi-pensiero ha già manifestato l’intenzione di partire dal settore
dei trasporti, per addomesticare tutto il resto del lavoro dipendente, non solo
pubblico (già disciplinato dalla legge n. 146/90), ma anche privato.
In questa prospettiva, il suo ministero ha già avviato il lavoro di
elaborazione di una disciplina generale anti-sciopero (una specie di “testo
unico” della materia), con la finalità di colpire tutti i settori lavorativi e
chiudere in una gabbia autoritaria il conflitto sindacale e quello in genere
sociale, per esempio sanzionando il blocco del traffico con multe di migliaia
di euro sulla testa di ogni manifestante.
Cosa che, se fosse in vigore già oggi, farebbe sganasciare dalla gioia il
ministro Gelmini, con tanti studenti e precari a bloccare strade e autostrade,
ponti, binari, piste aeroportuali!
Il 10 dicembre, giorno in cui i sindacati di base hanno proclamato uno
sciopero nazionale di 4 ore degli autoferrotranvieri contro i tagli al
trasporto pubblico locale e contro il disegno di legge anti-sciopero, non
sarebbe male che il movimento degli studenti e dei precari volesse dire la
sua.