Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

sabato 29 maggio 2010

Decrescita: oggi piacerebbe anche a Marx

Cosa hanno in comune Marx e la decrescita? Sicuramente l'anticapitalismo. Sebbene non scorra buon sangue tra i seguaci delle rispettive ideologie, i punti in comune sono davvero tanti. Anche perché, al giorno d'oggi, la decrescita rappresenta l’unica prospettiva plausibile per contrastare il capitalismo nei paesi occidentali.

E’ noto che, in genere, fra coloro che continuano a ricavare ispirazione dal pensiero di Marx e coloro che in tempi recenti hanno iniziato a teorizzare la decrescita non corrono buoni rapporti. I primi tendono a vedere la decrescita, nel migliore dei casi, come un’aspirazione soggettiva di natura socialmente ambigua, mentre i “decrescisti” vedono nel pensiero di Marx nient’altro che una versione “di sinistra” dell’idolatria dello sviluppo che oggi domina il mondo e contro cui intendono combattere. Giudichiamo questa contrapposizione del tutto negativa.

Da una parte, oggi ogni teoria ispirata a Marx ha bisogno della decrescita perché essa rappresenta l’unica formulazione possibile di un anticapitalismo adeguato alla realtà del capitalismo attuale; dall’altra, la decrescita ha bisogno del pensiero di Marx perché in esso si trovano alcuni fondamenti teorici indispensabili per l’elaborazione di una proposta teorica e politica adeguata ai problemi che la decrescita stessa individua. Solo dall’incontro fra il pensiero di Marx e decrescita può nascere un anticapitalismo che sia capace di confrontarsi, sul piano teorico e politico, con la realtà del capitalismo attuale.

La nascita di una tale forma di anticapitalismo è ormai una necessità stringente. La dinamica dell’attuale fase capitalistica sta infatti spingendo il mondo verso un baratro spaventoso, ma la percezione sempre più diffusa, anche se in maniere ancora indefinite, di una tale tendenza, non riesce ancora a tradursi in un movimento politico in grado di incidere davvero sulla realtà. Noi crediamo che l’incontro fra il pensiero di Marx e la decrescita sia una precondizione perché si possano combattere con efficacia le dinamiche mortifere del mondo attuale.

Il punto fondamentale da cui partire per comprendere la nozione di decrescita è la distinzione fra beni d’uso da una parte e merci dall’altra. “Merce” non è sinonimo di bene o servizio, ma è un bene o servizio prodotto per il mercato in vista di un profitto e dotato quindi di un prezzo. Non c’è sul piano teorico alcun rapporto necessario tra aumento quantitativo delle merci, diffusione del benessere e progresso delle conoscenze.
Per un lungo periodo storico, fino a tutti gli anni Sessanta del secolo scorso, l’allargamento della scala di produzione di merci, pur con tanti risvolti negativi, è stato effettivamente associato, in un quadro storico complessivo, alla diffusione del benessere economico, all’ampliamento della libertà individuale, all’avanzamento dei costumi e delle conoscenze.

A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, però, l’ulteriore aumento quantitativo dei beni prodotti per il mercato è stato sempre più correlato, non accidentalmente (come mostra una vasta letteratura economica e sociologica), alla crescita delle diseguaglianze sociali, alla riduzione delle risorse destinate alla protezione sociale, a minori diritti del lavoro dipendente, alla diminuzione del tempo libero dal lavoro, allo sviluppo di processi di de-emancipazione e di marginalizzazione, cioè a indicatori precisi di un diminuito benessere della maggioranza della popolazione e di una minore libertà individuale.


Un altro punto da comprendere riguardo alla decrescita è che essa, proprio perché riguarda le merci e l’incorporazione di energia e materie prime nei prodotti, non i beni ed i servizi in quanto tali, non è affatto un progetto francescano di rinuncia alla ricchezza economica (o almeno non lo è nell’idea a cui qui si fa riferimento, ad esempio di Latouche o Pallante; certamente ci sono idee non condivisibili di decrescita, come al tempo di Marx c’erano idee non condivisibili di comunismo o socialismo). E’ un rifiuto dello sviluppo capitalisticamente inteso, cioè dell’unica nozione di sviluppo oggi diffusa e compresa, che schiaccia quanti non vogliono accettare investimenti economici che devastano il territorio. Ed è una presa d’atto delle necessità non di fruire di meno beni, ma di consumare meno merci, e soprattutto meno energia e meno territorio.

Una disponibilità accresciuta di beni e servizi può essere realizzata anche in un contesto non di sviluppo, ma di decrescita. Un esempio: immaginiamo che il nostro sistema sanitario cominci a svolgere una seria attività di prevenzione ecologica delle patologie mediche, e, con un’immaginazione ancor più sganciata dalla realtà attuale, che il nostro sistema politico e amministrativo produca e faccia rispettare leggi che riducano drasticamente i rischi di infortuni sul lavoro e di contatto nell’ambiente con sostanze patogene. In una tale situazione il cittadino fruirebbe di migliori servizi sanitari e potrebbe maggiormente disporre di quei beni preziosi che sono cure mediche attente alle persone e basate su buone informazioni ambientali, nel quadro non di uno sviluppo, ma di una decrescita dell’economia.

In Italia uno dei modi in cui si manifesta la nocività dello sviluppo è quello di progetti economici che tendono a invadere e distruggere il territorio con strutture e opere di vario tipo. Le nuove strutture devono invadere la vita quotidiana degli abitanti del territorio, sconvolgendola. Il punto cruciale sta però nel fatto che essa va nella direzione della critica dello sviluppo, anche se i suoi attori possono non averne coscienza. La prospettiva della critica dello sviluppo è l’unica che renda coerenti queste lotte, dando ad esse un valore e un respiro generali.


E’ infatti del tutto chiaro che un sistema economico votato all’espansione senza limiti non è compatibile con la finitezza dell’ambiente naturale. La tendenza all’accumulazione illimitata non devasta solo la natura, ma la stessa società umana. Essa conduce infatti, alla fine, all’estensione del rapporto sociale capitalistico a tutti gli ambiti della società, anche a quelli la cui logica di funzionamento è del tutto incompatibile con esso (la scuola, per esempio). Arrivato il capitalismo nella fase del capitalismo assoluto, lo sviluppo capitalistico devasta la natura, la società e la psiche, e genera quindi forti resistenze sulle quali radicare una forza anticapitalistica.

L’idea della decrescita è l’idea della graduale sostituzione del consumo di merci con quello di beni e servizi non mercificati, del consumo di beni prodotti intensivamente su larga scala e trasportati da lunghe distanze con quello di beni prodotti su piccola scala e trasportati su brevi distanze, di alti consumi di energia con bassi consumi di energia, della costruzione di nuove opere invasive del territori con il riuso e la manutenzione di opere già esistenti.

La difesa dell’integrità del territorio, attraverso proposte pratiche di decrescita, consente infatti di colpire elementi vitali di accumulazione del plusvalore (per esempio: sviluppo degli affari attraverso le cosiddette grandi opere, le grandi reti di distribuzione dell’energia, le grandi arterie di trasporto, lo smaltimento dei rifiuti) connettendo questa lotta contro l’accumulazione di plusvalore alla tutela delle condizioni materiali di vita degli insediamenti abitativi, e facendone la leva per nuove forme di redistribuzione della ricchezza collettiva a vantaggio dei ceti subalterni.

La difesa dell’integrità del territorio, attraverso proposte pratiche di decrescita, consente inoltre di colpire l’attuale intreccio affaristico-corruttivo tra ceti politici e imprese capitalistiche che ruota attorno alle rendite ricavabili dal consumo del territorio. La decrescita coincide quindi con la distruzione del modo di produzione capitalistico. La proposta della decrescita è quindi la proposta di un agire politico anticapitalistico adeguato alle forme in cui oggi si manifestano le contraddizioni capitalistiche.
Liberando l’anticapitalismo dalla ricerca di un Soggetto Sociale Rivoluzionario (la classe operaia, o i suoi succedanei come gli emarginati o gli immigrati) che faccia da garante metafisico del buon esito dell’impresa rivoluzionaria, la decrescita permette di guardare la realtà concreta alla ricerca delle contraddizioni reali che l’attuale fase di sviluppo del capitalismo genera: la degradazione dell’ambiente della vita comune, lo sconvolgimento continuo del territorio, l’invivibilità delle città, la lenta cancellazione di ogni forma di servizio sociale, l’insicurezza su tutti gli aspetti fondamentali della vita, tutto ciò si traduce in un continuo peggioramento della vita che genera tensioni e scontri.


Se l’anticapitalismo che si ispira a Marx facesse propria la proposta della decrescita potrebbe intercettare questo crescente disagio sociale, uscendo così dal vicolo cieco in cui si è cacciato inseguendo un inesistente Soggetto Sociale Rivoluzionario, e tornando a incidere sulla realtà. La decrescita rappresenta l’unica prospettiva odierna di lotta anticapitalistica nei paesi occidentali. Quella della decrescita è un’idea-forza perché consente di ottenere una redistribuzione della ricchezza sociale che le lotte salariali non sono più in grado di ottenere. Infatti lottare contro le grandi opere a favore di una capillare manutenzione del paese significa lottare anche per un aumento dei posti di lavoro necessari a tale manutenzione.

Lottare contro il consumo distruttivo di territorio a favore di un suo uso funzionale ai bisogni delle comunità significa lottare per una politica di estesi servizi pubblici. Lottare per produzioni non intensive, distribuite a brevi distanze con basso consumo di energia, significa estendere l’area della piccola produzione indipendente. Ma più posti di lavoro, più erogazione di servizi pubblici, più piccole produzioni indipendenti, significano decrescita dei profitti e redistribuzione della ricchezza sociale in forma non di merci ma di beni e servizi.

giovedì 27 maggio 2010

Manovre per un macello..... sociale!!

C'è un solo nemico, per questo governo: il lavoro. Ed è anche l'unica botte da cui spillare qualche goccia di reddito extra. La «manovra correttiva» da 24 miliardi non lascia alcun dubbio, nonostante l'evidente sforzo di spalmare su una marea di voci differenti l'effetto delle «manganellate».


La riduzione delle «spese della politica» o degli emolumenti ai supermanager pubblici è poco più di una trovata di marketing, mentre l'entità delle sottrazioni - in termini di salario, vita lavorativa, servizi in meno o più costosi - è al momento incalcolabile.


E' chiaro che il taglio di 1.000 euro fatto a chi ne guadagna 100.000 l'anno è inavvertibile, mentre quattro anni di blocco salariale - eroso da un'inflazione che non dorme nemmeno in tempi di crisi - per chi ne guadagna 20.000 (o molto meno) è una bastonata intollerabile. Specie se con quello stipendio dovrai pagare più tasse scolastiche o universitarie per i tuoi figli, bollette gonfiate, pedaggi anche sulle strade fin qui gratuite.


E' il destino riservato ai dipendenti pubblici, che vanno già preparando mobilitazioni. Persino dal «comparto sicurezza» (polizie varie) sale il malumore, al punto da chiedere ora apertamente il «diritto di sciopero».
Ma è anche un governo che ha il terrore della conoscenza scientifica, quella che sgombra il campo dalle opinioni da imbonitore e stabilisce - temporaneamente - una qualche verità. L'elenco degli istituti di ricerca aboliti da questa manovra è impressionante. E accomuna sia carrozzoni che si credevano scomparsi (come il «comitato Sir»), sia presìdi fondamentali della ricerca italiana.


E' comunque una manovra «depressiva», perché comprime i redditi e quindi i consumi in settori sociali di grandi dimensioni.
In ogni caso, stiamo qui a raccontare non un testo nero su bianco, ma quanto hanno riferito ai giornalisti i protagonisti degli incontri avvenuti ieri a palazzo Chigi: rappresentanti degli enti locali, dei sindacati, delle associazioni di categoria. L'unica cifra fatta sono i 24 miliardi in due anni citati dal ministro dell'economia, Giulio Tremonti. Persino Romano Colozzi, assessore regionale (Pdl) in Lombardia, ha dovuto ricalcolare - raddoppiandola - la stima del taglio operato nei confronti delle Regioni.


Tremonti aveva promesso di «ridurre il perimetro dello stato» e lo sta facendo. E del resto occorre uno stato più debole, se si vogliono lasciare campi aperti agli animal spirits del libero mercato. Vedremo meglio nei prossimi giorni in cosa può consistere l'accorpamento degli enti previdenziali, ad esempio; da cui certo si possono ottenere «grandi risparmi» ma, se mal «orientati», sulla pelle di assistiti che non hanno poi più difesa alcuna.


Facciamo l'esempio annoso della sanità. Qui si sceglie la strada delle «limature» a diverse voci di bilancio, alcune persino sensate (acquisti centralizzati, costi certificati, ecc). Nulla si fa contro il vero cancro che fa levitare i costi della sanità pubblica: le convenzioni con cliniche private. Un meccanismo di privatizzazione strisciante, visto che «per convenzione» il pubblico deve garantire alle cliniche una quota di degenti, pagando anche le relative rette. Ma quelle cliniche possono privatamente procurarsi altri degenti (veri o falsi) accollandone egualmente i costi al «pubblico». L'ennesima conferma è venuta dalla Corte dei Conti, che ha disposto il sequestro delle cliniche laziali della famiglia Angelucci, che può vantare un onorevole (Antonio) del Pdl.


E' infine un governo che ama la guerra. I risparmi derivanti dallo scioglimento degli enti pubblici (scientifici e non) saranno destinati al rifinanziamento delle missioni militari all'estero. «Di pace», ovviamente, come impone la «neolingua» in uso in Italia.


22 ARTICOLI TRA "STIME" E TAGLI VERI (PER IL LAVORO)


Condono: sanatoria per gli «immobili fantasma» scoperti dall'Agenzia del territorio, pagando solo un terzo della sanzione prevista. Gettito previsto: 2 miliardi. Ma nella manovra si parla di 6. Probabile quindi un condono edilizio totale (anche per altri immobili irregolari), magari tramite l'emendamento di un singolo deputato per «salvare la faccia» di Tremonti (che lo ha escluso). I comuni potranno incamerare un terzo del ricavato fiscale dagli abusi scoperti.


Pensioni: riduzione delle finestre di uscita a una soltanto (due per chi matura i 40 anni di contributi) e ritardo a sei mesi per il pagamento delle liquidazioni per il pubblico impiego. Elevamento dell'età pensionabile a 65 anni per le donne nel pubblico impiego: andrà a regime dal 1 gennaio 2016 anziché dal 2018..


Statali: congelamento degli stipendi fino a tutto il 2013, proroga del blocco del turnover al 20%, divieto di stipulare contratti precari per le sostituzioni; taglio del 5% delle retribuzioni dei dirigenti, ma solo per la parte eccedente i 90.000 euro annui.


Enti locali: tagli proporzionali ai trasferimenti ricevuti (5 miliardi secondo Tremonti, 11 secondo le Regioni), per un totale di 10 miliardi in due anni. Spese della politica: ministri e sottosegretari perdono il 10% sulla parte eccedente gli 80.000 euro (esempio: uno stipendio da 100.000 euro scende a «soli» 98.000), così come dei compensi per i componenti gli organi di autogoverno (tutte le magistrature); dimezzato il contributo ai partiti (era 1 euro a voto).


Protezione civile: salta la gestione dei «grandi eventi», limiti più stringenti per i casi in cui utilizzare «poteri straordinari», limiti anche alle deroghe contrattuali nel trattamento del personale relativo.


Pedaggi: estesi anche alle strade di connessione con le autostrade (come il Grande raccordo anulare di Roma).


Redditometro: revisione dei criteri (accertamenti nel caso di scarto superiore al 20% tra reddito dichiarato e accertato).


Enti pubblici: soppressi Isae, Isfol, Ispesl, Ipsema, Ice e tanti altri; trasferito ad altri enti il personale a tempo indeterminato, a casa i precari di lungo corso.
Stock option e bonus: aliquota più alta del 10% per le retribuzioni «accessorie» che siano il triplo della paga-base. Tracciabilità assegni: torna a 5.000 euro il livello minimo (una misura volta da Vincenzo Visco, che Berlusconi aveva fatto portare a 12.550). E' l'unica vera, per quanto piccola, ipotesi «anti-evasione». Invalidità: aumento dal 74 all'80% di invalidità per poter avere una pensione; 200.000 accertamenti in più per scoprire gli abusi.


Sanità: più acquisti centralizzati, sistema dei «costi standard», riduzione della spesa farmaceutica ospedaliera (più «generici»). Non si è parlato di reintroduzione dei ticket sulle visite specialistiche, ma non sono esclusi (fa parte di un contenzioso ancora da risolvere tra governo e regioni).


Roma capitale: per finanziare il piano di rientro del Comune è prevista uan tassa di 10 euro per tutti coloro che alloggeranno negli alberghi romani.



Anche il Rapporto annuale dell'istituto nazionale di statistica che è stato presentato in questi giorni parla chiaro: a pagare le spese della crisi sono i giovani, gli stranieri, le donne.

Ora sì che capiamo perché il governo sta cogliendo l’occasione della recessione per mettere a tacere enti pubblici di ricerca come l’Isfol, l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, l’Isae, l’Istituto di studi e analisi economica, lo Ias che si occupa invece di affari sociali: basta vedere l’efficacia con cui il Rapporto annuale dell’Istat, presentato disegna l’Italia al tempo della crisi quella che fino a poco tempo fa per Berlusconi non c’era.

Sono dunque tre, secondo l’Istat a sua volta già colpito dalla scure di Brunetta i «punti di fragilità» che hanno operato «congiuntamente» per aggravare la crisi nel nostro paese: «Squilibri di entità notevole nel settore finanziario (da dove la crisi ha tratto origine), nel settore immobiliare e nella bilancia dei pagamenti».
Motivo per cui, nel 2009, per la prima volta dagli anni novanta il potere d’acquisto per le famiglie «consumatrici» subisce una riduzione del 2,5 per cento, proseguendo la tendenza del 2008 che era molto inferiore, con un meno 0,9 per cento. La famiglia resta l’unico vero «ammortizzatore sociale», ma il 15,3 per cento presenta tre o più «categorie di deprivazione»: rientra nella categoria, ad esempio, pagare un affitto.

Dice poi l’Istat che cala il tasso di occupazione, e aumenta la disoccupazione, e non è una novità. Aggiunge però che «si accentua la profonda distinzione lavorativa fra italiani e stranieri, con questi ultimi collocati maggiormente nei settori produttivi meno qualificati e a bassa specializzazione». Il tasso di occupazione degli italiani (56,9 %), si è ridotto nel 2009 di oltre un punto percentuale rispetto al 2008, ma la flessione per gli stranieri supera i due punti (dal 67,1 al 64,5 %). Allo stesso modo, il tasso di disoccupazione per gli italiani è dell’8,2 per cento, e per gli stranieri raggiunge il 12,6. Il primo però è aumentato nel 2009 di poco più di un punto percentuale, il secondo di quasi quattro punti.

I più colpiti dalla crisi, dice ancora l’Istat, sono i ragazzi e le ragazze. L’Italia, in Europa, «vanta» il più alto numero di giovani che non lavorano e non studiano: nel nostro paese sono oltre 2 milioni. Il loro numero è molto cresciuto nel 2009, e oltre un milione di questi si trova nel Mezzogiorno.

Cresce inoltre, e non stupisce, il numero di quelli che non riescono ad andare via di casa. Rispetto al 1983, la quota di chi vive in famiglia tra i 30-34enni è triplicata. I motivi sono economici (40,2 %) o di studio (34,0 %), che poi in realtà è la stessa cosa: gli studenti sono costretti a restare a casa per terminare gli studi perché costano troppo, e soprattutto perché nelle città universitarie non ci sono case (o stanze) a prezzi abbordabili. D’altro canto il 19,2 per cento dei giovani fra i 18 e i 24 anni abbandonano gli studi senza aver conseguito il diploma della scuola superiore: e qui siamo 4 punti sopra la media Ue, 9 punti sopra il valore fissato dalla strategia di Lisbona.

Dice ancora l’Istat che «nel conseguimento dei titoli superiori continua a pesare una forte diseguaglianza legata alla classe sociale della famiglia di provenienza degli studenti, anche considerando le differenti generazioni». Il 12,2 % del totale degli iscritti al primo anno delle superiori abbandona il percorso d’istruzione non iscrivendosi all’anno successivo, e un ulteriore 3,4 % lascia alla fine del secondo anno.

Accade, di nuovo, particolarmente nel Mezzogiorno, con abbandoni al primo e al secondo anno pari rispettivamente al 14,1 e al 3,8 % e un milione e 200 mila giovani fra 15 e 29 anni non ha letto neanche un libro nel corso del 2009 o non ha mai utilizzato un personal computer.
E infine, le donne. Per quanto riguarda l’occupazione femminile, il tasso di occupazione è sceso nel 2009 al 46,4 per cento: il più basso in Europa, a parte Malta.




mercoledì 26 maggio 2010

L'acqua e la finanza creativa...

Le seicentomila firme raccolte per i referendum dell'acqua devono aver preoccupato gli ispiratori del «quadro di nuove convenienze delineato dal decreto Ronchi» - per usare le parole del Corriere della Sera - che hanno quindi accelerato la loro azione volta a mettere a valore la ricchezza idrica.

Così sono cominciate le grandi manovre dei futuri despoti dell'acqua, timorosi di essere disarcionati prima ancora di cominciare. Primi a muoversi, Iride insieme a F2i, il Fondo fondato dalla Cassa Depositi e prestiti, Cdp e partecipato dalle grandi banche. E' opportuno a questo punto, prima di fare un passo avanti, farne due indietro.
Il primo è l'esame di Iride, da farsi subito, dato il rischio che Iride stessa sparisca in qualcosa di ancora più grande. Iride è una società controllata pariteticamente dai comuni di Genova e Torino.

La parte genovese è l'Amga (Azienda municipale gas e acqua) che negli anni 50-60 fa gli acquedotti, nel 1995 diventa Spa, si quota in borsa nel 1996, poi nel 2000 scorpora le acque in una società a parte, Genova Acque e nel 2006, con implacabile coerenza, riassorbe Genova Acque con gli altri acquedotti locali: De Ferrari Galliera e Nicolay.
Nasce Mediterranea delle acque, con una sigla che dovrebbe essere Mda ma è spesso indicata come Mad, in buona sostanza, pazza. Sempre nel 2006 la fusione con l'Aem torinese, società per azioni controllata dal comune di Torino, per dar vita all'Iride. Aem non ha direttamente acqua, ma controlla molto idroelettrico e, indirettamente, la Smat delle acque torinesi.

Il secondo passo indietro riguarda F2i (Fondi italiani per le infrastrutture). Esso nasce all'inizio del 2007 su impulso della Cassa depositi e prestiti, un'emanazione del ministero del Tesoro. Le banche e altri potenti sono invitati a partecipare, e partecipano in frotte, non si sa quanto spontaneamente. La raccolta si chiude al livello di 1,85 miliardi. Il Fondo comincia a darsi da fare e acquista per esempio il 60% della rete gas dell'Enel.

Attualmente partecipano al Fondo le banche per il 34%, le Casse previdenziali per il 24, le Fondazioni bancarie per il 24, le assicurazioni per il 9 mentre alle istituzioni dello stato rimane l'8. Ci sono poi Sponsor e Management, come nei fondi rispettosi degli usi e dei costumi. Tutto lascia pensare che F2i abbia molti quattrini da gettare nelle infrastrutture preferite, sotto la guida di Vito Gamberale, il manager prescelto da molti governi. Ma è tempo di fare il passo avanti promesso. Una nuova società dal nome promettente di San Giacomo raccoglie miracolosamente tutte le acque della zona e le trasforma in buone azioni.

Iride e F2i decidono dunque di dare l'assalto all'acqua, prima che sia troppo tardi. Il punto di partenza è il Nordovest di Genova e Torino. Il primo passo sarà quello di escludere i soci forti che sono Veolia, la multinazionale dell'acqua francese che ha il 17% e Impregilo che ha il 5 e i soci deboli con poche azioni in mano. Per tutti loro si fissa il prezzo di 3 euro per azione, un 15% al di sopra di quello corrente e che di certo tutti accetteranno. Poi le azioni saranno ritirate dalla borsa e inizierà un doppio percorso. Da una parte il Fondo crescerà a tappe successive in San Giacomo fino a raggiungere il 40%.

Dall'altra parte con i soldi in cassaforte (non certo i 237 miliardi indicati dal solito Corriere della Sera, ma 237 milioni che sono sempre una bella cifra) si partirà all'assalto di altre imprese sotto forma di Spa e a controllo pubblico-privato. Saranno prese di mira le imprese idriche pubbliche del Sud, a partire da quelle di Sicilia. Poi, siccome l'appetito, anche nel caso dell'acqua, vien mangiando, si adombra un assalto all'Acquedotto pugliese che però il presidente Nichi Vendola ha messo in sicurezza.

Il quadro dell'assalto finanziario, rapido e mirato, all'acqua pubblica, tanto per impedire che diventi bene comune, e con questo sia posta definitivamente fuori della portata di speculatori e affaristi, parte dunque da Genova e da Torino. E' chiara l'intenzione di spremere il massimo del profitto dal sistema idrico, facendo pervenire ai comuni assetati qualche euro di conforto e utilizzando il resto in affari sempre più mirabolanti.

Ma il bello della finanza - o il brutto, non sappiamo - è che si tratta di una razza di cannibali. Se il giorno 24 maggio si viene a sapere dell'accordo tra Iride e F2i, il 25 tutto il mondo è cambiato. Iride emette un comunicato congiunto con Enìa, la multiutility di Reggio Emilia, Parma e Piacenza. E' l'atto di fusione tra le due società. Tutto il potere a Reggio, tutte le azioni (o quasi) a noi della libera banca.

martedì 25 maggio 2010

Il costo della crisi?....paga Pantalone!!!

Con una colossale opera di mistificazione della verità, si vuole far credere che la crisi del debito pubblico degli Stati è causata dall’eccesso di spesa pubblica, e in particolare dalla spesa sociale.


Al contrario, la causa risiede nell’enorme ammontare di risorse utilizzate per il salvataggio del sistema finanziario, che torna infatti, anche in Italia, a distribuire lauti dividendi e retribuzioni stratosferiche ai propri dirigenti. Invece di colpire la speculazione, la risposta dei governi è quella preannunciata nei giorni scorsi dalla grande stampa nazionale e internazionale e ribadita dal Fondo Monetario Internazionale: colpire quello che resta del modello sociale europeo. Ancora una volta, la crisi e l’Europa sono utilizzate dalle classi dirigenti e dai governi come pretesto per ridurre il reddito dei lavoratori e i diritti sociali.


Il governo italiano obbedisce a queste richieste e, dopo aver affermato che tutto andava per il meglio, adotta una manovra socialmente iniqua ed economicamente nociva.

La manovra è socialmente iniqua: vengono messe le mani nelle tasche degli italiani, con il blocco triennale delle retribuzioni dei dipendenti pubblici, con gli interventi sulle pensioni, con i tagli delle prestazioni sociali che saranno la conseguenza inevitabile dei tagli ai trasferimenti agli enti locali.


Si prepara intanto l’ennesimo condono, nuovo premio agli evasori.

In tal modo, si accentuano le diseguaglianze sociali, già enormemente cresciute negli ultimi anni, mentre l’attacco ai pubblici dipendenti rientra nella logica della svalutazione delle funzioni pubbliche. La manovra inoltre è economicamente nociva, perché riduce il reddito dei lavoratori e quindi la possibilità di sostenere per tale via l’economia reale. Si determinano così le condizioni per un ulteriore aggravamento della recessione e della disoccupazione.


Non è affatto vero che questa è l’unica via praticabile. Le risorse necessarie possono essere reperite con una seria operazione di contrasto all’evasione fiscale (che ha raggiunto la cifra di almeno 120 miliardi, 5 volte la preannunciata manovra); con una imposizione progressiva di solidarietà sui grandi patrimoni e sui redditi, pubblici ma anche privati, a partire dalle stock options, e dagli stipendi dei manager, tassando la speculazione finanziaria, riducendo le spese militari, a partire dal ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan.


La Federazione della Sinistra avvia su questi temi un’azione di informazione e mobilitazione del Paese, e chiede a tutte le forze dell’opposizione di non cedere a lusinghe bipartisan, ma incontrarsi invece per definire le misure da intraprendere contro la manovra e contro la politica reazionaria del governo Berlusconi.


lunedì 24 maggio 2010

Federalismo demaniale=svendita totale

Dietro la parola magica del "federalismo demaniale" si nasconde il più colossale progetto di cementificazione del BelPaese della storia della Repubblica. La cessione a Regioni ed enti locali di strade secondarie, corsi idrici, sorgenti, spiagge, miniere, laghi, areoporti non strategici e più che altro di terreni agricoli fino ad oggi proprietà dello Stato è tesa esclusivamente a "valorizzare il patrimonio" ovvero a fare cassa. Non a caso si precisa a cosa devono servire i proventi : per il 75% ad abbatere il debito pubblico degli Enti Locali, per il restante 25% il debito dello Stato.

La ricchezza (e la bellezza) dell'Italia, consiste nella vasta e diffusa disponibilità di beni demaniali quali spiagge, laghi, panorami che devono rimanere beni comuni potenzialmente a disposizione di tutti, comprese le future generazioni. Quello che si opera con il decreto sul federalismo demaniale è proprio la rottura del principio del demanio come bene comune, incommerciabile e fruibile sempre da parte di tutti.
In linea di principio non siamo contrari al trasferimento di questi beni comuni a Regioni ed Enti Locali: ma non è questa la partita in gioco! E' il meccanismo che è messo in moto, ovvero quello di mercificare questi beni, che la Federazione della Sinistra contesta alla radice.

Secondo la Ragioneria dello Stato si tratta di un patrimonio valutabile tra 3,2 e i 5 miliardi di euro che potranno essere piazzati sul mercato per una "valorizzazione funzionale". Si autorizza la vendita ai privati e ai fondi immobiliari che, come è noto, saranno non solo speculativi ma aggiungeranno altri scempi a quelli già attuati nel nostro territorio, in particolare per coste e terreni agricoli.

I Comuni, già stremati dal patto di stabilità e non risarciti dal mancato ingresso di introiti in seguito all'abolizione dell'Ici,si troveranno davanti al dilemma : o spendere soldi propri per la manutenzione e la protezione dei beni ex demaniali trasferiti o metterli invece in vendita, allettando, per esempio per le aree agricole, il potenziale compratore anche con variazioni d'uso di queste aree, trasformandole in edificabili.
Il fatto che gli oneri di urbanizzazione- ovvero gli introiti che i Comuni percepiscono dalla nuove costruzioni e dalle licenze edilizie- rappresentino una delle poche entrate per le amministrazioni comunali, spingeranno i sindaci a concedere varianti e a cementificare il più possibile.

Le aree agricole demaniali che non sono state sottoposte ad un censimento preciso ammontano ad 1 milione di ettari che da ora in poi entrano a far parte del patrimonio degli enti locali. Legambiente ha calcolato che solo il 4% fosse sottoposto a questa procedura e applicando un basso indice di cubatura 0,8 mc/mq avremmo una spaventosa cementificazione delle aree agricole del nostro paese, dell'ordine di 300 milioni di metri cubi.
Anche le sorgenti di acqua minerale e termale possono essere trasferite ed essere messe in patrimonio disponibile e sottoposti a piano di alienazione, ovvero vendita
Le spiagge che continueranno a far parte del patrimonio indisponibile dello stato e quindi non potranno essere vendute saranno sottoposte a processi di valorizzazione. Si aumenterà quindi il processo di privatizzazione (le concessioni passano dagli attuali 20 anni a 99 anni) e cementificazione delle spiagge italiane.

Davanti a questo attacco senza precedenti al patrimonio ambientale nazionale ci pare grave il voto di astensione del Partito Democratico e gravissimo il voto favorevole dell'Italia dei Valori al decreto legislativo del Governo. Lo spettacolo della conferenza stampa congiunta del leghista Calderoli insieme ad Antonio di Pietro segnala drammaticamente l'inconsistenza di questa opposizione parlamentare. C'è un partito trasversale degli affari e delle privatizzazioni che sulla mercificazione dei beni comuni non conosce confini politici.

La Federazione della Sinistra è impegnata a denunciare i "furbetti del quartierino" e il federalismo degli speculatori. Invita i suoi amministratori, consiglieri comunali, provinciali e regionali a rafforzare la vigilanza sugli atti di cessione del patrimonio demaniale agli enti locali e mettere in campo una opera di controinformazione tesa a demistificare la propaganda del Governo. Si impegna a realizzare inoltre, con le associazioni ambientaliste e della società civile, Osservatori provinciali e regionali sugli effetti del "federalismo demaniale" e sui potentati legali ed illegali messi in moto da questo provvedimento teso al "sacco del BelPaese".

domenica 23 maggio 2010

L'Italia che uccide

Impegnati sulla volata Champions o sulla nazionale geriatrica in partenza per il Sudafrica, quasi distratti dall’ampliarsi quotidiano della lista della cricca del mattone a buon mercato, ci capita di non riuscire a concentrarci sulla cronaca nera. Succede, del resto, quando il governo e i media vanno d’accordo e quando non c’è bisogno di utilizzare la cronaca dei delitti peggiori in chiave elettorale. Eppure, le ultime settimane sono state ricche, tristemente ricche, di episodi di violenza e di follia, di uomini che uccidono donne.

Eravamo abituati al clima estivo quale ambientazione dell’esplosione di follia familiare. Psicologi televisivi e intrattenitori, improvvisatisi giornalisti, negli ultimi anni avevano sempre scoperto nel clima torrido, nella solitudine delle vacanze fallite o in qualche altra scempiaggine, la molla scatenante delle devianze criminali sopite. Adesso invece, che la bella stagione non è ancora alle porte, quando tutte le concause sono ancora in attesa, la furia omicida, i comportamenti criminali in famiglia sono all’ordine del giorno. Da nord a sud, sposati o separati, con figli o senza, occupati o disoccupati, va in scena ovunque il filmino postmatrimoniale orrido, quello che ha un solo soggetto: la violenza sulle donne.

E non si tratta di violenza sessuale occasionale, di stupro addebitabile al maniaco o all’extracomunitario di turno, che invece di trasudare dolore e indignazione, risulta buono per rimpolpare la dose di xenofobia, questa tutt’altro che latente. Non lo troverete nei titoli dei giornali, ma sono italiani, italianissimi, gli assassini di donne di questa primavera infame. E non assassinano - o tentano di assassinare - incolpevoli quanto ignote donne indifese: sono i loro mariti o ex-mariti, fidanzati o amanti, persino parenti di primo o secondo grado.

La famiglia, dicono quelli che ne hanno almeno due, é sacra e indivisibile. E’ dove si edifica la struttura sociale del paese, il luogo della costruzione identitaria. Proprio per questo detiene diritti che le relazioni prive di timbro nemmeno si sognano. E se al timbro si lega il diritto, proprio per evitare che quei diritti possano averli un domani, si fa in modo che quei timbri non trovino liceità. Probabilmente difettiamo in etica teologica, ci ostiniamo a credere che la famiglia sia solo uno dei luoghi - e non l'unico - dove sia possibile costruire la rete di affetti con la quale si vive. La famiglia, insomma, come una possibilità, non come l'imprescindibile.

D’altra parte gli addetti alla diffusione dei sani valori e all’arricchimento del profilo pedagogico del Paese non brillano. La Chiesa che intima divieti all’amore egualitario mentre permette l’obbrobrio della pedofilia nelle sue chiese, si accompagna ai difensori della famiglia in servizio permanente effettivo, che insultano ed offendono in ogni modo le donne. Una moda oscena e bestiale, una vendetta conclamata contro i diritti che le donne hanno saputo conquistarsi quando ancora tra la società e la politica esisteva un legame. L’odio per l’indipendenza, l’odio per l’orgoglio, sembra essere, in compagnia dell’odio per “l’altro”, il senso compiuto della cristianità d’inizio millennio. Non sarà proprio un caso, quindi, se gli ultimi 3 anni, gli omicidi in Italia sono cresciuti del 16 per cento. Dei seicento omicidi all'anno di cui si "fregia" il Belpaese, circa la metà sono tra gente che si conosce e, la metà di questi, all'interno di nuclei familiari.

Il nord ricco non uccide diversamente dal sud povero. Anzi, colpisce semmai come i peggiori massacri siano avvenuti, in questi ultimi anni, proprio nelle villette monofamiliari, simbolo del benessere conquistato oltre che del gusto pessimo, e nei piccoli centri, spacciati ad ogni piè sospinto come l’alternativa dello spirito alla invivibilità della metropoli tentacolare. Pare proprio, invece, senza voler nemmeno lontanamente proporre una lettura sociologica d’accatto del fenomeno, che proprio nel nord, indicato per la qualità dei servizi, e proprio nei piccoli centri, indicati per la qualità della vita, la furia criminale all’interno delle famiglie si scatena con maggiore efferatezza.

Ci sarebbe bisogno di capire cosa c’è nel nostro modello di società che davvero non funziona più. Ci sarebbe bisogno di correre in soccorso della realtà, di uscire fuori dalle case d’ipotetici grandi fratelli e da quelle delle casalinghe disperate in formato televisivo. Bisognerebbe cacciare la Tv anche dall’urna elettorale, di ricominciare a scrivere e a parlarsi senza cercare il carburante dell’odio. Ricordiamo con nostalgia un paese solidario, dove le lotte per l'uguaglianza e per l'allargamento dei diritti di tutti prevaleva, anche sul piano morale, all'individualismo sfrenato e all'ostentazione del privilegio. Forse da quella nostalgia si dovrebbe ripartire.

Per farlo, servirebbe ricominciare ad indagare la realtà nella quale viviamo, in un sistema arcaico ed iniquo che opprime tutti, chi più chi meno. Per scoprire magari che quest’Italia, che si sveglia sentendosi diversa da tutto e s’addormenta scoprendo di aver paura di tutti, il filo dell’unità e dei valori deve assolutamente recuperarlo. Perché l’ha perso da un pezzo. Da quando cioè, quindici anni fa, scelse di diventare più furba, invece che più giusta.

sabato 22 maggio 2010

Alla faccia della missione di pace!!!

Tratto da Fatti e notizie senza dominio

La morte dei nostri due soldati ha riacceso la luce sull'Afghanistan, sarà un attimo e tornerà a calare il buio, se non fosse per gli episodi luttuosi o qualche mascalzonata sparsa ai danni dei pochi italiani che vi si trovano senza essere stati mandati dal nostro governo, il conflitto afgano è chiaramente sotto-rappresentato dai nostri media. Molto più visibile la “minaccia iraniana”, molto teorica e ormai sfumata, delle guerre vere, difficile credere al caso o una follia diffusa.

Una volta deciso in maniera bipartisan e contro la volontà popolare che si andava, a livello politico non si sono più registrati grossi scossoni o incertezze e raramente la questione è diventata oggetto di disputa politica. Quando la luce si riaccende è già previsto un menu ampiamente rodato a base di cordoglio bipartisan, funerali solenni e la scontata bordata di retorica, ultimamente parecchio sopra le righe, visto che ci ritroviamo come ministro della difesa Ignazio La Russa, uno che non fa economia di parole in queste occasioni.

Siamo sempre stati il paese dello “armiamoci e partite”; in repubblica come in monarchia i nostri leader non hanno mai brillato quando si è trattato di proiettare il paese all'estero. Premesse che giustificano gli esiti peggiori, ancora di più se all'azione è chiamata la classe politica forse più scadente della storia del paese.

È un vero miracolo, che va riconosciuto al nostro esercito e alle capacità negoziali della nostra diplomazia sul campo, che il numero delle nostre vittime in Afghanistan sia rimasto straordinariamente contenuto in questi anni. Non stona farlo notare in questa occasione, perché il paese non è mai stato pronto ad accettare una mortalità che pure sarebbe compatibile con scenari di guerra. Lo stesso problema lo hanno gli americani, che pure perdono relativamente pochi soldati grazie alla prudenza e allo strapotere militare quando arrivano all'ingaggio diretto con il nemico.

Ben pochi dei paesi che hanno militari in Afghanistan sono mai stati disposti a sopportare tributi di sangue troppo alti, per questo sono stati impiegati nel presidio di zone relativamente tranquille e tenuti per quanto possibile lontani dalle principali minacce. All'amministrazione Bush servivano foglie di fico, non aiuti militari, che ha integrato con l'uso di un numero spropositato di mercenari, gran parte dei quali occupati a proteggere altri americani o a servire la truppa professionale, ma comunque più numerosi e ubiqui e coordinati con il comando statunitense della forza multinazionale nel suo complesso.

Così, da anni, stiamo lì a fare i bersagli, attesa dell'inevitabile trappola esplosiva o dell'attacco suicida, senza fare molto di più che presenza e qualche inevitabile brutta figura; basti pensare che il compito che ci eravamo assunti per aiutare l'Afghanistan, paradossale trovata del governo Berlusconi presa per buona dai soci nell'avventura, era quello di costruire un sistema giudiziario e di formare i giudici. Forse all'epoca il diabolico immaginava di poter mandare magistrati italiani in esilio ad insegnar diritto, ma non si potrà mai sapere, perché dopo nove anni non c'è traccia di niente del genere.

L'Afghanistan non appassiona, non essendo oggetto di competizione politica è praticamente rimosso, dimenticato. Quando succede qualcosa si alza un'autorità come il Presidente della Camera Gianfranco Fini che dice che è colpa dello scacchiere internazionale, poi Bersani dichiara che non possiamo lasciar vincere i talebani e La Russa che fa il suo numero. Berlusconi, fortunatamente, questa volta era malato.

Osservando La Russa in azione, mi è venuta in mente un'assoluta banalità: quella di chiedermi retoricamente perché non ci ha mandato suo figlio Geronimo, a compiere tutto quel dovere e tutto quel sacrificio per la Patria con la P maiuscola. Un attimo dopo non era tanto una banalità: pensandoci è pur vero nessuno tra i figli di parlamentari o ministri è in Afghanistan. Ma nemmeno ci sono figli di governatori o presidenti di regione o di leader politici, nemmeno uno. Persino la trota di Bossi è stata abbastanza sveglia da preferire i ricchi incarichi in Lombardia al fascino dell'avventura contro il feroce musulmano. Piccoli forchettoni crescono.

Non succede lo stesso negli altri paesi occidentali coinvolti nel conflitto, che mostrano più contegno e senso istituzionale. Questo italico unanimismo monolitico spiega più di tante parole quanto siamo portati per le avventure militari. Per il governo dell'epoca non si trattò certo di reagire con istinto guerresco, ma di comprarsi una sedia il più possibile vicino a Bush, il più potente di tutti. Come con Putin e altri, lungimirante. Ma quanto ci sono costati Bush e Putin? Alcuni muoiono e altri ne traggono vantaggio, è sempre così con le guerre; negli Stati Uniti si sono rubati anche gli sgabelli all'ombra della guerra, oltre a pregevoli pezzi d'Iraq.

Certo è che andare al traino non esime da responsabilità, ancora di più quando si osserva che la politica dell'amministrazione Obama non si sposta di una virgola da quella di Bush. L'approccio ai problemi è tanto simile che la nuova retorica con la quale è impacchettato non basta a nasconderlo, tanto che è appena spuntata l'ennesima Abu Grahib e si è saputo che la base americana di Bagram è un centro di tortura simile a quello iracheno. L'unica differenza é che questa volta non si è trovato ancora un idiota che mettesse le sue foto su Facebook mentre applica elettrodi ai testicoli di un poveretto incappucciato.

In Afghanistan gli americani, e con loro gli alleati, stanno peggio di come stavano alla fine del 2001, dopo un mese di permanenza. Supportano Karzai che pure hanno accusato pubblicamente di aver vinto con i brogli e che correva contro un rivale che poi è stato cooptato al governo. Una farsa in faccia agli americani, che però non hanno trovato un altro “presidente” alternativo in tempo a rimpiazzare quello fallito ma abbastanza vitale da resistere al potere, che avevano scelto loro. Ora siamo al tempo del “surge”, cioè di un’accelerazione bellica che dovrebbe migliorare la situazione come la stessa tattica in Iraq.

Vaglielo a dire agli italiani e agli americani che il “surge” in Iraq non è servito a nulla, che esisteva per lo più sui media; e vaglielo a dire che oggi gli iracheni muoiono a decine ad attentato, mentre gli americani si sono “ritirati” dentro le basi nel deserto e nell'enorme fortezza (in teoria ambasciata) che hanno costruito in mezzo a Baghdad. Ci sono state le elezioni, ma il governo è ancora da fare a distanza di settimane e probabilmente la coalizione vincente non sarà quella preferita da Washington. Dettagli: l'Iraq già non esiste più in Occidente, non esistono nemmeno il suo milione di vittime e i quattro milioni di profughi, quasi un quinto della popolazione.

Immaginare che una persona su cinque di quelle che conosciamo muoia o scappi da qui a sei anni, rende l'idea del danno fatto da Bush nello scatenare una guerra impopolare e fondata su una marea di balle grossolane. Non c'entrava la guerra al terrorismo, non c'erano le armi di distruzione di massa, solo petrolio di ottima qualità. Quando è stato chiaro a tutti quale fosse il vero scopo, hanno detto che era troppo tardi per tornare indietro. Probabilmente l'amministrazione Bush ha conseguito i suoi scopi, ma il mondo pagherà a lungo un prezzo enorme per la sua decisione di occupare l'Iraq per il prossimo decennio. Noi nel nostro piccolo abbiamo dato la consueta manciata di giovani eroi, ma per fortuna ormai è finita e, qui, quello che è successo e succede in Iraq non interessa più a nessuno. Meglio rimuovere in fretta e girare la testa da un'altra parte.

Ancor meno interessa quello che succede in Somalia, dove il nostro storico inviato, il diplomatico Mario Raffaelli, è stato sostituito a gennaio senza che sia mai stato chiaro quale fosse l'agenda italiana per il paese e nemmeno quale sarà chiamato ad interpretare il suo successore. Raffaelli probabilmente è riuscito ad operare decentemente ( le buone referenze lo hanno portato a diventare presidente di AMREF Italia) proprio perché nessuno era interessato a capire cosa stesse succedendo, e quindi a ingerire. Resta che la Somalia è ancora allo sbando e che se prima c'era un governo di islamici, poi è arrivata la dittatura etiope a cacciarli per conto degli americani.

Successivamente gli etiopi se ne sono andati e adesso di islamici ce ne sono almeno di tre tipi: uno buono finalmente al governo, uno cattivo e uno cattivissimo. Gli annunciati rinforzi in addestramento in Kenya si sono rivelati fantomatici e il divide et impera continua a tenere la Somalia nel disastro. Ce ne ricorderemo se i pirati cattureranno qualche italiano al volo, altrimenti niente.

Così come un giorno ci accorgeremo che gli Stati Uniti di Obama hanno aperto un altro sanguinoso fronte in Pakistan, dove ormai non si finge nemmeno più e dove gli americani operano dall'alto con i droni e l'esercito pakistano finalmente muove contro i talebani e altri associati, che rispondono con attacchi alle città. In tutto questo il Pakistan ha dato un segnale di vitalità, perché la debolezza politica dello scarsissimo e corrottissimo marito di Benazir Bhutto (scelta dagli americani e uccisa con un attentato pauroso), ha permesso finalmente una riforma costituzionale degna di questo nome. Peccato solo che in Pakistan nessuno investa ancora in scuole, perché il Pakistan ha sempre preferito spendere in armi gli aiuti che riceveva dagli americani per fare da baluardo contro l'India, l'URSS e la Cina, riservando l'istruzione alla classe dominante e condannando il resto alle madrasse finanziate dall'Arabia Saudita.

Una scelta scellerata di regimi scellerati sempre sostenuti dagli Stati Uniti, complici di Yaya che fa il massacro in Bangladesh, di Alì Bhutto che comincia il programma nucleare, di Zia ul Haq che procede a passo di carica nell'islamizzazione della società e delle leggi. Così hanno prodotto abbastanza mujaheddin da cacciare i russi dall'Afghanistan, ma anche bombe atomiche, gli attentati dell'11 settembre e parecchi altri. Oggi il Pakistan soffre migliaia di vittime all'anno e già più di un milione di profughi interni.

Come mai tutto ciò accade con un paese storicamente “alleato” (vale lo stesso per l'Arabia Saudita)? E come mai non si trova invece uno straccio d'iraniano, siriano, libanese o palestinese disposto a partecipare a quella che hanno raccontato come la grande jihad contro l'Occidente? E’ un mistero glorioso che andrebbe chiarito dagli spacciatori di certe narrative, ma è difficile che qualcuno li disturbi con domande importune. E poi non si poteva certo pretendere da Bush di rovesciare la monarchia saudita, sono cose che non si fanno tra amici di famiglia.

Non resta che incrociare le dita e sperare nello stellone, i nostri parlamentari sono quelli che se sentono dire Darfur pensano al fast-food, pensano a mangiare loro, la guerra è affare dei nostri giovani eroi, a tutti gli altri non resta che continuare a sperare che il nostro coinvolgimento diretto s'interrompa il prima possibile.

lunedì 17 maggio 2010

Lavori pubblici a metà...

Dopo anni finalmente su via Berrettini a Castellina Scalo, nel comune di Monteriggioni, si legge dai comunicati, verrà rifatto completamente il manto stradale.
Che ci siano da rifare marciapiedi e asfalti su tutta la via nessuno lo mette in dubbio, il problema è sempre il solito, cioè, riuscire a completare un cantiere dalla “A” alla “Z”, perché vanno bene i lavori di restyling superficiale ( illuminazione marciapiedi e asfalto ), ma si sacrificano altre opere come la sostituzione della rete idrica, ormai vetusta e mal dimensionata, essenziale come il rifacimento della strada stessa.

Qualcuno già si domanda perché spendere 300 mila euro, senza prendere in considerazione di rifare anche l’acquedotto, questo vuol dire fare un lavoro a metà.
Infatti, con i lavori in corso, le condutture, già vecchie e usurate, sono sottoposte a stress da carico maggiore, e potrebbero rompersi più frequentemente, con la conseguenza di dover intervenire successivamente, spaccando nuovamente la strada per effettuare le riparazioni.

Ovviamente sappiamo quanto i problemi di bilancio incidano sulle opere da eseguire, ma mentre il Comune negli ultimi 10 anni ha conosciuto un fiorente sviluppo edilizio, non possiamo dire che è seguito uno sviluppo altrettanto costante delle infrastrutture, quali reti idriche, reti fognarie e depurazione, che sono opere essenziali se vogliamo continuare a crescere.

A oggi in alcune frazioni ci sono problemi irrisolti da anni sia per l’approvvigionamento idrico sia per la depurazione ( vedi Lornano / Badesse ), e si continua a costruire senza garanzie sufficienti che questo problema venga risolto.
Il comune dal canto suo rimanda al gestore del servizio idrico i problemi su esposti, mentre, l’acquedotto del Fiora, fa sapere che non riesce a garantire gli investimenti sufficienti, se non facendoseli anticipare dal Comune stesso.
Chi rimane inascoltato sono i cittadini che ancora una volta avranno un’opera a metà.

Per questo motivo è ancora più forte l’appello alla sottoscrizione dei tre quesiti referendari per la ripubblicizzazione dell’acqua, perché a decidere possiamo essere noi.

domenica 9 maggio 2010

Otto per mille, quello che lo stato non dice...istruzione per l'uso!!

In anticipo di tre settimane sulla Cei, la UAAR ha cominciato la sua opera di informazione sull’Otto per mille: «visto che non la fa lo Stato, ci pensiamo noi» spiega Raffaele Carcano, segretario generale della UAAR. E così contro la corrazzata vaticana di sette filmati da trenta secondi l’uno che vedremo a ripetizione in tivù da domenica 25 aprile fino a luglio, arrivano i banchetti di atei e agnostici nelle città italiane, per spiegare ai cittadini come funziona l’Otto per mille, che ogni anno distribuisce un miliardo di euro tra alcune confessioni religiose.
Solo quattro italiani su dieci firmano per l’Otto per mille e solo tre firmano per la Chiesa cattolica. Ma, per i meccanismi della legge, tutti gli italiani versano il loro contributo e, alla fine, l’87% del gettito raccolto finisce nelle casse della Chiesa, che a sua volta impiega solo l’8% di quel che raccoglie per missioni nei paesi poveri. «Lo Stato non lo spiega, non chiede fondi per sé e soprattutto utilizza gran parte di quel che riceve per la ristrutturazione di edifici di culto cattolico», insiste Carcano.
Per questo la UAAR ha anche scritto al ministro dell’economia e delle finanze Giulio Tremonti,
( allegata sotto ) per chiedere di rivedere la politica del governo sull’Otto per mille di competenza statale, evitando che quei fondi siano accantonati per esigenze di bilancio o siano destinati (direttamente o indirettamente) a realtà riconducibili alle confessioni religiose, per destinarli invece alle vittime di calamità naturali che tanto frequentemente colpiscono il nostro paese.


Al Ministro dell’Economia e delle Finanze
On. Giulio Tremonti
via XX settembre 97
00187 Roma


Oggetto: destinazione del gettito di competenza statale dell’Otto per Mille IRPEF

Gentile Sig. ministro,
come ogni anno, nelle prossime settimane i contribuenti italiani saranno chiamati a indicare come destinare l’Otto per Mille del gettito Irpef. Tra le opzioni a loro disposizione ci sarà anche quella in favore dello Stato: fondi, come recita la legge 222/1985, che lo Stato è poi tenuto a impiegare «per interventi straordinari per fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione di beni culturali».
Negli anni passati circa un milione e mezzo di cittadini hanno scelto lo Stato: sono in gran parte non credenti che preferiscono che il loro gettito fiscale non sia destinato a finanziare confessioni religiose. I contribuenti non credenti sono i paria dell’Otto per Mille: l’unica scelta non confessionale, per l’appunto lo Stato, si è rivelata spesso deludente, perché è a sua volta servita a finanziare confessioni religiose.
È dunque agevole constatare l’esistenza di una disparità di trattamento nei confronti di una parte cospicua della popolazione (circa il 15-17%, secondo i sondaggi): diversi milioni di cittadini che non solo non credono in Dio, ma ormai non credono nemmeno più che l’Italia abbia uno Stato che faccia proprio il supremo principio costituzionale della laicità, tante sono le discriminazioni che devono quotidianamente subire. Tanti di essi, e da tanto tempo ormai, respingono in toto il meccanismo di ripartizione dell’Otto per Mille. Una posizione che finisce per colpire proprio chi li discrimina: lo Stato stesso, destinatario di un numero di scelte molto inferiore al suo potenziale.
È per questo motivo che l’UAAR, l’associazione di promozione sociale che ha come scopo sociale primario la tutela dei diritti civili degli atei e degli agnostici, le scrive per invitarla a rivedere la politica del governo in tema di utilizzo dell’Otto per Mille di competenza statale. Non c’è bisogno di leggi ad hoc: è sufficiente applicare quella esistente, evitando che tali fondi siano accantonati per esigenze di bilancio o siano destinati (direttamente o indirettamente) a realtà riconducibili alle confessioni religiose, e destinandoli invece a fronteggiare le calamità naturali che tanto frequentemente colpiscono (e purtroppo continueranno a colpire) il nostro paese.
Già lo scorso anno le chiedemmo di destinare i fondi di competenza statale alle popolazioni colpite dal terremoto in Abruzzo. Quanto stiamo vedendo in questi giorni (i ritardi nella ricostruzione, la comprensibile rabbia dei cittadini di quelle zone) mostra come la nostra proposta andasse nella giusta direzione: ci sono connazionali in enorme difficoltà, c’è una vera e propria emergenza, e c’è l’esigenza morale di intervenire subito e adeguatamente per migliorare le loro condizioni di vita. È pertanto indispensabile, a nostro avviso, destinare presto l’Otto per Mille a gestione statale alla ricostruzione con criteri antisismici di ospedali, asili nido, scuole, biblioteche, università della regione abruzzese: non luoghi di culto, per i quali c’è già l’Otto per Mille delle Chiese. Il governo ha già ora la possibilità di spostare fondi cospicui (almeno cento milioni di euro) su interventi concreti: sarebbe delittuoso sprecarla. Anche perché occorre veramente poco per concretizzarla.
In tale occasione ci permettiamo però di inviarle un consiglio che implica un impegno maggiore. Una vera e propria discontinuità con il passato: che cioè lo Stato, per la prima volta dall’esistenza del meccanismo dell’Otto per Mille, chieda ai cittadini di sceglierlo, lanciando una vera e propria campagna pubblicitaria a proprio favore. Il governo potrebbe infatti informare i cittadini della sua intenzione di destinare la propria quota di Otto per Mille all’Abruzzo. Sapendo di contribuire alla ricostruzione di una regione martoriata dal terremoto, molti contribuenti sceglieranno di firmare per lo Stato. In tal modo si attiverebbe tra l’altro una leva economica veramente consistente.
Anche quando non sono molte, l’utilizzo razionale delle risorse a disposizione può effettiva-mente consentire di creare una società migliore. Auspichiamo che sia lei, sia il governo di cui fa parte vi rendiate conto che è una strada realmente percorribile.

Cordiali saluti
Raffaele Carcano
Segretario nazionale UAAR








giovedì 6 maggio 2010

Il nucleare sicuro di Berlusconi e Scajola!!

Uranio, rapporto di Greenpeace sulle aree minerarie dello Stato africano. Acque contaminate, metalli nocivi, polveri sottili e abitanti a rischio leucemia, cancro e malattie respiratorie. Qui opera l'Areva, l'azienda francese con cui Berlusconi e Scajola hanno stretto l'accordo per costruire quattro centrali in Italia

LA FALDA acquifera contaminata per milioni di anni. Livelli di radioattività nelle strade di Akokan, in Niger, 500 volte superiori ai valori normali nell'area. Metalli radioattivi venduti nei mercati locali. E' uno dei costi nascosti del nucleare: il prezzo ambientale pagato dall'Africa all'estrazione dell'uranio. La denuncia è contenuta in un rapporto di Greenpeace Nel novembre scorso l'associazione ambientalista, in collaborazione con il laboratorio indipendente Criirad e la rete di ong Rotab, ha effettuato uno studio del territorio attorno alle città minerarie di Arlit e Akokan, in Niger, per misurare la radioattività di acqua, aria e terra intorno. E' qui che opera Areva, l'azienda francese leader mondiale nel campo dell'energia nucleare, la stessa società con la quale il governo Berlusconi e il ministro Scajola hanno stretto l'accordo per costruire quattro centrali atomiche in Italia.

"In quattro su cinque campioni di acqua che Greenpeace ha raccolto nella regione di Arlit, la concentrazione di uranio è risultata al di sopra del limite raccomandato dall'Oms per l'acqua potabile", si legge nel rapporto. "In 40 anni di attività sono stati utilizzati 270 miliardi di litri di acqua contaminando la falda acquifera: saranno necessari milioni di anni per riportare la situazione allo stato iniziale". Anche nelle polveri sottili, che entrano in profondità nell'apparato respiratorio, la concentrazione di radioattività risulta aumentata di due o tre volte.

Areva sostiene che nessun materiale contaminato proviene dalle miniere, ma Greenpeace ha trovato diversi bidoni e materiali di risulta di provenienza mineraria al mercato locale a Arlit, con un indice di radioattività fino a 50 volte superiore ai livelli normali. Gli abitanti del luogo usano questi materiali per costruire le loro case. "Per le strade di Akokan, i livelli di radioattività sono quasi 500 volte superiori al fondo naturale", continua lo studio. "Basta passare meno di un'ora al giorno in quel luogo per essere esposti nell'arco dell'anno a un livello di radiazioni superiore al limite massimo consentito".

L'esposizione alla radioattività può causare problemi delle vie respiratorie, malattie congenite, leucemia e cancro. Nella regione i tassi di mortalità legati a problemi respiratori sono il doppio di quello del resto del Niger. Areva sostiene che nessun caso di cancro sia attribuibile al settore minerario.

Greenpeace chiede uno studio indipendente intorno alle miniere e nelle città di Arlit e Akokan, seguita da una completa bonifica e decontaminazione. I controlli devono essere messi in atto per garantire che Areva rispetti le normative internazionali di sicurezza nelle sue operazioni, tenendo conto del benessere dei suoi lavoratori, dell'ambiente e delle popolazioni circostanti.

"Nella situazione attuale comprare da Areva il combustibile per le centrali nucleari che il governo vuole costruire significherebbe finanziare i disastri ambientali e sanitari in Niger", commenta Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace
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mercoledì 5 maggio 2010

1° maggio: un anniversario per le pari opportunità

Da tempo siamo abituati a considerare il primo maggio semplicemente come la più grande festa laica che affonda le sue radici nell’art. 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro“. Il diritto al lavoro in particolare, in quanto diritto individuale a garanzia di una vita dignitosa, è un tema che da sempre infervora la società civile ed il mondo politico.

Tuttavia, pur sempre di politica parlando, il primo maggio può anche essere ricordato come il giorno della nascita di Salvatore Morelli, “il patriota pugliese” considerato un antesignano della affermazione e valorizzazione del ruolo culturale, pedagogico e politico della donna.

Il primato pertanto riconosciuto al presidente Vendola per la formazione di un esecutivo regionale per meta’ costituito da donne, resta nel solco tracciato proprio da Morelli.
Avvocato, per oltre 10 anni incarcerato da antiborbonco, consigliere comunale a Napoli, (per un voto non passo’ la proposta di destinare meta’ Bilancio per l’educazione ed il sostegno ai giovani), divenne parlamentare dal 1867 al 1880.Fu il primo in Europa a presentare disegni di legge per il voto alle donne, il divorzio, la parità dei sessi e dei figli naturali con i legittimi, l’accertabilita’ della paternita’, la difesa delle prostitute, la cremazione, la riduzione delle “Guarentigie”, la scuola laica.Resta al riguardo sempre attuale uno dei suoi testi, “La donna e la scienza“, edizioni Pensa.
Stuart Mill, in contatto con Morelli, si ispiro’ al suo schema di legge per la legge sul suffragio femminile che presento’ a Londra.

Di Morelli la legge che riconobbe alle donne la facolta’ di essere testimoni nelle cause, mentre fu solo approvata “la presa in considerazione” del progetto di divorzio, proprio l’8 marzo 1880.

Di integerrima moralita’ (al tempo i parlamentari non percepivano alcuna retribuzione), fu persona di eccezionale generosita’. Da carcerato, nelle galere borboniche, rifiuto’ sempre la domanda di grazia, che pero’ gli sarebbe spettata per aver salvato dall’annegamento due bambini, ma che preferi’ passare ad altro condannato, anziano e con famiglia.