La scuola per i governi italiani è una faccenda di spese da ridurre, non è nient'altro che questo. Quello che dovrebbe essere il cuore di ogni società viene trattato alla stregua di un'unghia incarnita. A furia di ricevere scarsa considerazione, anche tra chi ci lavora dentro si è fatta strada un'ottica che tende a rimpicciolire le straordinarie esperienze dell'insegnare e dell'imparare.
Forse non serve un giorno di sciopero se poi si ritorna rassegnati nell'angolo. E non si può reagire ai tagli riducendo il proprio impegno. Quello che i governanti non capiscono è che l'Italia ha bisogno di più scuola. Bisognerebbe tenere aperte le aule anche di pomeriggio e di sera. L'errore della politica è di considerarla un comparto particolarmente oneroso del pubblico impiego.
La scuola non è un insieme di uffici, è
arte, politica, religione, cultura, è compagnia, è lavoro, è gioia, è
futuro. La scuola dovrebbe essere un vulcano in mezzo alla società, così
dovrebbe essere concepita e costruita, non come una scodella di avanzi,
come un residuo tollerato di un mondo che non c'è più. Gli stregoni che
invocano la crescita dovrebbero adoperarsi per far crescere gli
apprendimenti, per aumentare l'entusiasmo di insegnanti e alunni. E non è
questione solo di stipendi. Le scuole dovrebbero avere intorno tutta
una seria di premure. Una nazione non è un'azienda e una società non può
stare appesa al valore della sua moneta.
Lo sciopero di oggi deve
essere l'affermazione del valore immenso che hanno i rapporti umani,
quello che ci diciamo, i sorrisi, i rimproveri, il parlarsi dentro
un'aula, sentirsi una comunità che costruisce qualcosa, che non è lì per
passare un po' di tempo. La scuola dovrebbe essere la metà dell'agenda
di ogni Governo, di ogni Regione, di ogni Provincia, di ogni Comune. E
invece abbiamo avuto un ministro come la Gelmini.
Il governo dei
professori sta lavorando su tempi stretti e rimettere in piedi la casa
del sapere non è impresa da pochi mesi, ma neppure si può lavorare come
se fosse solo una questione di soldi. La politica non è la distribuzione
del denaro. La politica deve guardare ai bambini di tre anni e ai
ragazzi di venti. Il giorno in cui caddero le torri il presidente
americano era in visita in una scuola elementare. In Italia dentro
un'aula è difficile portare anche i sindaci. I politici sono imbarazzati
davanti ai bambini, ai ragazzi, ai giovani.
In questi giorni nelle
prime elementari i bambini stanno imparando a leggere e a scrivere. È un
travaglio che meriterebbe tante cure e invece avviene come se ogni aula
fosse un sottomarino. Da questo punto di vista siamo tornati indietro.
Nelle scuole non c'è spazio per sperimentare, non solo mancano le
risorse, manca l'attenzione della società. La scuola è la prima forma
della politica, è il primo esercizio di cittadinanza e invece è ridotta a
un parcheggio dove chi sta avanti non può andare più avanti e chi sta
indietro non viene aiutato a farsi avanti. Un meccanismo bloccato, una
macchina senza ruote.
Dopo lo sciopero bisognerebbe inventarsi
qualcos'altro per dire che la scuola si ammutina, non partecipa alla
triste pagliacciata di una società egoista e senza slanci. La scuola
deve ritirarsi da questo mondo senz'anima, deve essere fiera della sua
inattualità, deve svolgere una serena obiezione al contingente, perché
la posta in palio è immensa: è la forza di stare tra gli uomini e nei
luoghi, nella propria casa e nell'universo.
Altro che due ore in più o
in meno, altro che il ronzio ragionieristico con cui ci assillano: i
politicanti ormai sembrano mosche nelle orecchie dei cavalli. C'è
un'enorme dismisura tra un bambino che scrive alla lavagna la sua prima
parola intera e il fatuo balbettio mediatico. I soldi che hanno tolto
alla scuola in questi anni sono ben poca cosa rispetto al disamore con
cui è stata guardata.
L'Italia ha rottamato la pubblica istruzione e
si è affidata alla televisione, fino ad eleggere a capo del governo il
padrone dell'etere. Ora è tempo di rottamare la televisione e di
rimettere al centro la scuola. Ci vuole una vera e propria rivoluzione
ed è più urgente del risanamento del debito.
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