Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

venerdì 21 dicembre 2012

Lettera alle compagne e ai compagni di Rifondazione Comunista



di Paolo Ferrero

Care Compagne e Cari Compagni,
come deliberato in varie riunioni della Direzione nazionale e del Comitato Politico Nazionale, stiamo lavorando per la costruzione di una lista unitaria di sinistra che si presenti autonomamente alle prossime elezioni.

E’ questo un obiettivo necessario per evitare che proprio le forze che si sono opposte alle politiche del governo Monti siano escluse dal prossimo Parlamento, e con esse le ragioni dei diritti del lavoro, dell’opposizione al Fiscal Compact e alle politiche europee, della difesa del welfare. Sarebbe un fatto assai negativo per il nostro partito e per il nostro progetto politico.

Nessuna di queste forze, dall’IdV a Rifondazione Comunista, dal movimento di De Magistris ad Alba ha, da sola, la possibilità di eleggere. E’ invece evidente che una lista che tenga insieme l’arco di forze politiche, sociali e culturali che si sono opposte al governo Monti, può rappresentare un punto di riferimento reale per quanti non si riconoscono né nell’alleanza dei democratici e progressisti, né in Grillo.

Questa scelta non ha nulla a che vedere con lo scioglimento del partito o con la sua fine. Come abbiamo detto mille volte, Rifondazione Comunista è necessaria ma non sufficiente, ed in questa linea ci muoviamo.
Necessaria, quindi Rifondazione deve esserci per l’oggi e per il domani.
Non sufficiente, quindi contribuiamo alla costruzione di una lista unitaria.
 
Ovviamente in questo quadro, dovremo presentarci alle elezioni sotto un simbolo di coalizione, che per forza di cose non potrà coincidere con il nostro simbolo. Si tratta di una situazione presente anche in altri paesi europei – basti pensare al Izquierda Unida in Spagna, al Front de Gauche, in Francia, a Syriza in Grecia - dove i partiti comunisti o di sinistra radicale non si presentano alle elezioni con il loro simbolo ma con il simbolo della coalizione. E’ un passaggio necessario che dovremo gestire direttamente come partito, con una propaganda apposita che specifichi che Rifondazione Comunista invita a votare la lista unitaria.
 
Questo lavoro di costruzione della lista unitaria è tutt’ora in corso ed ha visto la nostra partecipazione attiva alle assemblee di Cambiare si può, così come abbiamo espresso una valutazione positiva sulla possibilità che sia Antonio Ingroia a svolgere la funzione di candidato presidente per il quarto polo.
Come ogni percorso unitario vi sono svariati problemi e stiamo lavorando affinché questo percorso trovi due primi momenti di sintesi nelle assemblee convocate per il 21 da Ingroia e per il 22 da “Cambiare si può”. In quel contesto si avrà una prima definizione della fisionomia del quarto polo e della lista che lo dovrà concretamente realizzare, alla quale intendiamo partecipare praticando il principio della reciprocità.
 
Ho ritenuto necessario rivolgervi questa lettera perché la fase è molto complicata ed in assenza del nostro giornale, vi è una seria difficoltà ad informare correttamente i compagni e le compagne su quanto sta avvenendo.
Nella convinzione di operare nella giusta direzione per la causa di tutti noi.

giovedì 20 dicembre 2012

Partigiani della Costituzione

di Alberto Lucarelli.

Per ritrovare un’autentica passione nella politica, in grado di interpretare il senso della vita pubblica e della partecipazione democratica, e rilanciare con forza i valori che vi sono connessi, dobbiamo trasformarci in partigiani capaci di declinare, nei diritti e nei doveri, lo spirito autentico della Costituzione.

Diritti, principi, valori: vogliamo difendere la Costituzione in tutti i suoi modi e lo vogliamo fare non con sobrietà ma con passione, entusiasmo, felicità. Difendere la Costituzione da un gruppo di tecnocrati che ha devastato i principi costituzionali, al solo scopo di attuare il memorandum imposto dalla troika Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale.
Quindi l’Europa delle banche e dei banchieri.

Cambiare si può, individuando tutti quegli aspetti che sono oggettivamente in contrapposizione con quello che ci sta proponendo un gruppo trasversale di interessi e di poteri che parte da Bersani, che passa attraverso Monti, Montezemolo,ed arriva al populismo riemergente di Silvio Berlusconi.

Cambiare si può e lo sanno comitati, movimenti, associazioni: tutto un mondo straordinario in costante fermento. E’ lo stesso magma che ho sentito nel giugno 2011, quando una maggioranza di 27 milioni di cittadini ha votato contro il saccheggio dei beni comuni. E non si trattava unicamente di un referendum a difesa dei servizi pubblici locali, ma della prima consistente presa di coscienza collettiva di un saccheggio dei nostri beni, del nostra patrimonio pubblico, della nostra identità comune.

In questo percorso si sono costruite sinergie e confronti: dai compagni di Rifondazione ai militanti do Italia dei Valori, agli amici di SEL – e sono tanti – che non si riconoscono nella “carta di intenti” di Bersani. Insomma, a tutte quelle persone che con la schiena dritta, come dice Luigi de Magistris, hanno combattuto battaglie difficili: penso ai compagni della FIOM ed alle persone per bene impegnate in SEL e nel PD. La bagarre mediatica di primarie calate dall’alto, che non hanno nulla a che vedere con la democrazia partecipativa, ha per alcuni giorni alimentato l’attenzione dei giornali, ma non è quella la democrazia partecipativa che vogliamo.

Non posso immaginare e credere che ci sia una maggioranza di italiani che abbia accettato tacitamente la riforma Fornero e lo stravolgimento dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori; non posso credere che ci sia una maggioranza di italiani che abbia accettato supinamente l’approvazione dell’art. 8 della legge Sacconi che mortifica i diritti dei lavoratori; non posso e non voglio credere che una maggioranza di italiani abbia accettato la distruzione dello Stato sociale modificando e calpestando l’art. 81 della Costituzione; non posso credere che la maggioranza di italiani voglia un’Europa tecnocratica gestita dal Fondo Monetario Internazionale, da alcuni componenti della Commissione Europea, dalla BCE…

Noi vogliamo un’ Europa dei diritti promossa dal basso, inclusiva, vogliamo un processo costituente, con un’Assemblea che quanto prima elegga un Parlamento in grado di ridisegnare i rapporti di forza e tutelare l’Europa politica e sociale così come era stata delineata nel suo progetto originario.

Non posso e non voglio credere che la maggioranza di italiani voglia cacciabombardieri, invece di scuole e asili nido, carri armati invece di diritti sociali; che voglia che i diritti sociali si debbano comprare, che le famiglie debbano pagare per le scuole, per l’università, per la sanità. Non credo che la maggioranza degli italiani sia disposta a questo, non credo che ci sia una maggioranza disposta a cadere nella trappola della contrapposizione tra diritto alla salute contro diritto al lavoro, come hanno tentato di farci credere per l’Ilva di Taranto.

Non credo che ci sia una maggioranza di italiani che voglia grandi opere pubbliche, inutili e costose, come la TAV, il Dal Molin, il ponte sullo Stretto di Messina; credo, piuttosto, che ci sia una maggioranza che voglia opere ordinarie, non eventi straordinari che servono solo a sperperare il denaro pubblico. Ed allora questione morale e sociale devono camminare congiuntamente! Perché o si ha il coraggio di affrontare insieme questione morale e questione sociale oppure il rischio è quello di restare ancora subordinati a poteri forti, a lobby, cricche affaristiche trasversali, alla borghesia mafiosa che si annida nelle società pubbliche, che fa clientele, che condiziona i poteri all’interno di una Pubblica amministrazione troppe volte né autonoma nè indipendente.

La nostra è una Carta dei diritti, non dei privilegi, né delle rendite! Cambiare si può, anche ripartendo dai partiti, come intesi da Gramsci e Berlinguer, e non come degenerati nel tempo, mortificando la formula dell’art. 49 della Costituzione, che afferma che “tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

Cambiare si può, con la consapevolezza che, in relazione ai suddetti contenuti, siamo maggioranza. E’ il momento di condividere questi contenuti, nuovi metodi e forme della politica, di essere disposti a cancellare rendite di posizione, cedere porzioni di sovranità e mettersi alla pari con tutti, forze politiche strutturate e non, comitati, movimenti, associazioni, per la grande battaglia di partigiani a difesa della Costituzione.

da www.movimentoarancione.com

mercoledì 21 novembre 2012

Intervista a Paolo Ferrero di Massimiliano Di Giorgio (Reuters)

Dopo essere rimasta fuori dal Parlamento per più di quattro anni, Rifondazione comunista vorrebbe presentarsi alle prossime elezioni con una lista "No Monti" - ma non contro l'euro - a cui potrebbero partecipare l'Idv, esponenti della Fiom, attivisti No-Tav e con la benedizione del sindaco di Napoli Luigi De Magistris.

Lo ha spiegato in un'intervista a Reuters, Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista, partito a cui i sondaggi attribuiscono il 2-3% delle intenzioni di voto.
L'obiettivo della lista è quello di cercare di condizionare da sinistra un eventuale governo guidato dal Partito democratico, per abbandonare la politica "neoliberista" del governo di Mario Monti e ricontrattare con l'Unione europea il cosiddetto "Fiscal Compact", ossia il nuovo patto sulla disciplina di bilancio, e i trattati Ue.
 
"Stiamo lavorando a una lista unitaria di sinistra dove il punto, per noi, è riuscire a mettere insieme tutti i vari spezzoni politici e sociali che si oppongono alle politiche del governo Monti", dice Ferrero, 52 anni, ex ministro della Solidarietà sociale nel secondo governo Prodi, alla guida del Partito della Rifondazione comunista dall'estate del 2008.
 
Quattro anni fa, Rifondazione comunista non riuscì a ottenere neanche un seggio in Parlamento, perché il cartello elettorale di cui faceva parte - con i Verdi, il Pdci e Sinistra democratica - non superò la soglia di sbarramento del 4%. Lo stesso avvenne nel 2009, per le Europee.
Alle prossime elezioni, previste per l'inizio di marzo, la soglia potrebbe essere alzata al 5%, se la legge dovesse essere modificata, rendendo più complicato il ritorno in Parlamento a meno di accordi di coalizione.
 
"Nessuna delle forze [dell'area anti-Monti che comprende anche il partito di Antonio Di Pietro, in calo nei sondaggi] è in grado, da sola, di poter pensare di superare lo sbarramento", dice Ferrero, che però intanto ha già perso un alleato come il Pdci, che alle primarie del centrosinistra voterà per il leader di Sel Nichi Vendola e che, secondo diverse fonti politiche, ha stretto un accordo col Pd.
Per Ferrero, il Partito democratico - erede della tradizione del Pci e della fusione poi con la sinistra della Democrazia Cristiana - oggi è un "partito liberale, in cui i socialdemocratici rappresentano solo l'ala sinistra".
Il segretario di Rifondazione dice che un governo guidato dall'attuale leader del Pd Pier Luigi Bersani - ammesso che riuscisse a ottenere una maggioranza sufficiente - "non sarebbe identico" a un eventuale Monti-bis, almeno sui diritti civili e le politiche sociali, ma che le differenze comunque "non sarebbero significative".
"POLITICHE ECONOMICHE COME QUELLE DI PINOCHET"
Il governo tecnico - sostenuto da un anno in Parlamento da Pdl, Pd e Terzo Polo - ha imposto all'Italia una "shock economy, come quella del dittatore Augusto Pinochet in Cile", secondo Ferrero.
"Si dice: 'Siamo sull'orlo del baratro, la soluzione è una sola ed è questa'. Così si annichilisce così ogni reazione".
Monti, per l'ex ministro, sta "demolendo il Welfare" con la riforma delle pensioni, la modifica dell'articolo 18 sui licenziamenti e della contrattazione sindacale - su cui Rifondazione, con Idv e Sel, ha lanciato una serie di referendum -, ha prodotto la recessione con la politica di rigore e ora vuole svendere il patrimonio pubblico per sostenere la riduzione del debito imposta dalla Ue e dalla Bce.
 
"L'impatto del Fiscal Compact sull'Italia sarà il peggiore d'Europa, dato che noi abbiamo un debito superiore al 126% del Pil", prevede Ferrero, che paragona l'Italia alla Grecia.
Quando gli si fa notare che in Italia, però, nonostante la crisi, sembra tenere la "coesione sociale", Ferrero risponde che "oggi la principale fonte di Welfare in Italia è la famiglia" e che le fasce più deboli sono già abituate "a vivere e consumare a bassi livelli". Anche se le manovre del governo stanno portando "ormai a tagli sulla carne viva".
 
Il segretario del Prc ammette anche che in Italia, dove finora non si sono registrate proteste e movimenti di massa paragonabili a quelle di Paesi come la Grecia e la Spagna, "manca chi organizza il conflitto, e la rabbia si esprime in modo personale... anche con il consumo di psicofarmaci".
Un "possibile inizio" di un tale movimento, dice, potrebbe essere stato la protesta dello scorso 14 novembre per la giornata contro l'austerity lanciata dai sindacati europei, che in diverse città, a iniziare da Roma, si è trasformata in guerriglia tra giovani e polizia, con feriti e arresti.
 
"IN ITALIA MANCA LA LOTTA DI CLASSE"
Nel frattempo, però, la protesta sembra esprimersi nelle urne e nei sondaggi con l'ascesa del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, a cui Ferrero non guarda con ostilità soprattutto per lo spirito di protesta che esprime, anche se dice di non essere d'accordo sul tipo di "democrazia instant" che propone.
 
E' giusta la questione della moralizzazione della politica, aggiunge, ma "il problema è che in Italia, invece di avere un sano conflitto di classe, hai l'idea che tutti i politici rubano, come se tutti i problemi fossero legati alle ruberie".
Ma il voto a Grillo, sottolinea, non è "rancoroso, non è contro gli immigrati o gli zingari", non è un sostegno a un partito di estrema destra come "Alba d'Oro" in Grecia.
 
"NEW DEAL" CON LA UE
I comunisti di Rifondazione vogliono una svolta e non intendono aiutare il partito di Bersani solo a rendere più "social" la cosiddetta "agenda Monti".
"Il problema non è l'uscita dall'euro [...] e neanche il fallimento dell'Italia, che è troppo grande per fallire. Bisogna rinunciare al Fiscal Compact e aprire una trattativa con l'Unione europea, per ricontrattare le modalità con le quali viene gestita", ha detto Ferrero.
Bisogna anche modificare il ruolo della Bce, che Ferrero definisce una "istituzione privata, ademocratica, fatta di soci privati", contro la quale rivendica la difesa della "sovranità nazionale" dell'Italia.
 
Per Ferrero la questione non è di dosare crescita e rigore, magari facendo ricorso al deficit per favorire la ripresa economica: "Il tema della crescita è relativamente insensato, non ci sono sbocchi di mercato, ed è il motivo per cui anche la Germania va verso la recessione. Invece occorre puntare, almeno in Europa, sulla riconversione ecologica e sulla redistribuzione della ricchezza".

lunedì 19 novembre 2012

Impressioni su Gaza di Noam Chomsky

19 novembre 2012 - Fonte: Noam Chomsky 

Gaza -Anche una sola notte in cella è abbastanza per assaggiare cosa vuol dire essere sotto il totale controllo di una forza esterna. E ci vuole poco più più di un giorno a Gaza per iniziare a rendersi conto di come dev’essere cercare di sopravvivere nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, in cui un milione e mezzo di persone, nell’area più densamente popolata del mondo, sono costantemente assoggettate al terrore casuale e spesso selvaggio e ad una punizione arbitraria, senza nessun’altro scopo che quello di umiliare e degradare, e con l’ulteriore obiettivo di assicurarsi che le speranze dei palestinesi per un futuro decente verranno schiacciate e che il crescente appoggio mondiale per una soluzione diplomatica che garantisca i loro diritti venga annullato.
L’intensità di questo impegno da parte della leadership politica israeliana è stato drammaticamente illustrato negli ultimi giorni, quando ci hanno avvisato che “impazziranno” se ai diritti dei palestinesi verrà dato anche solo un parziale riconoscimento alle Nazioni Unite. Non è un nuovo inizio. La minaccia di “diventare pazzi” (“nishtagea”) è profondamente radicata, fin dai governi laburisti degli anni ’50, insieme al relativo “Complesso di Sansone”: raderemo al suolo il muro del Tempio se attraversato. Era una minaccia risibile, allora; non oggi.
Nemmeno l’umilizione intenzionale è una novità, anche se prende sempre nuove forme. Trent’anni fa i leader politici, compresi alcuni tra i più noti “falchi”, hanno sottoposto al Primo Ministro Begin un racconto sconvolgente e dettagliato di come i coloni maltrattano regolarmente i palestinesi nel modo più depravato e nella totale impunità. L’importante studioso politico-militare Yoram Peri ha scritto con disgusto che il compito dell’esercito non è difendere lo stato, ma “demolire i diritti di un popolo innocente solo perchè sono Araboushim (termine dispregiativo per indicare gli Arabi, n.d.t.; come dire “negri”, “giudei”) che vivono in territori che Dio ha promesso a noi”.
I Gazawi sono stati selezionati per una punizione particolarmente crudele. E’ quasi un miracolo che la popolazione possa sopportare un tale tipo di esistenza. Come ci riescano è stato descritto trent’anni fa in un’eloquente memoria di Raja Shehadeh (The Third Way – La Terza Via), basata sul suo lavoro di avvocato ingaggiato nelle battaglie senza speranza di cercare di proteggere i diritti fondamentali restando all’interno del sistema giuridico studiato per assicurare il fallimento, e la sua personale esperienza come Samid, “perseverante”, che vede casa sua diventare una prigione a causa dei brutali occupanti e non può fare niente ma in qualche modo “resiste”.
Da quando Shehadeh ha scritto, la situazione è peggiorata. Gli Accordi di Oslo, celebrati in pompa magna nel 1993, hanno determinato che Gaza e la Cisgiordania siano singole entità territoriali. Da allora, gli Stati Uniti e Israele hanno dato il via al loro programma di separarli completamente uno dall’altro, così come di bloccare gli accordi diplomatici e punire gli arabi in entrambi i territori.
La punizione dei Gazawi si è fatta ancor più severa nel gennaio del 2006, quando hanno commesso il crimine maggiore; hanno votato “nel modo sbagliato” alle prime elezioni del mondo arabo, eleggendo Hamas. Dando dimostrazione della loro appassionata “bramosia per la democrazia”, gli Stati Uniti e Israele, seguiti dalla timida Unione Europea, imposero immediatamente un assedio brutale, insieme a pesanti attacchi militari. Gli Stati Uniti, inoltre, ripristinarono immediatamente la procedura operativa di quando qualche popolo disobbediente elegge il governo sbagliato: preparare un golpe militare per restaurare l’ordine.
I Gazawi commisero un crimine ancora maggiore un anno dopo, fermando il colpo di stato, il che portò ad una rapida intensificazione dell’assedio e degli attacchi militari. Questi hanno raggiunto il culmine nell’inverno 2008 – 2009, con l’operazione Piombo Fuso, uno dei più codardi e feroci esempi di forza militare nella storia recente, dal momento che una popolazione indifesa, rinchiusa e senza via di fuga, fu vittima di un attacco implacabile operato da uno dei più avanzati sistemi militari del mondo, basato su armi statunitensi e protetto dalla diplomazia USA. Un’indimenticabile testimonianza diretta del massacro – “infanticidio”, per usare le loro parole – viene dai due coraggiosi medici norvegesi che lavorarono nel principale ospedale di Gaza durante l’attacco spietato, Mads Gilbert e Erik Fosse, nel loro notevole libro “Eyes in Gaza – Occhi a Gaza”.
Il neo Presidente Obama non fu in grado di dire una parola, a parte il reiterare la sua sincera vicinanza ai bambini sotto attacco – nella città israeliana di Sderot. L’assalto attentamente preparato giunse a un termine prima della sua nomina, in modo che poi ha potuto dire che “adesso è il momento di guardare avanti, non indietro”, il rifugio abituale per i criminali.
Ovviamente c’erano dei pretesti – ce ne sono sempre. Quello solito, rispolverato quando serve, è la “sicurezza”: in questo caso, razzi “fatti in casa” da Gaza.
Come sempre succede, il pretesto mancava di qualsiasi credibilità. Nel 2008 era stata stabilita una tregua tra Israele e Hamas. Il governo israeliano formalmente aveva riconosciuto che Hamas l’aveva completamente osservata. Non un solo razzo di Hamas era stato sparato prima che Israele rompesse la tregua sotto la copertura delle elezioni USA del 4 novembre 2008, invadendo Gaza con motivazioni ridicole e ammazzando mezza dozzina di membri di Hamas. Il governo israeliano era stato avvertito dagli alti funzionari dei suoi servizi segreti che la tregua avrebbe potuto essere rinnovata ammorbidendo il blocco criminale e mettendo fine agli attacchi militari. Ma il governo di Ehud Olmert, conosciuto come una colomba, scelse di rifiutare queste opzioni, preferendo ricorrere al proprio enorme vantaggio in violenza: l’Operazione Piombo Fuso. I fatti salienti sono riportati nuovamente dall’esperto in politica estera Jerome Slater nella recente pubblicazione sull’Harvard MIT Journal “International Security – Sicurezza Internazionale”.
La metodologia di bombardamento utilizzata in Piombo Fuso è stata attentamente analizzata da Raji Sourani, avvocato per i diritti umani profondamente informato e internazionalmente stimato. Sourani osserva che il bombardamento si concentrava a nord, colpendo civili indifesi nelle arree maggiormente popolate, con nessun possibile pretesto militare. L’obiettivo, suggerisce, potrebbe essere stato quello di spingere la popolazione spaventata verso sud, vicino alla frontiera con l’Egitto. Ma i Samidin sono rimasti, nonostante la valanga di terrore israelo-statunitense.
Un ulteriore obiettivo è stato quello di spingerli indietro. Tornando ai primi giorni della colonizzazione sionista, si argomentava da ogni parte che gli Arabi non avessero motivi per stare in Palestina; avrebbero potuto essere ugualmente felici da qualche altra parte, e avrebbero dovuto andarsene – “essere trasferiti”, come educatamente suggerirono le colombe. Questa non è una preoccupazione di poco conto per l’Egitto, e forse è una ragione per cui l’Egitto non apre liberamente la frontiera ai civili o anche ai materiali di cui c’è disperato bisogno.
Sourani e altre fonti ben informate sottolineano che la disciplina dei Samidin nasconde una polveriera che potrebbe esplodere in qualsiasi momento, inaspettatamente, come fece la prima Intifada a Gaza nel 1989 dopo anni di miserabile repressione che non aveva suscitato alcuna avvisaglia o motivo di preoccupazione.
Per citare solo uno degli innumerevoli casi, poco prima che scoppiasse la prima Intifada, una ragazza palestinese, Intissar al-Atar, fu colpita a morte in un cortile scolastico da un residente della vicina colonia israeliana. Era uno delle varie migliaia di coloni israeliani portati a Gaza in violazione del diritto internazionale e protetti da una forte presenza dell’esercito, che stanno rubando la maggior parte della terra e delle scarse risorse idriche della Striscia e che vivono “agiatamente in 22 colonie in mezzo a un milione e 400mila palestinesi indigenti” come viene descritto il crimine dalla studiosa israeliana Avi Raz. L’assassino della studentessa, Shimon Yifrah, è stato arrestato, ma rapidamente rilasciato su cauzione quando la Corte ha determinato che “il reato non è abbastanza grave” da giustificare la detenzione. Il giudice ha commentato che Yifrah voleva solo spaventare la ragazza sparandole contro nel giardino della scuola, ma non voleva ucciderla, quindi “non è il caso di un criminale che debba essere punito, scoraggiato, e ha imparato la lezione attraverso l’arresto”.Yifrah venne condannato a 7 mesi con pena sospesa, mentre i coloni in aula esplodevano in canti e danze. E poi regnò il solito silenzio. Dopotutto, è routine.
E quindi così. Quando Yifrah venne rilasciato, la stampa israeliana riportò che una pattuglia dell’esercito aveva aperto il fuoco nel cortile di una scuola di ragazzini di età compresa tra i 6 e i 12 anni in un campo profughi della Cisgiordania, ferendo cinque bambini, presumibilmente con l’intenzione di “spaventarli” solamente. Non ci furono processi, e l’accaduto, di nuovo, non attirò nessuna attenzione. Era semplicemente un altro episodio nel programma di “analfabetismo e punizione”, disse la stampa israeliana, che comprendeva la chiusura delle scuole, l’uso di lacrimogeni, il picchiare gli studenti con i calci dei fucili, l’impedire il soccorso sanitario alle vittime; e oltre alle scuole, un regno di brutalità ancor più dura, che diventava ancora più selvaggio durante l’Intifada, sotto il comando del Ministro della Difesa Yitzhak Rabin, altra stimata colomba.
La mia prima impressione, dopo una visita di qualche giorno, è stata di stupore, non solo per la capacità di andare avanti con la vita, ma anche per la vibrante vitalità tra i giovani, specialmente all’università, dove ho passato la maggior parte del mio tempo in una conferenza internazionale. Ma anche lì si possono scovare segnali che la pressione potrebbe diventare troppo dura da sopportare. Studi dicono che tra i giovani uomini c’è una frustrazione che ribolle, un riconoscere che sotto l’occupazione israelo-statunitense il futuro non riserva niente per loro. E’ solo che ce n’è così tanta che gli animali in gabbia possono sopportare, e può esserci un’eruzione, magari in forme orribili – il che offre un’opportunità per gli apologeti israeliani e occidentali di condannare in modo ipocrita le persone che sono culturalmente arretrate, come ha spiegato acutamente Mitt Romney.
Gaza ha l’aspetto di una tipica società del terzo mondo, con sacche di ricchezza circondate da mostruosa povertà. Non è, comunque, “sottosviluppata”. Piuttosto è “de-sviluppata”, e in modo sistematico, per usare le parole di Sara Roy, la principale esperta accademica di Gaza. La Striscia di Gaza avrebbe potuto diventare una prospera regione mediterranea, con una ricca agricoltura e una fiorente industria ittica, spiagge meravigliose e, come scoperto una decina di anni fa, buone prospettive di risorse estensive di gas naturale all’interno delle sue acque territoriali. Per coincidenza o meno, fu proprio quando Israele ha intensificato il blocco navale, spingendo i pescherecci verso le coste, da quel momento entro le 3 miglia marittime.
Le prospettive favorevoli sono state abortite nel 1948, quando la Striscia ha dovuto assorbire un flusso di profughi palestinesi che scapparono in preda al terrore o furono espulse con la forza da quello che poi diventò Israele, in alcuni casi espulsi mesi dopo il formale “cessate il fuoco”.
Di fatto, sono stati espulsi anche quattro anni dopo, come riportato su Ha’aretz (25.12.2008), in uno studio ragionato di Beni Tziper sulla storia dell’israeliana Ashkelon dall’epoca dei Cananei. Nel 1953, dice, c’era un “freddo calcolo secondo cui era necessario ripulire la regione dagli Arabi”. Anche il nome originario, Majdal, è stato “giudaizzato” all’odierno Ashkelon, normale amministrazione.
Questo è successo nel 1953, quando non c’era nemmeno l’ombra di necessità militari. Tziper stesso è nato nel 1953, e mentre passeggia tra le rovine dell’antico settore arabo, pensa che “è molto difficile per me, molto difficile, realizzare che mentre i miei genitori stavano festeggiando la mia nascita, altre persone stavano venendo caricate su camion e venivano espulse dalle loro case”.
Le conquiste israeliane del 1967 e le loro conseguenze diedero ulteriori scossoni. Quindi arrivarono i terribili crimini già menzionati, fino al giorno d’oggi. I segnali sono facili da vedere, anche con una visita veloce. Seduto in un hotel vicino alla costa, si può sentire il rumore degli spari delle navi da guerra israeliane che spingono i pescatori dalle acque territoriali di Gaza verso la costa, così sono costretti a pescare in acque fortemente inquinate a causa del rifiuto statunitense-israeliano di permetttere la ricostruzione dei sistemi fognari e della rete elettrica che loro stessi hanno distrutto.
Gli Accordi di Oslo stabilirono i piani per due impianti di desalinizzazione, una cosa necessaria in questa regione. Uno, un’infrastruttura avanzata, fu costruito: in Israele. Il secondo a Khan Younis, nel sud della Stricia di Gaza. L’ingengere incaricato di tentare di ottenere acqua potabile per la popolazione spiegò che questo impianto era stato progettato in modo da non poter utilizzare acqua di mare, ma doveva basarsi su falde sotterranee, un procedimento più economico, che impoverisce ulteriormente la già misera falda, garantendo problemi seri in futuro. Anche in presenza di tale impianto, l’acqua è veramente scarsa. L’UNRWA, che si prende cura dei rifugiati (ma non di altri Gazawi), ha recentemente pubblicato un report lanciando l’allarme sul fatto che il danno alle falde acquifere potrebbe presto diventare “irreversibile”, e che, senza una rapida misura correttiva, dal 2020 Gaza potrebbe non essere più un “posto vivibile”.
Israele permette l’ingresso del cemento per i progetti dell’UNRWA, ma non per i gazawi coinvolti dall’urgente necessità di ricostruzione. La limitata attrezzatura pesante è ridotta al minimo, visto che Israele non ammette l’ingresso di materiali per la ricostruzione. Tutto ciò fa parte del programma generale descritto dal funzionario israeliano Dov Weisglass, consigliere del Primo Ministro Ehud Olmert, dopo che i Palestinesi non obbedirono agli ordini nelle elezioni del 2006: “L’idea” ha detto “è di mettere a dieta i Palestinesi, ma non fino a farli morire di fame”. Non è una bella cosa.
E il piano si sta seguendo scrupolosamente. Sara Roy ne ha data ampia dimostrazione nei suoi studi accademici. Recentemente, dopo diversi anni di sforzi, l’organizzazione israeliana per i diritti umani Gisha è riuscita ad ottenere un provvedimento giudiziario perchè il governo consegni la documentazione contenente i dettagli dei piani di dieta, e le modalità di esecuzione. Jonathan Cook, giornalista israeliano, li ha riassunti: “Funzionari del Ministero della Salute hanno fornito calcoli del numero minimo di calorie di cui ha bisogno il milione e mezzo di abitanti di Gaza per evitare la malnutrizione. Questi valori sono stati trasformati in camion di cibo a cui Israele dovrebbe permettere l’ingresso ogni giorno… una media di soli 67 camion – molto meno della metà del fabbisogno minimo – sono entrati quotidianamente a Gaza. Questo paragonato agli oltre 400 camion che entravano prima dell’inizio del blocco”. E anche questa stima è oltremodo generosa, riportano i funzionari delle Nazioni Unite.
Il risultato dell’imposizione della dieta, osserva l’esperto di Medioriente Juan Cole, è che “circa il 10% dei bambini palestinesi di Gaza sotto i 5 anni soffrono di un blocco della crescita a causa della malnutrizione… in più, è diffusa l’anemia, che colpisce più dei 2/3 dei neonati, 58,6% dei bambini in età scolare e più di 1/3 delle donne incinte”. Gli Stati Uniti e Israele vogliono assicurare che non sia possibile nulla più che la sopravvivenza.
“Ciò che dev’essere tenuto a mente” osserva Raji Sourani, “è che l’occupazione e la chiusura totale costituiscono un prolungato attacco alla dignità umana della popolazione di Gaza in particolare e di tutti i palestinesi in generale. Si tratta di degradazione sistematica, umiliazione, isolamento e frammentazione del popolo palestinese”. La conclusione viene confermata da molte altre fonti. In una delle principali riviste di medicina del mondo, The Lancet, un medico ospite di Stanford, inorridito da ciò che aveva visto, descrive Gaza come “qualcosa di simile ad un laboratorio per osservare l’assenza di dignità”, una condizione che ha effetti “devastanti” sul benessere fisico, psicologico e sociale. Il costante controllo dal cielo, le punizioni collettive attraverso il blocco e l’isolamento, l’irruzione nelle case e nelle comunicazioni e le restrizioni poste a chi cerca di viaggiare, o di sposarsi, o di lavorare, rendono difficile vivere una vita dignitosa a Gaza. All’Araboushim dev’essere insegnato a non alzare la testa.
C’era la speranza che il nuovo governo Morsi in Egitto, meno schiavo di Israele rispetto alla dittattura di Mubarak sostenuta dall’occidente, potesse aprire il valico di Rafah, unico accesso verso l’esterno per i gazawi intrappolati a non essere sottoposto al diretto controllo israeliano. C’è stata una lieve apertura, ma non molto. La giornalista Laila el-Haddad scrive che la riapertura sotto Morsi “è semplicemente un ritorno dello status-quo degli anni passati: solo i palestinesi in possesso di un documento di identità di Gaza approvato da Israele possono utilizzare il valico di Rafah” il che esclude la maggioranza dei palestinesi, compresa la famiglia el-Haddad, in cui solo una moglie ha il documento.
Inoltre, continua, “il valico non conduce alla Cisgiordania, né permette il passaggio di beni, che sono limitati ai valichi sotto controllo israeliano e soggetti a divieti per materiali di costruzione e esportazioni”. Il valico ristretto di Rafah non cambia il fatto che “Gaza resta sotto stretto assedio marittimo e aereo, e continua ad essere chiusa al capitale culturale, economico, e accademico nel resto dei territori occupati, in violazione degli obblighi israelo-statunitensi degli Accordi di Oslo”.
Gli effetti sono dolorosamente evidenti. All’ospedale di Khan Younis, il direttore, che è anche primario di chirurgia, descrive con rabbia e passione come anche le medicine per alleviare le sofferenze dei pazienti scarseggiano, così come la semplice attrezzatura chirurgica, lasciando i medici senza supporto e i pazienti in agonia. Le storie personali aggiungono una vivida base al generale disgusto che si prova davanti all’oscenità della pesante occupazione. Un esempio è la testimonianza di una giovane donna che è disperata per il fatto che suo padre, che sarebbe stato orgoglioso che lei fosse la prima donna nel campo profughi ad avere una laurea, è “morto dopo 6 mesi di lotta contro il cancro, all’età di 60 anni. L’occupazione israeliana gli ha impedito di recarsi in un ospedale israeliano per curarsi. Ho dovuto interrompere i miei studi, il lavoro e la mia vita e restare seduta accanto al suo letto. Ci sedemmo tutti, compresi mio fratello medico e mia sorella farmacista, tutti impotenti e senza speranza guardando la sua sofferenza. E’ morto durante l’inumano blocco di Gaza del 2006 con un quasi inesistente accesso al servizio sanitario. Penso che sentirsi impotenti e senza speranza sia il sentimento più letale che un essere umano possa provare. Ammazza lo spirito e spacca il cuore. Puoi combattere contro l’occupazione ma non puoi combattere il tuo sentirti impotente. Non riesci a cancellare quel sentimento”.
Disgusto davanti all’oscenità, aggravato dal senso di colpa: noi possiamo porre fine a questa sofferenza e permettere ai Samidin di godersi le vite di pace e dignità che meritano.
Noam Chomsky ha visitato la Striscia di Gaza dal 25 al 30 ottobre 2012.

martedì 13 novembre 2012

Primarie centrosinistra: tutto quanto fa spettacolo!

Redazionale
Se per politica intendiamo il penoso show andato in onda su Sky TG24 con i cinque candidati per le primarie del centrosinistra, non potremo davvero lamentarci se o quando gli italiani diserteranno le urne.
Ma lo scopo non era certo quello di restituire alla politica un ruolo che da tempo ha perso, quanto quello di fare audience, di farsi notare dal Cittadino attraverso una sorta di spettacolarizzazione che dicesse "noi siamo pronti per essere votati da Voi" dal sottotitolo "non esiste altra politica all'infuori di noi".  Può sembrare banale ma il risultato è stato bene o male raggiunto, e questo rasenta il punto più drammatico della situazione sulla quale occorre riflettere. Stampa e mezzi di comunicazione hanno fatto il resto, facendo in modo che vi fosse quella cassa di risonanza tanto voluta e desiderata.
E c'è stata! ..basta scorrere i titoli di apertura per rendersene conto.  Ma si sa bene che, seppur importante, un titolo non può fare l'articolo, almeno se non è seguito da un valido contenuto; altrimenti la nota viene fuori stonata, e con un minimo di attenzione può essere evidenziata e valutata per quello che porta con sé. Premettendo che non c'è la minima intenzione di prendere come esempio modelli particolari, dobbiamo comunque dire che siamo distanti anni luce dai confronti televisivi simili a quelli tra Hollande e Sarkozy od Obama vs Romney.  Nella nostra penosa realtà, nessuno dei cinque candidati ha espresso qualcosa che potesse dare il senso della vicinanza ai problemi che hanno portato (e stanno portando..) il paese, verso un punto di crisi veramente vicino al collasso.  Qualcuno ha sentito parlare di Fiscal Compact o di come uscire dalle politiche recessive? Ci siamo forse persi qualcosa che magari assomigliasse ad una misera proposta sul rilancio dello stato sociale, o su come risolvere il problema della disoccupazione, del precariato, dell'emergenza abitativa, dell'assistenza sanitaria e quant'altro?
No cari amici, non ci siamo persi proprio un bel niente!  Quel ridicolo teatrino al quale abbiamo assistito, altro non ha fatto che ricordarci quanto si è superficiali se la posta in palio non riesce ad andare oltre il mero personalismo.  La gara prosegue, con i quotidiani online che tirano le somme assegnando le medaglie per il podio, o addirittura coniando aggettivi come "il più seduttivo" (rivolto a Renzi!), "pittoresco" (Tabacci), "sudato" (Vendola) ed altro ancora... Un politico serio non avrebbe mai accettato di affrontare argomenti appena sfiorati da domande che definire banali è davvero poco! Chissà se qualcuno dei cinque avrà pensato almeno per un momento alla realtà rappresentata da quegli italiani sotterrati in questi giorni dalla furia delle acque piovane che ha provocato smottamenti e allagamenti a raffica, riproponendo la drammatica questione del controllo e della prevenzione di un assetto idrogeologico del paese che non ha mai beneficiato di una vera e qualificata attenzione... Agitare il nome di Marchionne tanto per richiamare la curiosità e l'attenzione, così come è stato fatto, non significa dire davanti a tutti che c'è l'intenzione di rilanciare lo statuto dei lavoratori ripristinando l'articolo 18; per non parlare della riforma Fornero sulla quale tutti hanno speso parole apparentemente confortanti senza farci capire attraverso quali percorsi intendono portare avanti le loro contro proposte.  Immaginiamo la soddisfazione di Monti (vero vincitore della "gara"..) che dall'alto del suo scrigno mai si è sentito chiamare in causa.  La via del liberismo è ancora transitabile e spendibile, ed il fatto che nessuno ne abbia parlato, vuol dire molto di più di quanto apparentemente possa sembrare.

venerdì 26 ottobre 2012

Sabato 27 tutte/i a Roma!


di Stefano Galieni

La semplice idea di realizzare per il 27 ottobre una manifestazione pacifica e di massa contro le politiche di questo governo ha creato e sta creando aspettative e malumori. Promossa da forze politiche e sociali che non godono dei favori della ribalta, che non meritano la prima serata televisiva, apre contraddizioni enormi fra le persone stesse. Al di là delle adesioni confermate e degli impegni presi – ad oggi è previsto l’arrivo di un centinaio di pullman di cui la metà organizzata dal nostro partito – la si vorrebbe bollare in partenza come manifestazione minoritaria e tipica del “populismo di sinistra” ma i contenuti di cui è animata, fanno riflettere.

Il “No Monti” è un esplicito no alle politiche di austerity che stanno portando alla fame e ad una recessione irreversibile il Paese, un no al “fiscal compact” e ai tagli che questo comporta, un no alla demolizione del concetto di bene comune verso un contesto in cui tutto, anche le persone sono solo e soltanto merce. Ma racchiude anche una varietà di proposte politiche che arrivano dal basso, da chi si occupa nelle vertenze in atto, di difendere la qualità dei posti di lavoro, da chi considera il precariato una sciagura da evitare. Uomini e donne lontani anni luce dallo stuccoso dibattito sulle primarie, che invece di rinunciare alla politica cercano e propongono  una alternativa, sentendosi nelle stesse condizioni di tanti paesi europei: Grecia, Spagna, Portogallo, Francia e non solo. 

Uomini e donne che vivono sovente una condizione di “non rappresentanza” e che pretendono di far sentire la propria voce. Ovvio che per l’informazione dominante simili aggregazioni siano da considerare come elementi non compatibili, al di fuori dalla politica dei salotti buoni. Sono le stesse testate che stanno dando ampio risalto a Grillo e a un Movimento 5 stelle che, per le modalità monarchiche e messianiche in cui è gestito servono come il Valium ad ogni forma di contestazione. Non a caso, in contemporanea, coloro che si riconoscono in detto movimento, se ne staranno chiusi nel Palazzo della Regione Lazio, ad elaborare le prime tracce di un programma “partecipato”. 

Una contraddizione in termini. Sarebbe stato prezioso e utile che l’intero arco della sinistra che si dichiara contraria alle politiche governative, avesse preso la decisione di partecipare a questa manifestazione o comunque di interloquirci. Invece si è preferito, dai vertici, bollarla come minoritaria e di nicchia, come una manifestazione “vetero”. Alcuni giornali soffiano anche sul fuoco della possibilità che durante il percorso (partenza alle ore 14.30 da Piazza della Repubblica e arrivo a P.zza S. Giovanni) si possano verificare incidenti. Alimentare la paura fa spesso comodo. Fa meno comodo dire che ad aprire il corteo saranno alcuni malati di Sla le cui condizioni di assistenza sono messe in profonda crisi grazie a quella mannaia che si abbatterà sul sistema sanitario grazie al patto di stabilità.  

Eppure, nei sussurri che circolano fra i social network, in quel dibattito informale spesso più importante e stimolante delle grandi dichiarazioni, ci si sente dire:«Io sabato vengo in piazza». Si obbedisce ad una propria coscienza civica e politica più che alle scelte fatte da dirigenti lontani. La manifestazione di sabato è organizzata con infinite difficoltà logistiche e si concluderà con una assemblea in cui gli oratori non avranno a disposizione palchi stratosferici ma un camion. In piazza ci saranno gli spazi del Prc per raccogliere firme per i referendum su pensioni, ripristino dell’articolo 18 e abolizione dell’art. 8Saremo in tanti e in tante, più di quanto ci si aspetta, forse troppi per chi vorrebbe ridotto il confronto politico ad un talk show televisivo. Ma sarà una bella manifestazione. Peccato per chi sceglierà di restare a casa.

martedì 16 ottobre 2012

Un errore l'analisi di Asor Rosa

di Livio Pepino

L'analisi di Asor Rosa è chiara: nel nostro desolato panorama politico una riedizione del governo Monti e della sua politica può essere scongiurata solo dalla «coalizione Bersani-Vendola» che, pur nell'incognita dello stato confusionale del Pd, può essere ri-orientata a sinistra da una vittoria elettorale; in ogni caso non c'è alternativa, se non la «libidine della sconfitta» di spezzoni, vecchi e nuovi, di una sinistra presuntuosa e velleitaria. Fino a qualche anno fa avrei condiviso: del resto non sono un estremista (e se a volte appaio tale è solo per l'inarrestabile corsa a destra degli estremisti di un tempo). Ma oggi ritengo quell'analisi un errore, utile solo a mettere la pietra tombale su ogni prospettiva di cambiamento. Provo a spiegare perché.

Primo.
C'è, in Italia e nel mondo, una grande questione aperta che riguarda le politiche per uscire dalla crisi. Alcuni - la maggioranza - ritengono che la ricetta sia interna al liberismo e che non possa prescindere dalla riduzione della spesa pubblica, dall'abbattimento dello stato sociale, dalla diminuzione delle tutele del lavoro, dall'espansione del privato, dall'investimento in opere faraoniche. Altri - quel che resta della cultura di sinistra - pensano che la strada sia quella opposta, cioè, per usare le parole di Luciano Gallino, un New Deal (finanziato con il taglio delle spese militari e di quelle per le grandi opere, una imposizione fiscale equa ed efficiente, il recupero delle risorse concesse a fondo perduto alle banche) fondato su un piano di interventi pubblici finalizzati alla piena occupazione, alla razionalizzazione del welfare, al reddito di cittadinanza, alla riconversione ecologica, al riassetto del territorio e delle infrastrutture del paese, alla valorizzazione dei migranti e via elencando. Sono due prospettive inconciliabili. Il Pd, cioè il perno della coalizione invocata da Asor Rosa, ha scelto la prima, nelle parole e con i fatti: appoggiando senza se e senza ma il governo Monti, contribuendo ad approvare il fiscal compact e la modifica costituzionale sul pareggio di bilancio, avallando la riduzione delle tutele del lavoro, sostenendo le grandi opere, eludendo nei fatti l'esito referendario in favore dell'acqua pubblica eccetera. Sono scelte di tutto il partito, non scalfite da qualche isolato «mal di pancia», presto rientrato in attuazione di quella disciplina che si è deciso di estendere all'intera coalizione. Scelte legittime, ovviamente: ma per quale ragione al mondo chi non le condivide e le osteggia dovrebbe sostenerle col proprio voto? Non è questo cinismo di fronte ai contenuti che uccide la democrazia e la politica?
 
Secondo. Asor Rosa cerca di uscire dalla stretta osservando che l'alleanza con Vendola e un grande successo elettorale potrebbero rimescolare le carte. Su quali basi non è dato sapere e anzi, la cosa appare a dir poco difficile, anche a non considerare la variabile Renzi... La scelta del Pd è, infatti, risalente e tradotta in una pluriennale attività di governo. Lo ha ammesso persino Romano Prodi scrivendo, in un empito di sincerità, che negli anni di governo dell'Ulivo «il cambiamento della società è continuato secondo le linee precedenti: una crescente disparità nelle distribuzione dei redditi, un dominio assoluto e incontrastato del mercato, un diffuso disprezzo del ruolo dello Stato e dell'uso delle politiche fiscali, una presenza sempre più limitata degli interventi pubblici di carattere sociale» (Il Messaggero, 15 agosto 2009). Tutto questo - è bene non dimenticarlo - ha, per di più, marginalizzato l'attenzione alla «questione morale», contribuendo a trasformare la corruzione nel sistema in corruzione del sistema. Solo chiudendo gli occhi si può pensare che questa linea politica cambi nei tempi brevi e, soprattutto, sull'onda di una vittoria elettorale (che secondo ogni logica la confermerebbe).
 
Terzo. Arriviamo all'ultimo punto: non c'è alternativa. È questo l'errore più grave. Inutile dirlo: l'alternativa non è la riedizione di esperienze verticistiche, burocratiche e perdenti come quella della Sinistra Arcobaleno del 2008. Da allora, molte cose sono cambiate, a cominciare dall'esperienza dei referendum sull'acqua pubblica e sul nucleare del 2011 (su cui all'inizio erano in pochi a scommettere...) e dal rifiuto diffuso di assetti di potere consolidati. Oggi sono i fatti a richiedere una iniziativa politica nuova, nei contenuti e nel metodo, e intransigente (categoria lontana le mille miglia dalla presunzione). Una iniziativa che parta non da apparati ma da persone di buona volontà e che aggreghi movimenti, associazioni, singoli, amministratori di piccole e grandi città in un progetto di rinnovamento delle stesse modalità della rappresentanza. So bene che è un'operazione complicata e che, rispetto alle elezioni del prossimo aprile, siamo in ritardo. Ma qualcosa si muove (lo si è visto, per esempio, nell'incontro promosso a Torino da Alba il 6 e 7 ottobre) e - come la storia dimostra - i processi di cambiamento iniziano da piccole incrinature del pensiero unico. Comunque, la difficoltà dell'impresa non è una buona ragione per rinunciarvi. Di questo (e non di una anacronistica assemblea nazionale programmatica del Pd...) sarebbe bene discutere da domani.



sabato 13 ottobre 2012

Comunicato stampa con proposta di modifica statuto Fondazione MPS

 
 Un pubblico attento e numeroso ha seguito la conferenza stampa aperta organizzata dai circoli cittadini Città Domani – Sinistra per Siena, Peppino Impastato dell’IDV e Viro Avanzati di Rifondazione Comunista per presentare la proposta di una profonda revisione dello statuto della Fondazione MPS, da mettere in atto subito per cambiare radicalmente il modo di operare di un ente che ha sperperato un immenso patrimonio della Città.

In sintesi le proposte prevedono: obbligo di gestire direttamente il proprio patrimonio, che è funzione caratteristica non delegabile; poteri di nomina della Deputazione Generale che tornino nelle mani degli organi elettivi (comune, provincia, regione) e non più di sindaco e presidenti; riduzione del numero dei componenti la Deputazione amministratrice; poteri di revoca da parte degli organi nominanti; bandi pubblici per la formazione di elenchi di candidati e voto limitato per evitare inciuci; ineleggibilità di coloro che sono stati amministratori o dirigenti di comune, provincia, regione e società partecipate nei cinque anni precedenti la nomina; divieto per gli amministratori della Fondazione di assumere incarichi nelle società partecipate dalla stessa; compensi dei membri della Deputazione Amministratrice equiparati a quelli del Sindaco e degli Assessori del Comune di Siena, e per la deputazione generale limitati ad una gettone di presenza di 300 euro mensili (contro gli attuali 2.000); spese di funzionamento generale della Fondazione non eccedenti una quota prestabilita dal bilancio.

Infine, dato il carattere di soggetto rappresentante un’intera comunità, è stata affermata la necessità che tutti gli atti della Fondazione siano pubblici ed improntati alla massima trasparenza.
Con questa proposta i circoli intendono stanare le forze che ancora resistono al cambiamento e costringerle ad un confronto di merito, senza tante manfrine come quelle di chi parla di revisione dello statuto avendo in mente solo provvedimenti di facciata.

Nel corso della serata è stato inoltre ripresa la proposta, già presentata all’assemblea dell’associazione degli Azionisti per il Buongoverno MPS, di una revisione della struttura della banca che consenta di salvare il salvabile, mettendo al riparo il cuore essenziale del Monte dei Paschi dalla rapina che sta tentando di sottrarlo alla città. La proposta prevede sostanzialmente di dividere in due la banca, conservandone per un terzo la parte operante nei territori dell’Italia centrale con un controllo reale in testa alla Fondazione ed quindi alla comunità senese e lasciando al processo di normalizzazione voluto dai neoliberisti e dal governo quei due terzi che operano nel resto del paese.
Anche questa è una proposta verso la quale non ci si può girare dall’altra parte: chi ha avuto tanta parte nel disastro che è stato combinato, cerchi di mettere la testa al lavoro per ridurre al minimo i danni.

A conclusione dell’assemblea i circoli si sono presi l’impegno a promuovere una petizione popolare ed iniziative in tutte le sedi per avviare un’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori della Banca e della Deputazione Amministratrice della Fondazione affinché siano chiamati a rispondere legalmente ed in solido dei danni procurati alle istituzioni da loro amministrate ed alla comunità senese.
Siena, 13 ottobre 2012










Fondazione Monte dei Paschi




Il virtuoso Sistema Siena si è involuto in un gorgo di clientelismo provinciale che ha inghiottito tutto, dall'Università alla Banca, dal Santa Maria della Scala al Comune e che minaccia ogni altra istituzione distruggendo ogni prospettiva. L'enorme quantità di quattrini che il Monte dei Paschi faceva piovere sui buoni e sui cattivi ha portato ad una degenerazione in cui non contano più la qualità dei progetti e delle persone, ma l'affiliazione e la spartizione”.



E' da questa accertata premessa che il Circolo Città Domani – Sinistra per Siena, il Circolo Peppino Impastato dell'Italia dei Valori e il Circolo Viro Avanzati del Partito della Rifondazione Comunista intendono partire per sottolineare il carattere politicamente corruttivo di alcune norme dell'attuale Statuto della Fondazione e per chiedere alla società civile senese e agli organi competenti per la sua revisione uno straordinario e immediato impegno capace di imporre una svolta e una riscossa civile.
La Fondazione ha mancato clamorosamente gli obiettivi minimi stabiliti dagli articoli 3, 4, e 5 del proprio statuto contravvenendo in particolare il principio essenziale della salvaguardia della consistenza del suo patrimonio e la sua valorizzazione a causa soprattutto dell’assoluta mancanza di autonomia e della subordinazione al sistema di potere che l'hanno spinta ad avallare scelte maturate al suo esterno e sulle cui conseguenze, nella maggior parte dei casi, non esisteva la benché minima consapevolezza.
Questa drammatica situazione si è verificata in quanto l'organo di indirizzo e l'organo di amministrazione della Fondazione sono stati concepiti fin dall'inizio come strumenti finalizzati alla mera gestione delle risorse e all'erogazione degli utili che la banca avrebbe ineluttabilmente realizzato, producendo un'attenzione pressoché esclusiva ad una distribuzione che non scontentasse nessuno, alimentando un sistema di clientele e un sottobosco di potere che nulla avevano a che vedere con le finalità perseguite dall'attuale statuto.
La Fondazione stessa è diventata un organo autoreferenziale ben poco attenta al suo ruolo di azionista di riferimento del Monte dei Paschi e priva di capacità di selezionare le politiche che avrebbe dovuto esprimere. In molti campi la sua struttura, già eccessiva, ha prodotto una molteplicità di centri di spesa (società controllate e partecipate, incarichi di consulenza) generando costi assolutamente insostenibili.




Per produrre una nuova etica dell'amministrazione del bene comune che la Fondazione rappresenta servono immediati interventi:


A) Gestione del patrimonio della Fondazione.
Eliminare radicalmente ogni possibilità di far ricorso a soggetti ed entità esterne: la gestione del patrimonio è funzione caratteristica che va svolta con risorse proprie ed all'interno della propria struttura operativa responsabile dei risultati.

B) Senesità
La Banca deve tornare alle origini, in altre parole esercitare la funzione di Banca del Territorio che fa credito alle imprese e le aiuta nei loro investimenti, che sostiene le iniziative produttive nell'agricoltura e nell'ambiente, che valorizza la cultura e l'arte di cui è ricca la nostra terra contribuendo per questa via a creare occupazione e certezza per le future generazioni. Rifiutiamo una banca con aspirazioni monopolistiche che investe in titoli spazzatura e specula sui titoli di Stato.
Per questo la Senesità passa oggi attraverso un progetto di scissione della Banca attuale: da un lato quella nazionale che persegue i suoi obiettivi di globalità senza “l'onere” degli interessi locali, dall'altro una banca regionale dell'Italia centrale e di ridotte dimensioni rigorosamente sotto il controllo della Fondazione che salvaguarda l'occupazione nel territorio e che persegue quelle finalità. Non c'è tempo da perdere: il territorio faccia sentire la sua voce.
La residenza nel territorio dell'attuale provincia di Siena di una parte degli amministratori della fondazione non può essere una norma finta: o è una residenza che risale ad alcuni anni, o è requisito che va eliminato.

D) Poteri di nomina
La Deputazione generale, ricondotta ai suoi compiti essenziali di indirizzo, deve essere nominata dagli organi collegiali di elezione diretta da parte dei cittadini (Comune di Siena, Provincia, Regione) e, in misura da definire, dagli enti pubblici e provati “radicati sul territorio ed espressivi, per tradizione storica senese, di interessi meritevoli di essere rappresentati nell’organo di indirizzo” (secondo gli indirizzi della Corte Costituzionale) e non più da singole persone, benché democraticamente investite di poteri di governo, che ottengono smisurati vantaggi personali dalla riconoscenza dei nominati a scapito della loro autonomia critica.
La Deputazione amministratrice, nominata a sua volta da quella generale, può essere utilmente ridimensionata e ridotta a tre membri compreso il presidente.
Fermo restando il rapporto di autonomia previsto dalla legge tra nominanti e nominati gli enti nominanti nei confronti della deputazione generale e la deputazione generale nei confronti di quella amministratrice e del presidente devono essere investiti di poteri di revoca in caso di accertate e conclamate violazioni statutarie o per inosservanza degli indirizzi generali prestabiliti.





E) Meccanismi di nomina
Ritenendo fondamentale il possesso dei titoli culturali e professionali e di comprovate esperienze e competenze in capo ai candidati, si chiede l'istituzione con bandi pubblici di un albo permanente e annualmente aggiornato da cui individuare gli eletti con forme di votazione che garantiscano il più ampio pluralismo democratico e culturale evitando pasticciati accordi consociativi. A questo scopo devono essere previste forme di votazione che prevedano un voto limitato e l'obbligo di assicurare che una quota di nominati sia scelta tra le candidature presentate da enti ed associazioni estranee a Comune, Provincia e Regione.

F) Incompatibilità
Introdurre un criterio di incompatibilità per le candidature e le nomine che impedisca di usare la Fondazione come sede per il carrierismo di casta anche attraverso la revisione drastica dei compensi come appresso. Saranno dunque non candidabili e non eleggibili gli amministratori (sindaci, presidenti e assessori), i dirigenti in carica e quelli che lo sono stati nei cinque anni precedenti alla nomina dei comuni della Provincia di Siena, della Provincia, della Regione Toscana e delle aziende e società partecipate e, in modo particolare, della banca conferita ria MPS.
Introdurre un divieto per gli amministratori della Fondazione in carica di assumere incarichi amministrativi e di essere assunti alle dipendenze di enti, Istituzioni e società partecipate dalla Fondazione e dalla Banca, né di soggetti che durante il mandato beneficino delle provvidenze della Fondazione. In caso contrario decadenza automatica dall'organo.

G) Compensi e costi
Per il presidente e per i componenti della deputazione amministratrice i compensi non devono eccedere quelli previsti rispettivamente per il sindaco e per gli assessori del Comune di Siena.
Per i componenti della deputazione generale, oltre al rimborso delle spese vive, prevedere la corresponsione di un gettone di presenza non superiore a trecento euro lordi a seduta rispetto a quello attuale tuttora esorbitante nonostante le recenti riduzioni.
Limitare al minimo indispensabile tutti gli incarichi esterni che siano comunque deliberati dall'organo amministrativo comparando un adeguato numero di offerte di soggetti diversi.
Le spese generali di funzionamento della Fondazione (amministratori, personale, beni e servizi) non possono comunque eccedere una percentuale predefinita del bilancio annuale (es. 20%). Ogni superamento comporta la decadenza automatica degli organi.

Siena, ottobre 2012

Circolo Città Domani – Lista Sinistra per Siena
Circolo Peppino Impastato – Italia dei Valori
Circolo Viro Avanzati – Rifondazione Comunista

Ci vorrebbe una rivoluzione

di Franco Arminio

La scuola per i governi italiani è una faccenda di spese da ridurre, non è nient'altro che questo. Quello che dovrebbe essere il cuore di ogni società viene trattato alla stregua di un'unghia incarnita. A furia di ricevere scarsa considerazione, anche tra chi ci lavora dentro si è fatta strada un'ottica che tende a rimpicciolire le straordinarie esperienze dell'insegnare e dell'imparare.

Forse non serve un giorno di sciopero se poi si ritorna rassegnati nell'angolo. E non si può reagire ai tagli riducendo il proprio impegno. Quello che i governanti non capiscono è che l'Italia ha bisogno di più scuola. Bisognerebbe tenere aperte le aule anche di pomeriggio e di sera. L'errore della politica è di considerarla un comparto particolarmente oneroso del pubblico impiego.

La scuola non è un insieme di uffici, è arte, politica, religione, cultura, è compagnia, è lavoro, è gioia, è futuro. La scuola dovrebbe essere un vulcano in mezzo alla società, così dovrebbe essere concepita e costruita, non come una scodella di avanzi, come un residuo tollerato di un mondo che non c'è più. Gli stregoni che invocano la crescita dovrebbero adoperarsi per far crescere gli apprendimenti, per aumentare l'entusiasmo di insegnanti e alunni. E non è questione solo di stipendi. Le scuole dovrebbero avere intorno tutta una seria di premure. Una nazione non è un'azienda e una società non può stare appesa al valore della sua moneta.
 
Lo sciopero di oggi deve essere l'affermazione del valore immenso che hanno i rapporti umani, quello che ci diciamo, i sorrisi, i rimproveri, il parlarsi dentro un'aula, sentirsi una comunità che costruisce qualcosa, che non è lì per passare un po' di tempo. La scuola dovrebbe essere la metà dell'agenda di ogni Governo, di ogni Regione, di ogni Provincia, di ogni Comune. E invece abbiamo avuto un ministro come la Gelmini.
 
Il governo dei professori sta lavorando su tempi stretti e rimettere in piedi la casa del sapere non è impresa da pochi mesi, ma neppure si può lavorare come se fosse solo una questione di soldi. La politica non è la distribuzione del denaro. La politica deve guardare ai bambini di tre anni e ai ragazzi di venti. Il giorno in cui caddero le torri il presidente americano era in visita in una scuola elementare. In Italia dentro un'aula è difficile portare anche i sindaci. I politici sono imbarazzati davanti ai bambini, ai ragazzi, ai giovani.
 
In questi giorni nelle prime elementari i bambini stanno imparando a leggere e a scrivere. È un travaglio che meriterebbe tante cure e invece avviene come se ogni aula fosse un sottomarino. Da questo punto di vista siamo tornati indietro. Nelle scuole non c'è spazio per sperimentare, non solo mancano le risorse, manca l'attenzione della società. La scuola è la prima forma della politica, è il primo esercizio di cittadinanza e invece è ridotta a un parcheggio dove chi sta avanti non può andare più avanti e chi sta indietro non viene aiutato a farsi avanti. Un meccanismo bloccato, una macchina senza ruote. 

Dopo lo sciopero bisognerebbe inventarsi qualcos'altro per dire che la scuola si ammutina, non partecipa alla triste pagliacciata di una società egoista e senza slanci. La scuola deve ritirarsi da questo mondo senz'anima, deve essere fiera della sua inattualità, deve svolgere una serena obiezione al contingente, perché la posta in palio è immensa: è la forza di stare tra gli uomini e nei luoghi, nella propria casa e nell'universo.
 
Altro che due ore in più o in meno, altro che il ronzio ragionieristico con cui ci assillano: i politicanti ormai sembrano mosche nelle orecchie dei cavalli. C'è un'enorme dismisura tra un bambino che scrive alla lavagna la sua prima parola intera e il fatuo balbettio mediatico. I soldi che hanno tolto alla scuola in questi anni sono ben poca cosa rispetto al disamore con cui è stata guardata.
 
L'Italia ha rottamato la pubblica istruzione e si è affidata alla televisione, fino ad eleggere a capo del governo il padrone dell'etere. Ora è tempo di rottamare la televisione e di rimettere al centro la scuola. Ci vuole una vera e propria rivoluzione ed è più urgente del risanamento del debito.

venerdì 12 ottobre 2012

La barbarie del governo contro le persone con disabilità

di Paolo Ferrero

Nella manovra di stabilità vi sono provvedimenti di cui nessuno parla.
In primo luogo non appare l’ennesimo giro di vite sulle persone con disabilità e sulle loro famiglie. Il provvedimento sottopone le pensioni di invalidità all’IRPEF e per questa via le riduce. In secondo luogo vengono dimezzati i permessi lavorativi ai figli che devono assistere i genitori con disabilità grave.  Non so esattamente quanto denaro porterà nelle casse dello stato questo provvedimento ma so che è un provvedimento barbarico, indegno di un paese civile. Infatti questi provvedimenti si sommano ad altri che hanno sostanzialmente azzerato i fondi per le persone con disabilità. I governi Berlusconi prima e Monti poi hanno sostanzialmente azzerato i fondi per la spesa sociale.
Quando ero ministro del governo Prodi ero riuscito a portare i fondi per il sociale a 2 miliardi e mezzo, adesso questi fondi assommano a 270 milioni di euro. Un taglio di oltre 2 miliardi che si aggiunge ai tagli dei trasferimenti agli enti locali e alle regioni – i titolari della spesa sociale - con effetti disastrosi per la pubblica assistenza.
Io non credo che nel paese vi sia una esatta consapevolezza di cosa significa tutto questo. Le persone con disabilità non fanno notizia e sono vissute come un fatto privato delle famiglie e delle associazioni di autotutela. Ci troviamo però di fronte a milioni di persone che sono abbandonate a loro stesse. Pensate a cosa vuol dire per una famiglia a reddito medio avere un genitore non autosufficiente in assenza di un sostegno pubblico: da mille euro al mese di spesa in su con un completo stravolgimento della propria vita attorno al genitore non autosufficiente. Se la famiglia deve essere il luogo degli affetti , in troppi casi la famiglia diventa il luogo della disperazione. La Bibbia dice “non caricate sulle spalle degli altri pesi che non possono portare”. Io penso che il governo stia facendo esattamente questo: sta caricando sulle spalle dei più deboli e dei loro famigliari pesi che non possono portare.
Questa situazione è tanto più vergognosa perché mentre le persone con disabilità ed in particolare gli anziani vengono abbandonati a se stessi, il governo trova le risorse per le banche private: nella spending review sono previsti 2 miliardi per il Monte dei Paschi di Siena e dei circa 60 miliardi che l’Unione Europea darà alle banche private spagnole, 10 verranno versati dal governo italiano. Vado dicendo queste cose da tempo ma non riesco a farmi ascoltare, i giornali e i telegiornali non ne parlano. Dall’informazione magicamente scompaiono sia i finanziamenti alle banche che i tagli verso i più deboli. I più forti e i più deboli sono cancellati dalla discussione: gli uni perché preferiscono agire nell’ombra, gli altri perché vengono nascosti sotto il tappeto, come la polvere.  Il mio è quindi un grido di allarme. Uno stato che trova i soldi per le banche e li toglie alle persone con disabilità non è più un paese civile, è diventata un’altra cosa e i partiti politici che fanno finta di non vedere gli effetti delle loro decisioni fanno parte del problema, non della soluzione.

mercoledì 10 ottobre 2012

IL PRC SUL MONTE DEI PASCHI DI SIENA:

 
No ai licenziamenti, no alla privatizzazione, si alla ripubblicizzazione!

 Le ragioni della crisi che sta attraversando il MPS sono complesse e certamente non recenti. Come è possibile che una delle banche più solide del mondo, con una tradizione plurisecolare si trovi oggi, parole del suo presidente Profumo, a dover ricapitalizzare per rientrare degli oltre 3,4 miliardi che la banca deve allo stato in virtù dei titoli acquisiti?
Naturalmente la ricetta proposta dai soliti manager super pagati è sempre la stessa in ogni occasione e latitudine: esternalizzazione (leggi privatizzazione) di tutta una serie di funzioni e taglio di 2360 lavoratori (secondo i giornali 1600 “trattabili”). Ricetta non nuova e per altro più volte auspicata sia dal piano di rinascita nazionale della P2 che dalle oligarchie europee.
In questo quadro così drammatico, per una banca che altrimenti sarebbe solida e forte, le responsabilità politiche, in particolare del Partito Democratico che governa Siena, sono evidenti. L’adesione acritica a modelli “privatistici” e liberisti che in questi anni hanno fatto egemonia anche a sinistra (producendo danni tra i quali il ridimensionamento del ruolo della fondazione all’interno della banca), e l’incapacità, da parte di una classe politica troppo “assorbita” da scontri interni più che a dare una risposta alla crisi del MPS (lasciando questo compito al “tecnico” di turno), stanno portando al disastro.
Questa situazione non è più tollerabile e per uscirne non è sufficiente l’ordinaria amministrazione ma è necessario un deciso cambio di strategia.
  1. Nell’immediato chiediamo che siano ritirati i licenziamenti programmati e che in questo senso si attivino tutti quei soggetti istituzionali, dalla Regione Toscana al Comune di Siena, che a vario titolo e con diversi gradi di responsabilità hanno ancora voce in capitolo sulle strategie della banca.
  2. Intraprendere una decisa azione politica affinché, come accaduto non in Corea del Nord, bensì negli USA, a fronte di un intervento economico dello Stato, non si proceda con ulteriori esternalizzazioni, tagli del personale e apertura della banca, attraverso la ricapitalizzazione, di nuovi capitali privati, ma il Governo entri, per la quota parte coincidente con il credito acquisito col MPS, direttamente nel CdA della banca permettendo così un duplice risultato: A) Dare ossigeno al MPS e permettere ad un istituto che, ripetiamo, è sano e forte sul mercato, di riprendere la propria attività senza essere costretto a rientrare da un debito che, così, si trasformerebbe in una sorta di ricapitalizzazione ma avente come partner il Governo Italiano e non i capitali privati. B) Permettere al governo di poter avere voce in capitolo relativamente alle strategie di una banca importantissima in un momento in cui il volano del credito alle imprese e ai cittadini è decisivo per chiunque voglia rispondere alla crisi non solo attraverso tagli insostenibili, ma soprattutto grazie al rilancio di una politica industriale.

Stefano Cristiano
Segretario Regionale PRC-FdS Toscana

lunedì 8 ottobre 2012

20 ottobre a Roma per il lavoro

                                    di Loris Campetti, dal Manifesto.
 
Hanno svalorizzato il lavoro, grazie all'impegno sistematico di più governi che si sono passati il testimone. Hanno svalutato i salari e le pensioni, mentre era in atto una riduzione drastica del welfare. Il futuro di ormai ben più di una generazione di giovani è stato sequestrato.
Così la crisi e chi la pilota, oggi, «ha la meglio» persino sui bisogni primari delle persone. Automaticamente le conseguenze del disastro vengono scaricate sui poveracci che non hanno né stock option né suv pagati dalla collettività per sopportare le valanghe di neve della Città Eterna.
E sembra a troppi persino normale che in queste condizioni si pretenda da chi ancora un lavoro ce l'ha, magari cassintegrato o precario, di rinunciare ai suoi diritti perché oggi come oggi non ce li possiamo permettere.

Il risultato è davanti agli occhi di tutti, persino di De Benedetti che scopre che le promesse di Marchionne erano favole.
Anzi, lui l'ha sempre saputo, ci ha fatto sapere quando l'amministratore delegato Fiat ha tolto la maschera che aveva solo per chi non voleva guardarlo in faccia: peccato che il suo impero editoriale non abbia brillato nello smascheramento della favole e nel sostegno degli operai di Pomigliano e Mirafiori.
 
Senza investimenti, senza un progetto di politica economica e sociale all'altezza della crisi, il lavoro scompare e l'incertezza domina la vita di decine di milioni di persone. Fiat, Alcoa, Ilva sono solo i titoli del disastro sociale, ambientale e democratico. Dall'isola dei cassintegrati al campanile di San Marco c'è chi tenta di resistere pretendendo un cambiamento delle politiche del governo, non possiamo lasciare soli questi lavoratori.
 
La manifestazione indetta dalla Cgil e dalla Fiom per il 20 ottobre a Roma dei dipendenti di tutte le aziende in crisi, con la partecipazione di chi non riesce più a vivere con una pensione sterilizzata, è un passo positivo e importante per non lasciare soli i target del montismo, che siano in tuta o in camice, e possiamo aggiungere per non lasciare sola la Fiom che troppo a lungo sola si è trovata, in una lotta durissima contro la filosofia di Marchionne e il marchionnismo dilagante persino tra i candidati alle primarie del Pd e tra troppi sindaci democratici. 
Piazza San Giovanni è una buona piazza, una piazza che può dare fiducia e rappresentare il primo di una serie di appuntamenti per restituire voce e protagonismo ai lavoratori, ai pensionati, ai precari, ai disoccupati.
 
L'appuntamento successivo dovrebbe essere lo sciopero generale nazionale, inopportunamente cancellato dall'agenda della Cgil: non si tratta di fare ginnastica, di autoconfermarsi, di agitare bandiere sbiadite ma di togliere il tappo a un paese tramortito e troppo a lungo zittito, ma non ancora piegato alle leggi del dio mercato. Una grande manifestazione in piazza San Giovanni e poi uno sciopero generale per dire che c'è un'altra Italia oltre a quella liberista che ci comanda per interposto governo e oltre a quella dei suv, delle vacanze ai Caraibi, insomma un'altra Italia da quella dei ladroni e dei padroni.
 
È importante che la Cgil, e non solo la Fiom, abbia deciso di dare un segnale nell'unico paese europeo in cui gli altri sindacati non aderiscono agli scioperi contro il modello economico che uccide lavoro, salari, pensioni e diritti. La Fiom, accerchiata dall'esterno e che qualcuno anche dall'interno vorrebbe far traballare, ha superato due prove importanti nell'arco di sole 48 ore: mercoledì ha eletto una nuova segreteria confermando la fiducia del gruppo dirigente nazionale a Maurizio Landini e alle scelte difficili e radicali di questa stagione e ieri ha raccolto l'ascolto e il consenso degli operai che più di tutti sono sotto l'occhio del ciclone: gli operai dell'Ilva di Taranto, dove pure la Fiom non aveva la maggioranza dei consensi, oggi ascoltano e applaudono Landini che ha «il coraggio» di non scioperare e manifestare insieme al padrone contro la magistratura e ricorda a tutti, in tuta o in veste ministeriale, che chi minaccia il lavoro e attacca la salute è il padrone. 

Bisogna sapere chi è l'avversario principale e dove si annida. E bisogna riconoscere anche gli altri avversari: il governo Monti e la sua politica economica classista, lo stesso governo assente e ostile chiamato in causa dai lavoratori dell'Alcoa, della Fiat, della Vinyls e di tutte le aziende in crisi. In crisi di lavoro, ma anche di democrazia.
San Giovanni è una prima risposta importante. Aspettando la prossima.

martedì 2 ottobre 2012

Ora di religione: l'insostenibile leggerezza di Profumo

di Vito Meloni

Ora che il fuoco delle polemiche sembra essersi spento, c'è modo di provare a ragionare sulle dichiarazioni di Profumo sull'insegnamento della religione cattolica nelle scuole italiane.
Comincio con una citazione: “In Italia tira più un pelo di vescovo che milioni di studenti...”. Questa frase, postata da un anonimo su un blog, mi sembra che commenti efficacemente le reazioni a quelle dichiarazioni di una parte del mondo cattolico, corroborate da quelle dei tanti politici sempre pronti a genuflettersi davanti agli interessi delle gerarchie ecclesiastiche.
C'è da dire che Profumo non smette di stupirci per l'approssimazione, spesso condita con una buona dose di demagogia, con cui affronta i complessi problemi in carico al dicastero a lui inopinatamente affidato.

Basti ricordare, solo per citare alcune delle sue perle, dichiarazioni come “36 alunni in una classe possono essere pochi se si usano le nuove tecnologie” (a proposito delle classi pollaio), oppure “il concorso è una opportunità per i giovani laureati” e “i posti del concorso saranno in numero maggiore al sud”  (sul concorso-truffa, affermazioni clamorosamente smentite dal bando che egli stesso ha firmato!).
 
In questa occasione, tuttavia, si deve riconoscere che l'ineffabile ministro è partito da un dato di realtà: la presenza nelle nostre classi di una moltitudine di ragazze e ragazzi appartenenti a culture e fedi diverse da quella cattolica (e già, perché non va dimenticato che l'insegnamento di cui si parla non è di religione tout court, ma di religione cattolica). Da qui l'idea di trasformarlo in insegnamento di Storia delle religioni o di Etica.
 
Tutto bene? Solo se ci si ferma alla superficie del problema; se si va più a fondo si può vedere, invece, quanto la proposta di Profumo sia inadeguata. Il primo dato di fatto con cui fare i conti è che, in virtù del Concordato e delle Intese che ne sono seguite, i programmi di religione sono stabiliti dalla Conferenza Episcopale Italiana. In teoria di concerto con il ministero della pubblica istruzione, di fatto unilateralmente. Ad esempio, quando la Gelmini nel 2010 ha adottato i programmi attualmente in vigore, si è limitata a trasmetterli alle scuole così come le erano pervenuti dalla CEI. Sicuramente sarà stata ben felice di farlo, ma se per caso avesse voluto dire la sua si sarebbe scontrata con la competenza esclusiva della CEI, stabilita da una legge dello stato, a “definirne la conformità alla dottrina della Chiesa”! Come se non bastasse, i docenti cui è affidato l'insegnamento della religione cattolica sono sì pagati dallo stato, ma scelti ad insindacabile giudizio dell'Ordinario diocesano competente per territorio. Per inciso, sono circa trentamila, la gran parte a tempo indeterminato, assunti senza alcuna selezione e con la garanzia che, dopo alcuni anni di servizio, saranno immessi in ruolo automaticamente (per loro le chiacchiere sulla asserita selezione per merito attraverso il concorso evidentemente non valgono!).
 
A meno di non pensare che Profumo avesse in mente la revisione del Concordato, ipotesi da egli stesso smentita dalle colonne del Corriere della sera, ne consegue che il nuovo insegnamento sarebbe affidato agli stessi docenti di religione e che i relativi programmi sarebbero sempre definiti dalla CEI in “conformità alla dottrina della chiesa”. Lascio a voi immaginare con quale obiettività e con quanto rigore scientifico.
 
Peggio ancora nel caso l'insegnamento diventasse di Etica! Ci sarebbe già da preoccuparsi per l'introduzione di un'etica di Stato, figuriamoci poi se lo Stato è quello Vaticano!
Ecco dunque il punto: può un Ministro della Repubblica affrontare un tema così delicato con tanta leggerezza? Piuttosto che aprir bocca e dargli fiato su argomenti che evidentemente conosce poco, Profumo farebbe meglio ad occuparsi di quello che il suo ministero può concretamente fare. Perché, malgrado l'insegnamento della religione cattolica sia facoltativo, come autorevolmente ribadito dalla Corte Costituzionale, la strada di chi non intende avvalersene è irta di ostacoli tali da rendere quanto meno problematico l'effettivo il diritto di scelta da parte degli studenti. 

Chi conosce la realtà delle nostre scuole sa che in troppi casi, nell'indifferenza degli organi di controllo, a partire dal Ministero e dai suoi uffici periferici, le opzioni previste dalla legge non sono rese praticabili. In particolare, non vengono tempestivamente programmati e a volte nemmeno attivati gli insegnamenti alternativi. Nella maggior parte dei casi l'unica alternativa possibile è quella dello “studio individuale”, che nella pratica si traduce nel mettere insieme in una classe gli studenti che non si avvalgono, a volte senza nemmeno la vigilanza di un insegnante, che pure sarebbe dovuta.
 
Lo stesso non accade per chi si avvale dell'IRC. Se, per esempio, in una classe un solo studente la scegliesse, a lui sarebbe garantito l'insegnante di religione. Un insegnante per un solo studente, in questo caso non c'è spending review che tenga. Lo sanno bene quei presidi che hanno tentato di gestire queste situazioni accorpando gli studenti di classi diverse e che per questo hanno dovuto affrontare le ire delle gerarchie ecclesiastiche spalleggiate, neanche a dirlo, dai provveditorati scolastici. Su di loro l'ira di Dio, come titolava con la solita efficacia il manifesto qualche giorno fa.
Certo, affrontare queste piccole questioni non sarebbe risolutivo del problema della laicità dello Stato e delle sue istituzioni, la strada maestra resta quella dell'abrogazione delle norme concordatarie.
Ad ordinamento vigente sarebbe tuttavia un piccolo passo avanti.
Si impegni in questa direzione signor Ministro. Per poco che valga avrebbe il mio plauso.