Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

martedì 3 dicembre 2013

Gli operai arsi vivi a Prato. Ovvero la schiavitù a km 0!

Di Giorgio Cremschi.

Le persone bruciate vive nelle fabbriche tessili segnano la storia dello sviluppo industriale e delle condizioni di lavoro. La stessa data dell'8 marzo ricorda la strage di operaie avvenuta per il fuoco più di un secolo fa negli Stati Uniti. Dopo aver percorso il mondo con la sua devastazione costellata di stragi di lavoratori, ora, grazie alla crisi, la globalizzazione torna là da dove era partita, e anche da noi si muore come nel Bangladesh o in Cina. Negli Stati Uniti questi laboratori di migranti che si installano nelle antiche zone industriali li chiamano "swet shops", fabbriche del sudore.Da noi la strage di operai cinesi a Prato è stata presentata cercando la particolarità estrema, quasi come fatto di costume. Si è messo l'accento sulla particolare chiusura in sé della comunità cinese, fatto assolutamente vero, quasi per derubricare quanto avvenuto. E soprattutto per non affrontare la questione vera, che in Italia la produzione industriale e il lavoro nei servizi stanno affondando nelle condizioni di quello che una volta si chiamava terzo mondo.La questione non è che i morti sono cinesi, ma che in Italia si lavora come schiavi per paghe vergognose, e che questo può toccare a tutti. Perché c'è chi ci guadagna a mettere il proprio marchio su ciò che viene fatto per pochi centesimi, e la svalutazione dei nostri redditi ci pesa un po' meno se possiamo comprare indumenti a basso prezzo. Prima si dovevano trasportare da lontano le merci prodotte dagli schiavi, ora la strada è più corta perché gli schiavi li abbiamo in casa. I margini di profitto crescono con la schiavitù a chilometro zero.Se non si ferma la macchina infernale della globalizzaIone, se non si ridà forza e dignità al lavoro quale che sia il colore della pelle o il taglio degli occhi di lo fa. Se si continua a parlare di competitività e produttività a tutti i costi. Se si continua ad accettare come fatto inevitabile che il lavoro sia sfruttato qui, tanto sennò lo sfruttano lì.Se continueremo a considerare con riprovazione domenicale ipocrita, il culto che Papa Francesco ha chiamato del Dio Denaro. Se continueremo a sprofondare verso il capitalismo ottocentesco, di quel capitalismo subiremo sempre di più la ferocia.Se vogliamo fermarci, cominciamo a dire che a Prato sono stati uccisi sette operai, come alla Tyssen krupp di Torino. Non sette cinesi, ma sette operai vittime in Italia dello schiavismo della globalizzazione.

sabato 23 novembre 2013

La controfinanziaria di Sbilanciamoci

http://www.sbilanciamoci.org – Riportiamo l’anteprima dell’introduzione al Rapporto 2014. Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace e l’ambiente.Con una patrimoniale, una tassazione sui capitali scudati e un’imposta maggiore sulle transazioni finanziarie, sarebbe possibile fare una sperimentazione sul reddito minimo garantito e avviare un piano del lavoro e di investimenti in istruzione e ricerca. Una manovra da 26 miliardi all’insegna della giustizia sociale. Cambiare è possibile, basta volerlo.


A settembre 2013 la disoccupazione in Italia ha superato il 12%, quella giovanile il 40%. Dopo anni di recessione, le indicazioni che arrivano dal governo sembrano a senso unico: dobbiamo continuare a stringere la cinghia e accettare i piani di austerità e i vincoli macroeconomici imposti dalla Troika e dall’Ue. Il mantra ripetuto quotidianamente è che non ci sono alternative: è l’Europa che ce lo chiede. Come se l’Europa non fossimo anche noi. Come se l’Italia non potesse e dovesse giocare al contrario un ruolo da protagonista per chiedere una radicale inversione di rotta nelle politiche economiche, fiscali e monetarie dell’Unione Europea. Dopo due anni di austerità, non solo il paese è in ginocchio da un punto di vista sociale e produttivo, ma anche il rapporto debito/Pil continua a peggiorare. Dal 120% del 2011 abbiamo sforato il 130%, e in termini assoluti la soglia dei 2.000 miliardi di euro. L’andamento è lo stesso per tutti i paesi, e in particolare quelli del Sud Europa, costretti negli ultimi anni a passare dalle forche caudine dell’austerità.Misure non solo devastanti dal punto di vista sociale, ma nocive anche da quello macroeconomico. A segnalarlo è lo stesso Fmi che nelle parole dei media è arrivato a fare un “clamoroso mea culpa”: aggiustamenti fiscali, ovvero tagli alla spesa pubblica, nella maggior parte dei paesi provocano una caduta del Pil più veloce della riduzione del debito.
Ancora a monte, il discorso sulla riduzione del rapporto debito/Pil avrebbe un qualche senso se l’attuale situazione europea e italiana in particolare fosse legata a un “eccesso” di welfare e a uno Stato spendaccione e non, invece, all’onda lunga della crisi esplosa con la bolla dei subprime negli Usa nel 2008 e a un’Europa schiacciata su una visione mercantilista e subalterna alle dottrine neoliberiste. Un’Europa dei mercati, della moneta unica e della libera circolazione dei capitali senza un’Europa sociale, fiscale e dei diritti.
Quella della Troika è una risposta sbagliata a una diagnosi ancora più sbagliata. Non è vero che c’è un eccesso di welfare. Non è vero che la crisi è colpa delle finanze pubbliche. Non è vero che i Paesi del Sud Europa hanno le maggiori responsabilità. Non è vero che il rapporto debito/Pil è il parametro di riferimento da tenere sotto controllo. Non è vero che i piani di austerità funzionano per diminuire tale rapporto. L’austerità è il problema, non la soluzione. Eppure da parte dei burocrati europei, a metà 2013, nessun ripensamento, nessuna alternativa. Si continua ad applicare una teoria economica fallimentare con un’ostinazione che rasenta il fanatismo.
L’obiettivo di fondo diventa allora rispettare parametri del tutto arbitrari, ma che sembrano scritti nella pietra. Dati tali obiettivi, le variabili su cui giocare sono il welfare, i servizi essenziali, i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. Un dogma a senso unico che plasma le politiche economiche e ancora prima il linguaggio e l’immaginario collettivo. Gli impegni europei non si possono rimettere in alcun modo in discussione, ma per le spese sociali il ritornello è che “non ci sono i soldi”. Un’espressione che lascia intendere come tali spese siano da considerare un “lusso”, da finanziare unicamente se le risorse sono sufficienti, in caso contrario da sacrificare sull’altare dei diktat dei mercati finanziari.
Occorre chiarire da subito che tali obiettivi sono semplicemente irrealizzabili, a maggior ragione in questa fase di crisi, senza portare a un collasso del tessuto produttivo e sociale del nostro paese. Deve essere il gigantescocasinò finanziario che ci ha trascinato nella crisi a sottoporsi a rigide misure di austerità, non cittadini, lavoratrici e lavoratori che hanno già pagato, diverse volte, per una crisi nella quale non hanno alcuna responsabilità.
Ma ammesso e non concesso che si vogliano accettare i vincoli e le imposizioni della Troika, non è comunque vero che “non ci sono i soldi”. Con la legge di stabilità il governo propone al Parlamento e al paese delle scelte ben precise su come allocare le risorse pubbliche, ovvero i soldi delle nostre tasse. Scelte che hanno impatti di enorme rilevanza sulle nostre vite.
Dal 2001 la campagna Sbilanciamoci! mostra che delle decisioni radicalmente differenti sarebbero possibili, sia dal lato delle entrate, sia da quello delle uscite. Un sistema fiscale improntato a una reale progressività, come previsto dalla nostra Costituzione ma sempre più spesso smentito dai fatti. Maggiori spese destinate ai diritti, la pace, l’ambiente.
È quello che vogliamo mostrare anche quest’anno con il Rapporto 2014 e le decine di proposte che, numeri alla mano, mostrano un differente indirizzo di politica economica.
La nostra manovra è di 26 miliardi di euro, un importo decisamente consistente rispetto a quello previsto dal governo. Perché siamo convinti che nell’attuale situazione non è possibile limitarsi a piccoli interventi di facciata. Occorre operare una redistribuzione della ricchezza nel nostro paese. Occorre prendere i soldi dove ci sono, e impiegarli dove sono necessari.
Non è solo una questione di maggiore giustizia sociale: ridurre le inaccettabili diseguaglianze di reddito e ricchezza in Italia è un passaggio fondamentale per rilanciare la domanda e per uscire dall’attuale depressione economica. Non per ripartire inseguendo la crescita illimitata dei consumi, ma per uno sviluppo qualitativo, per un piano di investimenti di lungo periodo per una riconversione dell’economia in direzione di una reale sostenibilità economica e sociale.
Per andare in questa direzione, proponiamo quindi una patrimoniale, una tassazione sui capitali scudati, di migliorare la tassa sulle transazioni finanziarie, di bloccare le grandi opere, di tagliare le spese militari, i finanziamenti alla scuola e alla sanità private e ai Centri di identificazione ed espulsione. E proponiamo di usare tali risorse per una sperimentazione sul reddito minimo garantito, per avviare un piano del lavoro, per gli investimenti nell’istruzione, nella ricerca, nella cultura, nelle politiche di assistenza e di inclusione sociale, nella tutela dell’ambiente e dei beni comuni, nella mobilità sostenibile, nel rilancio dell’edilizia popolare pubblica e nel sostegno alle forme di altraeconomia, dalla finanza etica ai Distretti di economia solidale.
La nostra è una manovra che assume come priorità la lotta alle diseguaglianze. Una manovra che va in direzione diametralmente opposta a quella del governo, che garantisce enormi sconti sulle multe che devono pagare i gestori di slot-machine e propone una “valorizzazione” del patrimonio pubblico per fare quadrare i conti. In un emendamento il Pdl – è bene ricordarlo, un partito al governo – chiede di vendere le spiagge. Il premier Letta ha annunciato un piano di privatizzazioni da 20 miliardi in tre anni. Dopo i disastri delle passate privatizzazioni (pensiamo a Alitalia, Ilva, Telecom solo per fare alcuni esempi) invece di pensare a un piano industriale e di rilancio dell’occupazione, si continua con la stessa ideologia. Svendendo le ultime partecipazioni ai mercati finanziari per fare cassa. Proseguendo sulla stessa strada di disuguaglianze, della finanziarizzazione e del declino del sistema produttivo che ha caratterizzato gli ultimi anni. Per questo abbiamo deciso, anche nel rapporto di quest’anno, di mostrare che un percorso diverso sarebbe possibile.

La nostra manovra di 26 miliardi di euro si chiude con un saldo praticamente nullo. Non prendiamo per buone le ricette che ci arrivano da questa Europa, a partire dall’assurdità di cambiare la nostra Costituzione per inserirvi il pareggio di bilancio. Al contrario. Chiediamo un impegno forte dell’Italia, per chiedere all’Europa un radicale ribaltamento delle priorità. Nello stesso momento questo cambiamento di rotta può e deve partire dalle politiche nazionali. “È l’Europa che ce lo chiede” è una foglia di fico sempre più improbabile e improponibile. Altre scelte sarebbero possibili da subito anche qui in Italia, se ci fosse la volontà di attuarle e di intraprendere una differente politica economica. Per un’Italia capace di futuro.

mercoledì 6 novembre 2013

Accorinti, la Costituzione rivendicata!!

di Alfio Nicotra -  

Due generali che fuggono davanti ad una bandiera che riporta un articolo della Costituzione sulla quale, in teoria, avrebbero giurato fedeltà. Un Ministro del governo Letta/Alfano , Giampiero D’Alia, che definisce demenziale l’esposizione su una bandiera dello stesso articolo della Costituzione, pretendendo che chi l’ha esposto, il sindaco di Messina Renato Accorinti, chieda scusa alle Forze Armate.
Sembra di rivivere un refrain degli anni 60 quando altri ministri, allora scudocrociati, parlarono di alto tradimento per la visita di un altro sindaco , Giorgio la Pira, anch’egli siciliano ma primo cittadino di Firenze, in casa del “nemico” vietnamita. D’Alia ricorda gli strali contro don Milani e la sua “lettera ai cappellani militari” o l’indignazione degli Stati Maggiori che costrinsero Padre Ernesto Balducci a lasciare la Rai e Firenze, per ricevere asilo nella diocesi di Fiesole. Passano gli anni, ma l’indignazione militarista ha lo stesso motivo, quasi come un passo cadenzato. Ad Accorinti non si perdonano diverse cose. La prima di non aver rinnegato il suo essere pacifista ma di averlo incarnato fin sotto la fascia tricolore di sindaco. Non come il governatore Crocetta che in campagna elettorale promise tuoni e fulmini contro il Muos di Niscemi e poi , una volta al potere, fare retromarcia revocando l’incarico agli avvocati della Regione Sicilia che avrebbero facilmente vinto davanti al Consiglio di Stato. “Non posso mica fare la guerra da solo contro gli Stati Uniti d’America” sembra abbia detto ad una delegazione di pacifisti per spiegare la sua ingloriosa ritirata. Non di guerra si tratta in verità, ma di una pace conseguente, coerente con le cose che si dicono e che si devono fare. Perché altrimenti la politica muore. La politica vera è quella del sindaco scalzo, della sobrietà sull’opulenza del potere, della Costituzione sulla retorica falsamente patriottica. Perché i monumenti ai caduti di tutte le guerre sono lì a gridarci il “mai più alla guerra”, affinché non si smarrisca la memoria di giovani generazioni a cui è stato proibito di amare, di vivere, di scrivere, di camminare. Il senso stesso del monumento ai caduti non è certamente quello di chiederne dei nuovi, per nuove lastre di marmo e nuove ipocrite alzabandiera. Renato ha palesato questo grido, lo ha ricordato con le parole del più amato Presidente della Repubblica con il suo “svuotiamo gli arsenali, riempiamo i granai”. Ecco l’altra cosa che non si perdona ad Accorinti, l’aver riportato a galla nella memoria collettiva un inquilino del quirinale le cui parole sono diametralmente opposte a quello dell’attuale. Napolitano – forse tra i più reazionari Presidenti dell’Italia repubblicana – proprio ieri prendeva parola contro ogni tentativo di ridimensionare le spese e le missioni militari. Come già successo sugli F35 con una tempestività “guerriera” ha convocato per giovedì il Consiglio Supremo di Sicurezza proprio perché al Parlamento arrivi il diktat militarista. In questa Italia Pertini è una eresia, è motivo d’indignazione istituzionale. “I militari sono oggi delle persone che lavorano per evitare la guerra, per interporsi tra coloro che vogliono farla” ha dichiarato proprio ieri il ministro Mauro. Così dovrebbe essere secondo la nostra Costituzione, ma è veramente così? In Iraq per due volte in un decennio non ci siamo interposti ma abbiamo partecipato ad una guerra di aggressione. In Kossovo eravamo talmente per l’interposizione che bombardavamo Belgrado e Novi Sad e a terra appoggiavamo l’Uck che fine ad un mese prima era nella black list delle organizzazioni terroristiche. In Afghanistan quale sarebbe il nostro ruolo d’interposizione? In Somalia abbiamo aperto le camere della tortura e ci siamo schierati con una delle frazioni in campo. In Libia i nostri bombardieri erano forse schierati per impedire il contatto tra Gheddafi ed i ribelli? Ma ad Accorinti non si perdona anche di aver svelato l’ipocrisia della “festa della Vittoria” proprio alla vigilia delle celebrazioni per i 100 anni della I° guerra mondiale. L’inutile strage, come la definì il Papa dell’epoca, ci verrà dipinta come il coronamento del Risorgimento invece di una colossale macelleria fatta per ingrassare i profitti della borghesia capitalista. In quella guerra, esattamente come le attuali, l’Italia si ritrovò aggirando il voto del Parlamento – contrario all’ingresso nel conflitto- con il fatidico Patto di Londra.
Anche un liberale come Giolitti che sosteneva che “con la pace l’Italia ci avrebbe guadagnato parecchio” deve essere seppellito sotto le verità ufficiali. Per far dimenticare che fu nel fuoco di quella carneficina che dalle menti degli umani e dagli interessi più retrogradi della borghesia di allora , che vennero forgiate le avventure totalitarie del fascismo e del nazismo.
Anche per questo grazie di cuore a Renato Accorinti, insegnante di educazione fisica, per la sua straordinaria lezione di storia.
 

lunedì 28 ottobre 2013

L'ex colorificio è stato sgomberato. Manifestazione il 16 novembre.

Da Il Manifesto di Roberto Ciccarelli.

L'ex colorificio di Pisa, occupato il 20 ottobre 2012, è stato sgomberato ieri dopo 9 ore e 10 minuti di resistenza pacifica. Lo spazio dell'ex fabbrica di vernici, rigenerato dalla partecipazione di migliaia di persone in una moderna agorà, è tornato ad essere il regno di topi e piccioni. Quest'area di 14 mila metri quadri, a due passi dalla Torre pendente, rischia di essere stravolta da una speculazione che la trasformerà in una zona residenziale. Contro questo progetto si sono opposte le trenta associazioni che per un anno hanno dato vita all'esperimento del «municipio dei beni comuni». Lo sgombero è stato ordinato il 20 settembre scorso dal Tribunale di Pisa ed è iniziato alle 8,20 di ieri alla presenza del questore Gianfranco Bernabei. Nella notte si erano barricate all'interno 250 persone. Dopo avere scardinato il portone d'ingresso, la lavagna del corso d'italiano per i migranti è stata portata sulla strada. La polizia è entrata nell'aula delle lezioni, mentre una delle volontarie svolgeva la lezione su come si ottiene un permesso di soggiorno in Italia. Poi è toccato agli artigiani sgomberare i loro attrezzi e macchinari da uno dei vasti capannoni che sono stati trasfigurati nell'aspetto e nell'uso. Subito dopo è venuto il turno degli «equilibri precari», un gruppo di arrampicatori che ha costruito con le proprie mani una gigantesca parete, l'unica in città, per esercitare uno sport sempre più popolare. Quando la polizia si è presentata erano ancora appesi al soffitto. Dopo la ciclofficina, è arrivato il turno dell'«aggeggificio», la stanza più sognante di quella società parallela che è diventato l'Ex colorificio. Il momento più simbolico della giornata è stata una lezione sulla «scienza della pace». La Digos ha aspettato che terminasse prima di accompagnare tutti fuori. 

Lo sgombero è scattato dopo il rifiuto del sindaco Marco Filippeschi (Pd, sostenuto da Sel di Nichi Vendola) di intavolare un'ultima trattativa, sollecitata dallo stesso Questore. In una nota, il Comune si è detto disponibile a «creare un confronto fra le associazioni e la proprietà privata interessata, in condizioni che garantiscano il rispetto della legalità». L'ente locale respinge «il tentativo di addossare al sindaco e alla sua giunta l'iniziativa dello sgombero in atto per iniziativa della questura». Questa uscita è stata attaccata dagli attivisti sui social network e su radio Roarr, la web-radio sgomberata in diretta proprio come Radio Alice a Bologna nel 1977. Per loro il comune non ha mai valutato l'offerta di collaborazione giunta da giudici costituzionali, giuristi e intellettuali come Paolo Maddalena, Stefano Rodotà, Salvatore Settis, Ugo Mattei o Maria Rosaria Marella. In un appello pubblicato da Il Manifesto avevano invitato l'amministrazione a riconoscere l'ex colorificio come «bene comune» e a sperimentare nuovi modelli di proprietà collettiva. Anche l'allenatore del Pisa Calcio Pino Pagliari ha dato la sua solidarietà a dimostrazione del consenso trasversale di questa esperienza. 

Dopo un corteo che ha attraversato la città, gli attivisti del «municipio dei beni comuni» hanno montato un'«acampada» in piazza XX settembre di fronte alla sede del comune. Il 16 novembre è stata annunciata una manifestazione nazionale a Pisa.

giovedì 24 ottobre 2013

LA FONDAZIONE MONTEPASCHI NOMINA SEGRETARIO UN IMPUTATO


Ampugnano, il Pd s’arrocca: no parte civile.

Dal Fatto Quotidiano,
di Daniele Martini.

Se continua così prima o poi a Siena eleveranno agli altari gli imputati per lo scandalo del minuscolo aeroporto di Ampugnano, compresol'ex presidentedelMonte deiPaschi, Giuseppe Mussari.
Laprima udienza del processo era fissata per oggi,anche sesono sorti problemi per unerrore nella notifica di unatto. Quelche sorprendeè ilclima cheaccompagna il dibattimento. Un clima surreale. La banca, la Camera di Commercio, la Provincia e il comune di Siena, il piccolo comune di Sovicille dove lo scalo materialmente si trova,cioè i soci della società Aeroporto di Siena (Ampugnano), danneggiati dalla brutta storia della privatizzazione e del mancato ampliamento della struttura, con ilprocesso avrebbero avuto l'opportunità e forse l'obbligo morale di costituirsi parte civile per essere risarciti dei danni subiti. Ma tra la sorpresa generale non l'hanno fatto e non hannointenzione di farlo. Ufficialmente perché dicono di voler aspettare l'esito del dibattimento. Ma tutti sanno che questa è solo la foglia di fico.
LA VERITÀ è che dal sindaco diSiena, Bruno Valentini, a quello di Sovicille, Alessandro Masi, dal presidente della Provincia, Simone Bezzini, al presidente della Camera di commercio, Massimo Guasconi, tutti rigorosamente Pd, non vogliono mettersi né contro Mussari né controil partito che con il solito contorno di giri massonici ha gestito la faccenda. Tra gli imputati e i rappresentanti delle istituzioni danneggiate è scattata, insomma, una specie di solidarietà di casta.
Dal Monte dei Paschi, dove il potere piddino è in fase calante, ma non scomparso, lanciano addirittura un segnale che sa tanto di voglia di impunità. La Fondazione affidata da poco più diun mese alla vicepresidente diConfindustria, Antonella Mansi, tra i cento candidati disponibili per la carica di segretario della Deputazione amministratrice ha scelto, guarda caso, uno degli imputati dello scandalo.
E non un imputatodi secondo piano, ma Lorenzo Biscardi, nominato dal Monte dei Paschi proprio responsabiledella procedura per la valutazionedell'offerta di privatizzazione dell'aeroporto. Mentre il sindaco di Siena che dovrà difendere in tribunale la sua elezione dal sospetto di nullità,dovendo scegliersi unavvocato ha voluto Fabio Pisillo, lo stesso preso da Mussari per Ampugnano.
Tra gliimputati c'è anche l'ex presidente dell'aeroporto, Enzo Viani, massone locale tra i più in vista, della cordata di Stefano Bisi, capo del Collegio dei maestri venerabili della Toscana, candidato alla carica di Gran Maestro della massoneria italiana,caporedattore del Corriere senese.C'è poi la professoressa Luisa Torchia, giàsegretario generale di Astrid, la fondazione di Franco Bassanini, presidente dellaCassa depositi e prestiti, fino a qualche tempo fa assai coinvolto nelle vicende senesi.
La Torchia ai tempi dell'affare dell'aeroporto era consulente del Monte e consigliere della Cassa che insieme alle Casse depositi francese e tedesca controllava il fondo Galaxy, favorito secondo l'accusa nella selezione per Ampugnano.
Selezione seguita proprio dallaTorchia.

martedì 22 ottobre 2013

Per le TV sono tutti antagonisti!!

 Da Il Manifesto | Autore: Roberto Ciccarelli

Un fiume di ragazzi, migliaia di senza casa, i movimenti contro le grandi opere, le associazioni dei beni comuni sfilano pacificamente per le strade di una città blindata e si accampano nella piazza di Porta Pia. Pochi incidenti isolati contro il ministero dell'Economia. E per le tv sono tutti «antagonisti» 
È stato un risultato inaspettato e incontestabile. I movimenti per il diritto all'abitare, i No Tav e i No Muos, quello dei migranti e dei rifugiati che chiedono l'abolizione della legge Bossi-Fini, i sindacati di base (Usb e Cobas), le reti antagoniste dei movimenti sociali, e anche quelle degli altri centri sociali, entrambe presenti in forze ieri a Roma al corteo della «sollevazione generale», hanno superato una prova complicata, gestendo in maniera dura ma in fondo limitato un «assedio» alla Cassa Depositi e Prestiti e ai ministeri dell'Economia e delle Infrastrutture che poteva trasformarsi in un'ecatombe politica e in una mattanza di giovani, famiglie occupanti e migranti. Questo può essere un primo passo verso una politica contro l'austerità, che ha chiare basi sociali e mette al centro la richiesta del blocco degli sfratti per morosità, la riforma del Welfare e la richiesta di un reddito minimo. Potrebbe essere questo un primo, serio, tentativo per superare lo choc provocato dalla sconfitta politica del 15 ottobre 2011 che hanno fatto implodere il movimento, mentre negli Stati Uniti nasceva Occupy Wall Street, in Spagna si affermavano gli indignados e in Italia ci si è rinfacciati il risentimento e le responsabilità. 

Settantamila persone, forse anche di più, hanno partecipato al corteo della «sollevazione generale», parola che ha acquisito un nuovo significato. Erano in molti fino a ieri mattina, alla partenza di un corteo possente, allegro, cosmopolita a temere scontri all'ultimo sangue con le forze dell'ordine. In serata, all'arrivo a Porta Pia, la «sollevazione» è stata intesa come «sollievo», ma anche come una presa di parola estranea al desiderio mimetico che tiene in ostaggio i movimenti italiani rispetto a quanto si muove all'estero. Da oggi, forse, si potrà cambiare registro, e non dire che bisogna fare come negli Stati Uniti o come in Spagna «perché in Italia non può succedere niente». 

I segnali di un nuovo, tremendo fallimento, c'erano tutti, a cominciare da una campagna mediatica criminalizzante, ricavata da veline di questura o da «rapporti dell'intelligence» che sin dal mattino, dal sito dell'Huffington Post ad esempio, preannunciava l'incredibile, surreale, uso da parte dei manifestanti inevitabilmente «violenti» di «macchine idropulitrici» contro gli agenti in servizio. La scena che invece si è presentata a piazza San Giovanni è stata quella di una marea umana di almeno 15 mila persone in testa al corteo, quelle che vivono nelle sessanta occupazioni di palazzi pubblici abbandonati, residence e hotel al centro come nelle periferie della Capitale. Uno spettacolo di umanità commovente, orgogliosa, che accusa l'ipocrisia delle larghe intese con il cartello di alcuni migranti ripreso sui social network: «Scusate se non siamo affogati» a Lampedusa. Rivendica con gli eritrei, i somali, i maghrebini, i peruviani, gli africani, i rom la riscrittura di tutti i trattati europei sull'immigrazione, il cosiddetto «Dublino 2», dell'efferata Bossi-Fini e della sua genealogia securitaria che risale alla precedente legge Turco-Napolitano. Chiede il blocco degli sfratti, un piano casa per affrontare in maniera sistematica una tragedia della crisi: gli sfratti e i pignoramenti. E, infine, di cancellare le «grandi opere», a partire dall'odiata Tav Torino-Lione, di rinunciare ai «grandi eventi» sui quali viene costruita l'economia nazionale (dalla più visibile Expo 2015 a Milano alle mega-manifestazioni sportive o culturali), redistribuendo risorse in base a criteri di giustizia sociale. 
Strappato il velo della disinformazione, il corteo della «sollevazione» ha assunto il profilo più netto di una società, tendenzialmente maggioritaria nel sentire comune, che inizia a riconoscersi a partire dalla vita negata, da un mutuo che non può essere pagato a causa della perdita di un lavoro o di una precarietà che non lascia tregua con poche centinaia di euro al mese, quando va bene. Una «sollevazione» che non ha alcuna rappresentanza in parlamento, sia essa «grillina», «legalitaria», «anti-berlusconiana» e nemmeno di «sinistra». Questa è la nuova questione sociale che, a cinque anni dall'inizio della crisi, sta provando a darsi una rappresentanza autonoma. 

Ci sono state due «sanzioni». La prima, la più dura, all'ingresso del Tesoro in via Quintino Sella dove a più riprese il cordone composto da quattro camionette della Finanza è stato bersagliato da petardi, bottiglie, sassi a cui è stato risposto con una carica di allegerimento da parte dei Carabinieri. La seconda è stata contro il consolato tedesco in via San Martino della Battaglia. I manifestanti le hanno intese come azioni contro le politiche dell'austerità che producono, in Italia come in Germania, la schiavitù dei contratti a termine o dei «mini-job». 

All'«acampada» serale, Paolo Di Vetta dei Blocchi precari metropolitano è stravolto, ma sollevato: «Un movimento senza partiti e con i soli sindacati di base ha costruito un corteo di cui avevamo bisogno. Adesso deve arrivare il blocco degli sfratti, un piano casa sugli alloggi popolari e la promozione del riuso nelle città». «Per una settimana hanno parlato di una manifestazione pericolosa - afferma Guido Lutrario (Usb) - adesso vogliamo soluzioni anche sulle politiche abitative». In serata, il vice-sindaco di Roma Luigi Nieri (Sel) ha invitato il movimento per la casa ad un tavolo con il ministro dei Traporti Maurizio Lupi a cui parteciperà il sindaco Ignazio Marino. È il primo segnale che questo movimento può iniziare a incidere sui territori.

venerdì 30 agosto 2013

La Toscana al sesto posto in Italia per la cementificazione

Speculazione edilizia e corruzione ambientale: nel 2012 rilevate 474 infrazioni, 622 persone denunciate e arrestate.
Guai a dirlo ai politici: a sentirli i loro piani regolatori sono sempre a volume zero e senza rischi infiltrazioni illecite. Ma la realtà è un’altra e dice chiaramente che nessuno – tantomeno la Toscana – è immune: le coste toscane sono da sempre ambite dalle lobby del cemento, sia autoctone che  provenienti da fuori regione, e  soprattutto quelle di maggior pregio, sono sempre state una naturale attrattiva per speculazioni edilizie di ogni tipo, anche fuori legge.  Ultima, in ordine di tempo, è l’Elba: meta ambita per residence, alberghi e seconde costruzioni, si presenta come la frontiera del cemento.
Un interesse illegale confermato dai dati 2012  del Rapporto Ecomafia di Legambiente sul ciclo del cemento che vede la Toscana al sesto posto,  tra le regioni più colpite con 474 infrazioni, 622 persone denunciate e arrestate e 90 sequestri subito dopo le quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa ed il Lazio. A farne le spese, come dimostrano le indagini passate e recenti, sono infatti principalmente l’Arcipelago Toscano, l’Argentario e la Versilia.
Tutti i numeri sulla cemento Spa sono stati presentati a Festambiente, festival nazionale di Legambiente in corso di svolgimento a Rispescia nel grossetano. Usano la forza dell’intimidazione e della minaccia, prediligono il riciclaggio per incrementare i profitti e presentarsi con il volto “seducente e affascinante” dei finanziatori.. Così operano le mafie in Toscana, in particolare i clan della camorra e della ‘ndrangheta La chiamano “delocalizzazione” e in Toscana è diventata triste realtà, soprattutto nel ciclo del cemento.
«Il capitale “nero”- denuncia Legambiente – finisce nell’edilizia, nelle ditte aggiudicatarie degli appalti, indotto e subappalti compresi. Non è solo la camorra, purtroppo, ad aver messo “occhi e mani” sulla Toscana. Secondo gli investigatori della Dna anche la ‘ndrangheta ha scelto questa regione per tentare il riciclaggio di denaro di provenienza illecita. Nell’ultimo periodo i Crea di Rizziconi, gli Alvaro di Sinopoli, ma anche i Bellocco di Rosarno, i Facchineri, i Gallace e i Mancuso hanno operato più o meno direttamente sul territorio».
A rendere ancora più preoccupante la situazione è l’interesse, già manifestato dalle organizzazioni mafiose, di investire in questa regione, sia nel settore immobiliare che in quello turistico, i proventi delle loro attività illecite. Un indicatore di questa anomali arriva dai dati sulle Operazioni “sospette” indicate nella Relazione della Banca d’Italia risalenti 2012: secondo i dati dell’Unità di informazione finanziaria (Uif) le segnalazioni di operazioni sospette complessivamente pervenute all’Unità di Informazione Finanziaria della Banca d’Italia pervenute dagli intermediari finanziari vede in Toscana 4386 operazioni, seconda regione dell’Italia Centrale dietro l’Emilia Romagna, con un aumento del 35% rispetto all’anno precedente ( erano 3546 nel 2011).
«Sono dati, inchieste e relazioni da non sottavalutare – ha dichiarato Angelo Gentili, segreteria nazionale Legambiente e coordinatore nazionale Festambiente-  la Toscana ha gli anticorpi necessari per respingere gli interessi della criminalità. È necessario lavorare bene, presto e insieme.Occorre combattere il fenomeno con l’informazione e rendere più trasparenti possibili le procedure, con un’attenta verifica delle ditte e facendo attenzione ai subappalti».
L’accentuata dimensione globale delle attività di ecocriminali ed ecomafiosi, la diversificazione delle loro attività illecite, il ricorso sistematico a espedienti tipici della criminalità economica si accompagnano in maniera sempre più evidente con l’altra piaga che affligge il nostro paese e minaccia la nostra democrazia: la corruzione ambientale. Nel complesso, dal 1° gennaio 2010 al 10 maggio 2013, ultimo aggiornamento effettuato, in Italia sono state ben 135 le inchieste relative alla corruzione ambientale, in cui le tangenti, incassate da amministratori locali, esponenti politici e funzionari pubblici, sono servite a “fluidificare” appalti e concessioni edilizie, varianti urbanistiche.
Le indagini si sono concentrate nel 40% dei casi nelle quattro regioni dove più forte è la presenza dei clan (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia), confermando l’intreccio strettissimo, in quei territori, tra mafia, corruzione e illegalità ambientale. A guidare la classifica come numero d’inchieste è la Lombardia (20) e al quinto posto della classifica, dopo Campania, Calabria e Sicilia, figura la Toscana con 12 inchieste pari al 8,9% del totale, 244 persone denunciate o arrestate e 41 sequestri. E sullo sfondo si intravede la  minaccia delle organizzazioni criminali straniere.
«Operano nella zona costiera della Versilia soggetti di nazionalità russa – si legge nella Relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario 2013 – le cui operazioni economiche, per cospicui investimenti immobiliari, potrebbero riferirsi ad attività di riciclaggio o di reimpiego di somme di provenienza illecita ma, allo stato, ancora di difficile esplorazione in assenza di strumentazioni normative adeguate». 
da GreenReport.

mercoledì 29 maggio 2013

Quel “No” di Bologna

di Vito Meloni -
Per chi, come noi del PRC, si è sempre battuto per la difesa della scuola pubblica e per il rispetto della nostra bistrattata Costituzione, il risultato del referendum di Bologna è motivo di grande soddisfazione per più di una ragione. Innanzitutto per il dato in sé: chiamati a pronunciarsi sulla destinazione dei soldi pubblici – alla scuola dell’infanzia pubblica o a quella privata, nella quasi totalità confessionale – i cittadini bolognesi hanno dato una risposta netta ed inequivocabile, pronunciandosi al 60% contro i finanziamenti alle scuole private.
Non era per nulla scontato. A sostenere le ragioni, e gli interessi, delle scuole private c’era un formidabile schieramento, dal sindaco Merola a tutto il PD, passando per Confindustria, la Curia, il Cardinal Bagnasco, il PdL, la Lega Nord e Scelta Civica. Con l’aggiunta negli ultimi giorni della neo-ministra della Pubblica Istruzione, Carrozza, evidentemente dimentica che poche settimane prima aveva giurato sulla Costituzione (ammesso che l’abbia mai letta…).
Uno schieramento che durante la campagna referendaria aveva dispiegato tutta la sua potenza di fuoco, non esitando nemmeno a ricorrere alla menzogna, come quella che paventava l’espulsione di ben 400 bambini dalle scuole dell’infanzia in caso di affermazione dell’opzione “A”. E che oggi è impegnato a minimizzare la portata del risultato, con i più  svariati pretesti, primo fra tutti quello della scarsa partecipazione. C’è perfino chi, come il deputato del PD Edoardo Patriarca, arriva a ribaltare l’esito del referendum, sostenendo che solo il 15% (il dato corretto è 17%) dell’intero corpo elettorale, dunque una esigua minoranza, si sarebbe pronunciato per l’opzione “A” e che «i bolognesi hanno capito che la sussidiarietà è la chiave di volta». Ragionamento bizzarro, che non mette in conto che, applicando questo singolare metodo di calcolo, l’altra opzione è stata scelta da una minoranza di gran lunga più esigua, appena l’11%!
In realtà, il fatto che in tempi di astensionismo dilagante il 30% dei bolognesi sia andato a votare in un referendum consultivo che, è bene ricordarlo, non prevede il raggiungimento del quorum per essere valido, non va sottovalutato. Soprattutto alla luce dei molti ostacoli che, con lucida determinazione, sono stati frapposti alla partecipazione. A cominciare dall’azione del sindaco Merola che ha pervicacemente negato l’abbinamento della consultazione referendaria con le elezioni politiche, come richiesto dal comitato promotore. Una sorta di election day su scala locale che avrebbe fatto risparmiare quattrini, giusto per restare in tema di risorse economiche, e che avrebbe sicuramente favorito una partecipazione ben più ampia. Ma forse era proprio questa che si temeva, visto che erano state raccolte ben 13.000 firme in soli tre mesi per la presentazione dei quesiti. Per dare un’idea delle proporzioni, è come se per un referendum nazionale si raccogliessero due milioni e mezzo di firme! Numeri assolutamente significativi, tanto più in un Paese in cui l’opinione di poche centinaia di persone raccolta attraverso un sondaggio può perfino decidere le sorti di un governo…
Ora l’impegno di quanti hanno contribuito al raggiungimento di questo straordinario risultato deve proseguire, per fare in modo che la volontà dei cittadini venga rispettata, vigilando sulle possibili furbizie di chi, come il sindaco Merola, si propone addiritttura di «conciliare i due schieramenti»!
In ogni caso, al di la delle cifre, il referendum di Bologna ci consegna un chiaro dato politico: quando i cittadini sono chiamati a pronunciarsi su quelli che vengono definiti “beni comuni”, come è stato per l’acqua, oppure a rivendicare le garanzie per l’esercizio di un diritto universale costituzionalmente garantito, come nel caso di Bologna, la risposta è chiara ed univoca.
Che questo avvenga proprio nella città e nella regione che sono state le avanguardie nella rottura dell’argine costituzionale che impediva, e ancora dovrebbe impedire, i finanziamenti pubblici alle scuole private – il «senza oneri per lo stato» dell’articolo 33 – rende questo risultato ancora più significativo. È a Bologna, infatti, che, già a metà degli anni ’90, si adotta la convenzione che garantisce il finanziamento alle scuole dell’infanzia private. È da lì che è partita l’offensiva politico-culturale che porterà dopo pochi anni alla Legge di parità, sotto il cui ombrello il finanziamento alle scuole private assumerà negli anni successivi e fino ai nostri giorni dimensioni sempre più consistenti.
Non solo i 530 milioni di euro del bilancio statale ricordati pochi giorni fa dalla ministra Carrozza che, con incredibile leggerezza, li ha definiti una piccola somma a confronto di quanto lo Stato spende per la scuola pubblica. É un flusso che passa attraverso mille rivoli, a tutti i livelli, dalle Regioni alle Provincie, fino ad arrivare al più piccolo dei Comuni, a volte con provvedimenti espliciti, altre in forme sotterranee. Basti pensare al sistema scolastico della Provincia di Trento, quello cui l’ex ministro Fioroni considerava un modello da esportare, nel quale, con il pretesto dell’autonomia, i finanziamenti possono coprire anche le spese per arredi e strutture, quasi che quello fosse un territorio affrancato dal dovere di rispettare la Costituzione Italiana. O al finanziamento alle “sezioni primavera” – maldestro tentativo di correggere gli anticipi nelle iscrizioni alla scuola dell’infanzia introdotti dalla riforma Moratti – gestiti dalle Regioni e assorbiti per oltre il 90% dalle scuole private, tanto per cambiare nella quasi totalità confessionali.
Il risultato del referendum di Bologna segna una netta inversione di tendenza.
Sta alle forze della sinistra, quella vera, ai movimenti, alle associazioni, ai tanti cittadini che hanno a cuore il destino della scuola pubblica e la difesa intransigente della Costituzione raccogliere il testimone e rilanciare la battaglia contro il finanziamento delle scuole private. In qualunque forma esso avvenga.

venerdì 29 marzo 2013

Divise sporche ministro debole

di Mauro Palma-

Indegni d’indossare la divisa. Al di là di ogni retorica, la divisa di un agente di polizia indica il suo agire in nome della collettività, del rispetto delle istituzioni e delle leggi. Gli iscritti a un sindacatucolo di polizia che ancora ieri hanno manifestato sotto casa di Patrizia Aldrovandi non rappresentano il sentire di una società che è rispettosa verso le vittime e che è densa di quella pietas e di quel senso di giustizia che fanno sì che una madre non debba essere costretta a mostrare la foto del figlio morto, ucciso da alcuni agenti, per difendere se stessa dagli attacchi verbali e suo figlio dagli attacchi al suo ricordo.Non rappresentano il rispetto delle leggi e della Costituzione, che vuole che una sentenza passata in giudicato debba essere semplicemente accolta e debba esserlo in primo luogo da chi svolge una funzione pubblica di tutela del bene collettivo.
Non rappresentano il rispetto delle istituzioni chiamate – come è stato il caso del sindaco ferrarese – a dover intervenire per tutelare una propria cittadina, vittima e aggredita dal presunto branco di supporto degli aguzzini di suo figlio. Non rappresentano la tradizione di un paese che è risorto dopo aver sconfitto la cultura squadrista che quella manifestazione esprime.
Ogni persona civile di questo paese si attende provvedimenti. Pretende che si accerti se la manifestazione era stata autorizzata e che, nel caso, il questore spieghi come sia stato possibile autorizzare una manifestazione in quel luogo, sotto quella sede. Ci si attende che il ministro degli Interni trovi le parole giuste per condannare senza minimizzare quanto avvenuto. Altrimenti il rischio di una complicità culturale altrettanto – e forse più – dannosa di quella materiale, diventerà certezza.
il manifesto 28 marzo 2013

domenica 3 febbraio 2013

C'è un'Europa che non vuole il fiscal compact. Sta a sinistra



«Rinegoziare il trattato». La proposta di Ingroia, Ferrero e Melenchon in visita a Roma

A crisi europea, risposta europea. E' Rifondazione comunista il passpartù di Rivoluzione civile per l'Europa e Ingroia sembra trovarsi a suo agio con la Sinistra europea: «Rc vuole essere la casa aperta alla sinistra europea, per intraprendere battaglie comuni da portare avanti insieme».
L'ex pm di Palermo torna nella stessa sala da cui comunicò la sua disponibilità a candidarsi e, un mese dopo, la ritrova piena un'altra volta. Quasi tutti sono attivisti ed elettori di Rifondazione comunista. Sul palco Paolo Ferrero, il segretario nazionale del Prc, e Jean Luc Melenchon, leader del Front de Gauche francese che, poco dopo la conferenza stampa corale, infiammerà il Capranica confessando di aver lasciato il Ps francese «per colpa vostra». Vostra degli italiani. «E' stato quando ho visto che nasceva il Pd. Mi sono chiesto: “diventerò come gli italiani"?». Così Melenchon ha virato a sinistra alla ricerca dell'originalità dell'esperienza dei socialiti francesi «quando eravamo alleati con i comunisti, con i verdi, per inseguire un riformismo radicale». Invece il Ps ha rinunciato a tutto questo fino a incastrarsi in ingranaggi che «impediscono ogni tipo di riformismo».
E' proprio per questo che Melenchon è venuto a Roma: per lavorare alla costruzione di un «fronte comune per rinegoziare il fiscal compact in Europa», è questo il nome dell'ingranaggio che stritola il riformismo, anche quello non radicale: 47 miliardi di tagli alla spesa pubblica ogni anno per vent'anni al netto del pareggio di bilancio. «Per farsi un'idea della cifra si pensi che l'intero servizio sanitario nazionale (mazzette comprese) costa 130 miliardi l'anno. Tagliare una cifra del genere significherà svendere il patrimonio, privatizzare i servizi, tagliare lo stato sociale e il lavoro», dirà il segretario di Rifondazione. Quello che, a pochi passi da lì, Mario Monti, ospite dell'Annunziata, chiamerà pochi minuti dopo «uno stato che pesi di meno sulle aziende».
Ingroia, Melenchon e Paolo Ferrero, introdotti da Fabio Amato, responsabile esteri Prc e del segretariato della Sinistra europea, quella roba la considerano un massacro sociale, un atto di guerra e lanciano l'idea in una conferenza stampa e poi nell'assemblea del Capranica: rinegoziaere il fiscal cmpact. «Non è un sogno, né un'utopia ma una strada percorribile per imporre all'Europa, politicamente, di abbandonare la strada del disastro imboccata e che finisce inevitabilmente per gravare sulle fasce sociali più deboli. La rivoluzione civile nasce dal basso ma ha bisogno di alleanze e solidarietà internazionali», assicura il capolista di Rc aprendo varchi per un'evoluzione delle relazioni dopo le scadenze elettorali.
«Berlusconi e Monti producono provvedimenti in un contesto di politiche europee che aggravano la crisi anziché risolverla - ricorda Ferrero - ecco perché serve una relazione politica con chi si batte contro l'austerità». «Il Partito della sinistra europea è uno degli strumenti di quella relazione - aggiunge Fabio Amato - quando lo fondammo, nel 2006, scommettemmo sulla rottura di un modello insostenibile».
Vista dalla Francia, la lista Ingroia, dunque, è tutt'altro che l'accozzaglia che vorrebbe far credere Vendola. A Melenchon non sfuggono le connessioni con la révolution citoyenne del Front de Gauche, con l'indignazione spagnola e Izquierda unida (che vola nei sondaggi al 15%) e con Syriza che pensa realisticamente a vincere le prossime elezioni in Grecia. Anche da «Monsier Ingroia», arriveranno «brutte sorprese per gli altri partiti», assicura Melenchon pensando ai 4 milioni di voti che il suo Fdg ha ottenuto alle scorse presidenziali. Quella che ritiene di avere incontrato è per lui una «nuova forza popolare», erede «dell'Italia della Repubblica, delle bandiere rosse, dell'uguaglianza». Ferrero si mostra consapevole delle possibilità: «Rivoluzione civile - spiega - non è un'operazione di tenuta ma lo spazio per la riapertura di una speranza, l'indignazione che si fa programma, la condizione perché si avverino il cambiamento e la rivolta». Uno spazio per la sinistra che, giusto poche ore prima ha visto l'ingresso di un settore di militanti, dirigenti e amministratori di Sel, «caso unico di una scissione che avviene dopo e non prima della formazione delle liste», dice Ingroia.
Immancabile la domanda a Melenchon se Hollande assomigli più a Monti (che il francese ricorda come pessimo commissario europeo) o più a Bersani. «C'è differenza adesso tra liberismo e socialdemocrazia?», si chiede anche il leader francese secondo il quale la socialdemocrazia non esiste più: «Sono social-liberali. Ogni giorno c'è qualcuno che lascia quei partiti come me, come Oskar Lafontaine in Germania. Tutta l'Internazionale socialista ha capitolato».
Quando parla del Ps francese sembra che parli dei suoi omologhi nostrani della loro «demagogia disonorevole» (parole di Ferrero), «prima votano tutto poi lanciano pietre in campagna elettorale» su quello che hanno fatto loro stessi magari stipulando accordi sottobanco. Anche Hollande ha preso voti promettendo di rinegoziare il fiscal compact poi non solo ha firmato il Trattato ma ora insiste per una diminuzione del costo del lavoro quando il problema è «il costo del Capitale». Insomma, per Melenchon, i social-liberali parlano come un disco rotto, incantato sulle teorie di Adam Smith mentre la finanza distrugge il lavoro e i diritti
.

mercoledì 30 gennaio 2013

Diamo all’Italia un governo di pace


di Flavio Lotti -





Uno dei segni più evidenti del disastro in cui siamo finiti è nella scomparsa dell’Italia dal mondo e la sua perdita di credibilità e rilevanza internazionale. La responsabilità primaria è di Berlusconi. Ma anche i tecnici del governo Monti portano pesanti responsabilità.
Oggi l’Italia è fuori dal mondo.
Una visione miope, un’agenda dettata dai grandi gruppi economici finanziari (soprattutto Eni e Finmeccanica) e una strumentazione profondamente inadeguata hanno contribuito al declino dell’Italia, l’hanno messa fuori gioco, ci hanno esposto a grandi rischi e ci hanno fatto perdere grandi opportunità.
Al punto in cui siamo non abbiamo nemmeno bisogno di richiamare i nostri valori. Per cambiare ci basta di invocare i principi del realismo politico.
Per uscire dalla crisi dobbiamo riaprire gli occhi sul mondo che sta cambiando rapidamente, riconoscere le nostre responsabilità e dotarci della strumentazione necessaria per agire responsabilmente.
Non ha più senso parlare di politica interna e di politica estera. Abbiamo bisogno di una politica radicalmente nuova.
Una politica nonviolenta fondata sui diritti umani.
Una politica che deve essere espressione di un nuovo modo di pensare le relazioni internazionali, tra gli stati e tra i popoli, di gestire i grandi problemi comuni aperti, di contribuire alla loro soluzione, di prevenire nuovi conflitti.
Lottare contro la povertà nel mondo, farla finita con le tante guerre, fermare il cambiamento climatico e proteggere l’ambiente, promuovere tutti i diritti umani per tutti, ridurre le disuguaglianze, garantire pari opportunità, costruire un’economia sociale di giustizia, costruire l’Europa dei cittadini, rafforzare e democratizzare l’Onu ci conviene! Più di quanto riusciamo ad immaginare.
Ci attende un grande lavoro.
Prima di tutto noi vogliamo introdurre un metodo nuovo. Dobbiamo imparare ad “agire come sistema paese” ovvero dobbiamo valorizzare e potenziare il contributo di tutti gli attori presenti nel nostro paese. Non è solo un problema tecnico di coordinamento. E’ l’approccio complessivo che deve cambiare. Questa è la principale innovazione che vogliamo introdurre in Italia. L’Italia dispone di un vasto tessuto di attori protagonisti di percorsi e processi di cooperazione internazionale, di pace, di solidarietà che, se realmente valorizzati, possono consentire all’Italia di re-inserirsi pienamente nella comunità internazionale che coopera.
Noi vogliamo aprire le porte del Parlamento e del governo alla società civile responsabile e agli enti locali impegnati per la pace e i diritti umani. Ci impegniamo a creare una sede permanente in cui ci sia ascolto (segnalazioni, denunce, proposte), dialogo e collaborazione sulle quattro grandi questioni del nostro tempo: lotta alla povertà, prevenzione e risoluzione dei conflitti, diritti umani e democrazia internazionale.
L’impegno di Rivoluzione Civile contro l’illegalità non conosce confini. La guerra e la povertà sono illegali. Sono vietati dal diritto internazionale dei diritti umani e noi ci batteremo in ogni sede per ripristinare il rispetto della legalità.
Vogliamo far rispettare e attuare l’Articolo 11 della Costituzione. La guerra non è uno strumento a disposizione della politica e del governo.
Vogliamo passare dalla sicurezza militare alla sicurezza umana, dalla sicurezza nazionale alla sicurezza comune.
Vogliamo fare pace con il mondo e per questo ci impegniamo a:
1. Lottare contro la miseria e la morte per fame.
2. Mettere immediatamente fine alla missione militare in Afghanistan e risarcire le vittime della guerra sostenendo le forze sane della società civile.
3. Cancellare i piani di acquisto dei cacciabombardieri F35 e rivedere tutti i programmi di acquisto degli armamenti. Tagliare la spesa militare e riorganizzare le forze armate in senso riduttivo.
4. Costruire la Comunità del Mediterraneo che trasformi quest’area di grandi crisi e tensioni in un mare di pace e benessere per tutti.
5. Costruire una nuova Europa, un’Europa dei cittadini, solidale e nonviolenta.
6. Fare pace in Medio Oriente riconoscendo a israeliani e palestinesi il diritto di vivere in pace su quella terra con gli stessi diritti, la stessa dignità e la stessa sicurezza.
7. Fare pace con l’Africa.
8. Disarmare la finanza.
9. Rafforzare l’infrastruttura internazionale dei diritti umani.
10. Salvare, democratizzare e rilanciare l’Onu.
Con lo stesso scopo ci impegniamo a:
1. Aumentare i fondi per la cooperazione internazionale.
2. Progettare e organizzare il Sistema-Italia della cooperazione internazionale approvando una nuova legge e promuovendo la cooperazione comunitaria, partecipata e diffusa.
3. Rilanciare e sviluppare il servizio civile nazionale ed europeo rendendolo accessibile a tutte le ragazze e i ragazzi che chiedono di parteciparvi.
4. Promuovere l’inserimento permanente dell’educazione alla pace, ai diritti umani e alla cittadinanza democratica glocale nei programmi scolastici di tutte le scuole di ogni ordine e grado.
5. Impegnare la Rai a fornire un’informazione che dia conto dei fatti del mondo, attenta alla vita delle persone e dei popoli anche mediante la creazione di una struttura permanente “la Rai per i diritti umani”, la creazione di una rete di uffici di corrispondenza nel mondo e l’inserimento di spazi adeguati nei palinsesti.
6. Creare le istituzioni nazionali per i diritti umani a cominciare dalla Commissione diritti umani e dal Difensore civico nazionale secondo i principi raccomandati dalle Nazioni Unite, dal Consiglio d’Europa e dall’Unione Europea.
7. Rafforzare la trasparenza e i controlli sul commercio internazionale di armi.
8. Intensificare la lotta internazionale contro le mafie e la criminalità organizzata.
9. Fare pace con il mondo che abbiamo in casa. Approvare le due proposte di legge di iniziativa popolare che riconoscono i diritti di cittadinanza delle persone di origine straniera promosse dalla campagna L’Italia sono anch’io.
10. Abrogare la legge Bossi-Fini e chiudere i CPT. Fare una nuova legge sull’immigrazione
11. Promuovere una legge nazionale per l’applicazione del diritto all’Asilo.
L’elenco delle cose che vogliamo fare continua negli appelli delle organizzazioni della società civile responsabile che ho sottoscritto. Il programma lo completiamo e lo realizziamo insieme a tutte le donne e gli uomini che vogliono assumersi una responsabilità maggiore e fare la propria parte.

martedì 29 gennaio 2013

di Piergiovanni Alleva 


Ecco le 5 aree tematiche per costruire il contesto di una normativa che deve accogliere la vera e propria riforma, collettiva e individuale, dei nostri istituti lavoristici
Sono stato sempre impegnato – ed ho scritto su questo giornale – sul fronte della progettazione legislativa e contrattuale dei diritti sociali e sulla promozione e difesa, anche per via giudiziaria, dei diritti dei lavoratori e del sindacato.


Adesso, accettando la candidatura nelle liste di Rivoluzione civile nelle prossime elezioni politiche, ancor più mi sento coinvolto a sviluppare, con questo nuovo soggetto , una politica del diritto sociale che, in coerenza con la mia passata esperienza, valorizzi e implementi una linea di radicale rinnovamento nel merito, alternativa alle disastrose politiche praticate da troppo tempo e sostenute da più parti che in teoria dovrebbero essere antitetiche.


Gli ultimi anni hanno portato un netto peggioramento della normativa e delle situazioni concrete riguardanti i diritti dei lavoratori, sul piano collettivo – rappresentanza e democrazia sindacale – e sul piano individuale – progressiva precarizzazione, caduta del potere d’acquisto delle retribuzioni, perdita di diritti e di dignità del lavoro. È necessario dunque un intervento riformatore complessivo che non si limiti alla ricostituzione dei precedenti livelli di tutela, ma li completi e li reinterpreti alla luce dei tanti mutamenti sopravvenuti.
Tuttavia, anche un’opera di riforma in senso progressivo delle regole in tema di lavoro sarebbe insufficiente se avulsa da interventi urgenti su fondamentali problemi socio-economici che caratterizzano in senso negativo l’attuale situazione.


A ben poco servirebbero anche ottime regole in tema di rapporto di lavoro in favore di chi il lavoro ce l’ha, prescindendo dalla situazione drammatica e spesso disperata di chi il lavoro l’ha perso, oppure non l’ha mai avuto, oppure, come milioni di giovani, non riesce ad inserirsi nel mondo del lavoro, ovvero ha dovuto lasciarlo per operazioni governative di pensionamento rilevatesi poi disastrose (esodati). Un programma riformatore dovrebbe riguardare anzitutto, o contemporaneamente, le problematiche ulteriori rispetto a quelle vissute da chi attualmente lavora.


Un approfondimento risulta tanto più necessario quanto più si considerino gli ambigui e a volte ipocriti slogan, orecchiabili e suggestivi, ripetuti sui temi lavoristici.
La prima rilevante parte di un programma di riforma, che definisco di contesto di una normativa del lavoro, è sintetizzata in 5 aree tematiche. In un prossimo articolo si affronterà la riforma relativa agli istituti propriamente lavoristici, con l’articolazione tra dimensione collettiva e dimensione individuale.


1) La prima riforma è l’introduzione di un reddito di cittadinanza – ovvero reddito minimo garantito che prescinde da precedenti contribuzioni previdenziali o da precedenti rapporti di lavoro. Questa prospettiva segna un vero e proprio cambio di paradigma nell’organizzazione sociale. L’istituto non ha nulla di utopistico. Esiste nella legislazione dei principali paesi europei, con caratteristiche similari che potrebbero essere utilmente messe a confronto.
Alla sua introduzione dovrebbe essere destinato in primo luogo il recupero dell’evasione fiscale, per il quale dovrebbero essere introdotte misure semplici ed efficaci, quali la pubblicazione on-line dei redditi imponibili di tutti i contribuenti, operazione già tentata nel 2008 dal ministro Visco ma bloccata dalle varie lobby di soggetti economici a rischio di evasione.


2) L’implementazione dell’occupazione giovanile è un problema prioritario. Non può essere affrontato con le misure indicate da Monti o Berlusconi: una generica decontribuzione e defiscalizzazione retributiva da cui dovrebbe meccanicisticamente discendere – ma non discende – un incremento delle assunzioni di giovani.
È necessario un intervento più complesso che veda il protagonismo delle parti sociali, incrociando ad esempio gli istituti del contratto di apprendistato riformato e del contratto collettivo aziendale di solidarietà espansivo, anch’esso rivisto e re-disciplinato. Una riduzione dell’orario lavorativo del 10% di 4 ore settimanali, opportunamente indennizzata, consentirebbe l’assunzione di centinaia di migliaia di giovani.


3) Il sistema degli ammortizzatori sociali introdotto nel nostro ordinamento fra gli anni ’80 e ’90, si è rivelato importante ed efficiente anche se ormai invecchiato: penalizza l’economia dei servizi. Il governo Monti ha semplicemente cercato di distruggere il sistema degli ammortizzatori proprio nel momento in cui la situazione si faceva più grave, con l’eliminazione dell’indennità di mobilità conseguente a crisi aziendali, nonché degli importanti meccanismi messi a punto dalla Legge Fallimentare per i casi di insolvenza e con la sua sostituzione con un istituto punitivo quale è l’Aspi.


La revisione degli ammortizzatori sociali andrebbe fatta nell’ambito della riforma dei sistemi di sicurezza sociale e in particolare all’insegna del principio di una dote di ammortizzatori concessa ad ogni lavoratore ed utilizzabile in modo flessibile a seconda dei casi, o come ammortizzatore conservativo (sospensione integrata economicamente del rapporto di lavoro) o invece come ammortizzatore risarcitorio (indennità per perdita dell’occupazione).


4) Il tema dei pensionamenti e del lavoro nella terza età va affrontato in termini nuovi ed umanistici, puntando sul principio del pensionamento parziale e progressivo, in conformità alle condizioni di salute del lavoratore e della sua visione esistenziale. In ogni caso, è assolutamente necessario rimediare al guasto enorme della riforma pensionistica di Monti, che non si è limitata a far restare di più al lavoro chi lavorava, ma ha investito chi era ormai disoccupato condannandolo ad una vita di stenti (esodati).


5) La tematica degli incentivi all’attività di impressa da un lato e della connessa responsabilità di impresa dall’altro, va affrontata con la revisione e il potenziamento di tutti gli strumenti creditizi e di altro genere, necessari ad un rilancio imprenditoriale, ma per converso con la regolazione in termini coerenti di problematiche quali appalti, attività di gruppo, esternalizzazioni, delocalizzazioni, nonché istituti di partecipazione e cogestione.

lunedì 28 gennaio 2013

Eccomi: l’impresentabile!


di Marino Andolina
Prima di tutto desidero scusarmi per l’imbarazzo che ho creato con la mia candidatura. Come altri candidati con la coscienza a posto anche se indagati (penso ai nostri indagati per disordini di piazza) non pensavo che la sola iscrizione ad un registro indagati mi escludesse dalla candidatura. 
Ho sbagliato e mi scuso. Io propongo due ipotesi: il mio ritiro dalla corsa nel modo che sarà legalmente possibile (lo farò cercando di non nuocere alla coalizione), oppure il pieno sostegno dei tre magistrati della coalizione al mio progetto di difesa della legalità. Non credo che una terza ipotesi (il silenzio) sia politicamente opportuna. Io cerco da quattro anni di trasferire una metodica salvavita negli ospedali pubblici italiani. 
Esiste una legge (DM 5/12/2006, Turco reiterata nel 2008 da Fazio) che permette di curare con cellule staminali pazienti in pericolo di vita o di aggravamento. Ho ottenuto un parere proveritate di un famoso giurista di Piacenza (Eusebi) e il parere favorevole del prof. Rasi già direttore dell’AIFA. A Trieste ho probabilmente fatto degli errori formali, non riuscendo ad avere suggerimenti legali dai cosidetti esperti del Ministero, ma tutto sommato quando ho fatto i primi trapianti italiani di midollo in età pediatrica nel 1984 ho sicuramente fatto di peggio. 
Centinaia di giovani adulti oggi camminano per le nostre strade per le scorrettezze formali che ho fatto allora facendo trapianti a Trieste, Pavia, Genova ecc. Anche a Baghdad nel 2004 abbiamo rubato le chiavi della sala operatoria per fare il primo trapianto della storia irachena, ma non me ne pento. La metodica che oggi applico su imposizione di 10 giudici  è nata a Torino e San Marino probabilmente con alcuni errori che hanno suscitato l’attenzione della Procura.
Può essere imbarazzante che il prof. Vannoni della Fondazione Stamina allora, finiti i propri soldi, abbia chiesto ad alcuni pazienti facoltosi (non ai poveri) un contributo per la produzione cellulare (non per il suo tornaconto). Si parla sempre di un sottoscala in cui avrebbe preparato le cellule; credo ci si riferisca ad un laboratorio eccezionale (costo più di un milione di euro) che aveva in un seminterrato a San Marino (San Marino è in salita e i piani terra sono seminterrati in parte). Anche se nata in maniera avventurosa la metodica funziona. Io sono testimone e ora artefice di miglioramenti sostanziali in malattie gravissime. Nella SLA per esempio che ha un grande impatto mediatico, ma ce ne sono state altre altrettanto importanti come quella della piccola Celeste apparsa su tutte le reti TV. 
Finita male la mia attività a Trieste e conseguente pensionamento ho trasferito l’attività al secondo più grande ospedale pubblico italiano, a Brescia. Prima di cominciare sono andato al Ministero (che ci ha poi indirizzato un paziente) ed all’AIFA il cui direttore f.f. ha autorizzato l’attività conoscendo perfettamente le caratteristiche del laboratorio di Brescia. Gli ispettori dei NAS e dell’AIFA  hanno invece dichiarato inadeguato il laboratorio, sconfessando la stessa AIFA, considerando quali obbligatorie delle linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità che suggerivano un tipo diverso di laboratorio, ma premettevano in prima pagina in grassetto che tali linee guida erano facoltative. 
Su questa considerazione è stata montata tutta la vicenda che è seguita, con un Ministro succube o complice di coloro che vogliono bloccare una terapia efficace. Il Ministro Balduzzi ha rifiutato un incontro richiesto da cento associazioni di malati che potrebbero giovarsi di una cura con staminali Da allora una decina di giudici del lavoro hanno imposto questa mia terapia per altrettanti pazienti.  Il problema è che noi siamo gratis (anzi Stamina paga le cure in ospedale) ma le spese legali ammontano a 4-5000 euro. Solo chi può pagare sopravvive.
Io sono stato indagato per questa attività assieme a due direttori generali e una ventina di medici, l’indagine che mi ha visto coinvolto si è conclusa alla fine del 2011 e non ho ricevuto notizia di rinvio a giudizio; poi l’indagine si è estesa nel 2012 all’attività di Brescia ma in questo filone d’indagine curiosamente il mio nome non compare. Con tutto il rispetto per l’attività legittima degli inquirenti, mi permetto di dubitare che l’accusa di somministrare farmaci pericolosi possa reggere dopo i successi registrati senza effetti collaterali. 
Posso aggiungere che negli ultimi 30 anni non c’è paziente che possa dire di avermi pagato per una prestazione. Io credo sinceramente che la coalizione di “Rivoluzione Civile”  abbia il dovere civico di sostenere questa battaglia per la legalità. Migliaia di pazienti rischiano di morire senza una cura che è risultata efficace; alcuni sono già morti e chiedono giustizia
Marino Andolina
Trieste

sabato 26 gennaio 2013

Cari amici della Cgil, ecco cosa vi dico


“Care amiche e amici della Cgil, vi scrivo per riassumere ciò che avrei detto se  fossi stato invitato ad intervenire alla vostra conferenza sul programma, al pari degli altri candidati per la Presidenza del Consiglio”. È quanto afferma, in una lettera aperta agli iscritti della Cgil, il leader di Rivoluzione Civile, Antonio Ingroia. “Rivoluzione Civile – Lista Ingroia – aggiunge – ha ben chiaro chi sono gli avversari da battere con il voto: Berlusconi, cioè la destra caciarona e impresentabile, e Mario Monti, rappresentante numero uno di quei professori in loden che hanno deciso la drammatica controriforma delle pensioni. 
Quella ‘destra perbene’ ha colpito in maniera pesantissima tutti i lavoratori e i pensionati, ma soprattutto le donne, ha creato la tragedia sociale degli esodati, ha cancellato l’art.18 ha confermato e aggravato tutte le forme di precariato. In compenso, non ha saputo mettere in campo alcun intervento che incidesse sulle fasce privilegiate, sulla Casta politica, sugli immensi sprechi ben esemplificati dalle auto blu o dalla pletora di consigli d’amministrazione clientelari. Soprattutto, non ha fatto nulla, zero assoluto, quanto a  politiche industriali di ampio respiro. Invece mai come in questo momento, nel cuore della crisi, è urgente che ci sia un governo capace di offrire al Paese un indirizzo lungimirante sui settori strategici.
Sui capitoli da cui dipende la qualità della vita e il futuro del Paese – sanità, scuola, università, ricerca – la continuità tra i governi Berlusconi e Monti è totale. Continuano i tagli lineari, le privatizzazioni striscianti, la totale precarietà. In questa plumbea cornice si sono moltiplicati attacchi sempre più profondi contro i diritti e le libertà dei lavoratori. Siamo di fronte a un assedio che sta progressivamente riportando la condizione dei lavoratori e lo stato delle relazioni industriali indietro di un secolo e oltre. Il punto fondamentale, per me e per il mio programma politico, è invece – continua Ingroia – la piena e totale applicazione della Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza, prima di tutto in materia di libertà civili e sindacali. Ritengo fondamentale e imprescindibile la libertà per i lavoratori di votare sempre gli accordi che li riguardano, di votare sempre i propri rappresentanti e di potersi iscrivere liberamente al sindacato che vogliono.
La storia della Cgil è stata attraversata da discriminazioni e persecuzioni, ma alla fine ha saputo sempre sconfiggerle. Ha combattuto il regime fascista, ha ricostruito l’Italia con la spinta di Giuseppe Di Vittorio, ha emancipato la dignità di chi lavora con Bruno Trentin, ha battuto Berlusconi quando Sergio Cofferati vinse la battaglia per impedire la cancellazione dell’art. 18. Quelli che allora erano in piazza con voi e con noi, hanno votato oggi, senza batter ciglio, quell’eliminazione dell’art. 18 che non era riuscita 10 anni fa.
È dunque per me un impegno di grande valore democratico quello di assumere nel nostro programmal’approvazione di una legge per la democrazia e la rappresentanza nei luoghi di lavoro e la cancellazione delle leggi Fornero sui licenziamenti e sulle pensioni. Ci impegniamo – prosegue la lettera – a combattere la precarietà cancellando le oltre 40 forme di contratto precario per i giovani considerando l’apprendistato come il vero contratto di inizio lavoro. Riteniamo utile, in questa fase di transizione, garantire un reddito minimo almeno per i periodi di vuoto retributivo e previdenziale. Oggi, come anche i dati della Cgil dimostrano, è possibile una scelta alternativa a quella di Berlusconi e Monti. Noi lavoriamo per questo: per un governo di centrosinistra che rompa con le logiche monetariste del fiscal compact, con quelle devastanti della guerra e degli armamenti, con un modello di sviluppo che distrugge l’ambiente e la salute dei cittadini mentre ignora i diritti umani fondamentali. Tutto questo, però, non può essere fatto a braccetto con chi quei modelli sciagurati li ha teorizzati, perseguiti e praticati, come Berlusconi e Monti.
Proprio perché noi siamo disponibili alla costruzione di questa alternativa di governo, ma siamo altrettanto fermamente indisponibili a ogni accordo con chi persegue politiche opposte alle nostre, Rivoluzione Civile rappresenta oggi il vero voto utile per impedire che si realizzi il progetto sciagurato, già annunciato e temo per molti versi già deciso, di un governo Pd-Monti.
Non è questione di pregiudiziali ideologiche ma di scelte pragmatiche e concrete. Noi lavoriamo per l’unità del mondo del lavoro: la destra di Berlusconi e Monti si è adoperata e promette di adoperarsi ancor più in futuro per dividere e per isolare le forze sindacali che non accettano le loro condizioni. La destra italiana ha usato la crisi per distruggere il Contratto Nazionale, abolire l’art. 18, cancellare i diritti minimi per i giovani, abbattere le libertà dentro e fuori i luoghi di lavoro. Noi vogliamo marciare in direzione opposta. E l’autonomia dei sindacati dai partiti e dai governi è un valore da conquistare e da rispettare.Di tutto questo – conclude Ingroia – mi sarebbe piaciuto discutere con voi, ma sono sicuro che non mancheranno altre occasioni di incontro con i pensionati e poi nelle scuole, negli ospedali, nelle fabbriche, dove ogni giorno lavorate garantendo il funzionamento dell’Italia. L’obiettivo comune è quello di restituire al lavoro tutto il valore, tutta la dignità e  tutta la libertà necessaria per portare il Paese fuori dalle secche della recessione e della depressione”.
Antonio Ingroia