Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

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lunedì 23 agosto 2010

Lo statuto dei lavoratori secondo Marchionne!!

Un telegramma della Fiat di Marchionne ingiunge a tre lavoratori licenziati e poi reintegrati con ordinanza del giudice, di “non tornare al lavoro”, aggiungendo però che l’azienda “continuerà a rispettare gli obblighi contrattuali”, vale a dire a pagare lo stipendio, almeno fino al giorno del successivo ricorso (6 ottobre).

Il giudice aveva constatato il comportamento antisindacale della Fiat, a fronte delle proteste contro la chiusura della fabbrica di Melfi e del conseguente licenziamento dei tre lavoratori.

Fin qui l’aspetto “cronaca” del caso. Ma urgono immediatamente un paio di riflessioni di natura sociale e, se volete, anche politica. La prima impressione, quella di “pelle”, ma anche la più preoccupata, è che quest’azione sia una sorta di ripicca astiosa contro chi ha vinto un round, vale a dire i lavoratori in questione e il sindacato. Dir loro “ti pago basta che non rientri al lavoro” è uno sfregio sprezzante, una mortificazione inaccettabile al lavoro in generale, alla sua dignità.

E’ la riconversione, la degradazione inaccettabile di un valore costituzionale, civile e sociale, al rango di una sorta di compravendita di un qualsiasi prodotto al mercato: ho comprato una mela, fa schifo, non me la mangio ma te la pago lo stesso, alla fine deciderà il giudice. Un do ut des dove il parametro della mercificazione anche degli aspetti fondamentali della vita, come il lavoro, vede la propria prevalenza. Il lavoro quindi, invece di principio fondante della Costituzione, (art. 1) diventa una sorta di variabile indipendente, opinabile, funzionale. Un mero elemento contrattuale da annoverarsi fra le varie ed eventuali.

La seconda impressione è che, ormai da tempo, è il nocciolo di un processo strisciante di trasformazione ideologico-culturale da una visione non solo astratta, ma intesa anche come diritto e diritti, ad una visione genericamente valoriale, e quindi meno normata. Secondo il ministro del welfare Sacconi si deve passare dallo Statuto dei lavoratori, allo Statuto dei lavori; ma questo presuppone, ovviamente, che al centro del discorso non vi sia più l’uomo, con la sua dignità e il suo diritti, bensì una fumosa concezione dell’attività lavoro, che non necessariamente riverbera in maniera positiva sull’uomo e la propria condizione umana. Melfi, ne è appunto un segnale significativo. Non dimentichiamoci che l’intera concezione del diritto del lavoro, parte e si sviluppa su una coordinata, che è anche un assunto fondante: il diritto del lavoro è nato per sanare una condizione di sbilanciamento fra le esigenze-pretese del datore di lavoro, e l’esigenza di tutela del prestatore di lavoro, il quale si è trovato e si trova tutt’ora, comunque, in una condizione di “contraente debole”.

Il tentativo costante di ridimensionamento del sindacato (che pure ha le sue colpe); l’annunciata revisione dello Statuto, la precarizzazione del mondo del lavoro, la frammentazione dei contratti e quant’altro, sono tutti segnali che proprio il ministro ex socialista Sacconi sta mettendo in campo, lasciando dietro di sé una scia, una traccia, assolutamente evidente: egli è diventato uno dei pochissimi ministri del lavoro della storia repubblicana che non solo tende a non tutelare gli interessi e i diritti dei lavoratori in quanto uomini e donne; ma sovente non assume nemmeno una posizione mediana, di compromesso e di sintesi, come si conviene al ruolo governativo che dovrebbe esercitare.

La diffida di Melfi ai tre lavoratori non è quindi un caso, ma nasce da questo clima, da una condizione generale di precarietà dell’esistente e di grande incertezza per il futuro: lavoro esistente precario da una parte, e disoccupazione in costante aumento dall’altra. E non siamo sicuri che tutto questo dipenda dalla crisi economica; è più ragionevole pensare, che questo dipenda anche e soprattutto dalla politica.

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