Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

giovedì 29 luglio 2010

Rapporto sui diritti globali 2010 Crisi di sistema e alternative

Consiglio Regionale, Firenze, 26 luglio 2010

Il nostro annuale sforzo – condensato in questo Rapporto, giunto al suo ottavo anno consecutivo – è quello di tentare di individuare delle risposte o perlomeno di provare a fornire chiavi di lettura sulle tante facce di quel fenomeno complesso e irreversibile che chiamiamo globalizzazione. Forse un po’ presuntuosamente, consideriamo questo strumento una piccola bussola per orizzontarsi nelle turbolenze del sistema globale.

Un sistema che ha visto accentuarsi, sotto gli effetti della crisi, squilibri e ingiustizie. A livello planetario così come nelle città italiane.
Nei mesi scorsi le vicende di Rosarno hanno posto sotto gli occhi di tutti la realtà dei nuovi schiavi, quegli immigrati che lavorano duramente nelle nostre campagne e spesso muoiono nei nostri cantieri, che accudiscono i nostri vecchi e i nostri malati ma che non sono trattati da cittadini e neppure da lavoratori.
Oggi la FIAT di Pomigliano ci parla dei possibili schiavi futuri, di quei lavoratori che vedono di colpo strappati i diritti e le conquiste dei decenni precedenti e che tornano a essere semplici accessori della produzione, anziché persone titolari di diritti, quanto di doveri.
Ciò significa che le domande in campo non riguardano solo l’economia e la crisi, ma le stesse forme del vivere associato, dei valori di fondo su cui si regge la società.

Ma a chi si pone questi interrogativi non sono arrivate, e non stanno arrivando, risposte. Le nuove regole per il mercato e la finanza non sembrano giungere. La loro necessità, del resto, non pare proprio in cima alle agende politiche, pur se alcuni governi – ma non quello italiano – stanno elaborando tentativi, pur timidi e lenti.
Intanto si continuano però a chiedere sacrifici sempre e solo ai lavoratori dipendenti, ai pensionati, alle fasce sociali più deboli e già penalizzate. Questo vale nel mondo, in Europa e forse ancora di più in Italia. La nuova manovra di Tremonti, l’incombente federalismo fiscale e ancora di più le modifiche in materia pensionistica sono la fotografia e la consacrazione dell’eterna legge che divide il paese tra i nuovi e vecchi privilegiati e gli eterni tartassati, tra furbi e onesti, tra le “cricche” e chi non arriva a sostenere la propria famiglia.

Il quadro che abbiamo delineato nella nostra analisi è sintetizzabile in 10 punti:

1) La crisi è solo al suo primo atto

La crisi economica non sta alle spalle, né di lato: sta di fronte a noi. La crisi non solo non è superata ma appare sempre più come dato strutturale, in uno scenario di peggioramento e di gravi rischi per l’economia e la stabilità globale. Riconoscerlo non è catastrofismo, ma il presupposto della soluzione.
Lo dichiariamo con nettezza nel sottotitolo di copertina: questa è una crisi di sistema. L’ipertrofia dello sviluppo ha fatto bancarotta fraudolenta. Da questa evidenza bisognerebbe ripartire.
Ma ci pare non sia sufficiente individuare il problema. Bisogna immaginare e proporre delle alternative.

Qui c’è un deficit evidente che occorre sottolineare: un deficit di analisi e di informazione, una carenza di pensiero critico, di proposte concrete, di iniziativa politica. In Italia vi sono gravi ritardi nella capacità di reagire a questo stato di cose da parte non solo della politica di opposizione ma anche dei sindacati e delle forze sociali.


2) I responsabili della crisi sono stati salvati e premiati. Le vittime della crisi ne stanno pagando per intero i costi.

Basti un dato: nel 2009, le 500 principali aziende USA hanno registrato un aumento dei profitti del 335%. In compenso, hanno licenziato 761.422 dipendenti.
A livello mondiale, in due anni il numero di senza lavoro è cresciuto di 34 milioni, di cui la metà nei paesi OCSE, dove il livello di disoccupazione ha raggiunto il livello più alto del dopoguerra (Employment outlook 2010 dell’Ocse)

A livello europeo i nuovi disoccupati sono invece quasi 4 milioni.
Per quanto riguarda l’Italia, tra il quarto trimestre del 2008 e il quarto trimestre del 2009 si sono persi 428 mila posti di lavoro. (Dati Istat)
Nei primi nove mesi del 2009 hanno chiuso 300 mila imprese, di cui oltre 30 mila nel settore manifatturiero (elaborazione CENSIS).

Parlano da soli i numeri sulle crisi aziendali (+224%), che – a giugno 2010 − hanno fatto salire la Cassa integrazione straordinaria del 168%, rispetto al primo semestre 2009, di cui hanno usufruito quasi 5mila le aziende. I fallimenti sono aumentati del 132%. (dati osservatorio CGIL su CIG, su dati INPS).
In un quadro dunque di drastico peggioramento, uno degli indicatori che è rimasto invece stabile è quello che vede da anni l’Italia ai gradini più bassi in quanto a consistenza dei salari netti dei suoi lavoratori: sempre ferma al 23esimo posto sui 30 paesi dell’OCSE.
Infatti, 13 milioni e 600 mila lavoratori italiani guadagnano meno di 1.300 euro netti al mese, 7 milioni di loro ne guadagnano meno di 1.000, così come 7 milioni e mezzo di pensionati.

Dunque possedere un lavoro non protegge dalla povertà.
Nel 2009 il 10% degli occupati risulta sotto la soglia della povertà relativa, con una crescita di quasi un punto e mezzo percentuale in soli due anni (il che costituisce un dato tra i peggiori dell’Unione Europea, dove la media è dell’8%). Significativo anche il dato relativo alla povertà assoluta: il 15,1% delle famiglie assolutamente povere ha un capofamiglia occupato.

Tra il 2008 e il 2009 l’incidenza di povertà assoluta per le famiglie con persona di riferimento operaia è aumentata dal 5,9% al 6,9% (Istat).
Fatto sta che ben l’81% di chi si rivolge al Banco Alimentare per ricevere gratuitamente del cibo, è costituito da operai.
Le difficoltà economiche incidono poi anche sulla salute: nello scorso anno, un italiano su cinque ha dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie per motivi economici.
Ma in questi anni la crescita più vistosa della condizione di povertà assoluta ha riguardato le famiglie con figli.

Per la povertà minorile l’Italia permane “maglia nera” in Europa: nei 27 Paesi dell’Unione il rischio povertà dei minori si attesta al 20%, mentre in Italia è al 25%, superata solo da Bulgaria e Romania.
Del resto, al sostegno per la famiglia e la maternità, in Italia va il 4,5% della spesa per la protezione sociale, mentre la media europea è quasi del doppio, l’8%.

3) I grandi poteri finanziari stanno portando avanti una strategia speculativa aggressiva e destabilizzante, che sta esponendo a gravi rischi per prima l’Europa.

Grandi banche e istituti finanziari, dopo essere stati salvati dalla mano pubblica, ora la stanno azzannando, con una politica speculativa in atto che ne colpisce uno (la Grecia) per minacciarne 27 (l’Europa).

La Grecia ha rappresentato non solo il ventre molle europeo, ma la nitida fotografia di uno scenario prossimo venturo generalizzato, segnato da un pesantissimo attacco alle condizioni di vita di lavoratori e ceti medi, da un rinnovato smantellamento
delle protezioni sociali e da un conflitto inevitabilmente destinato ad acuirsi.
Tanto più in assenza di serie politiche di contrasto della speculazione e di contenimento degli effetti della crisi.

4) La shock economy, l’economia della catastrofe e dell’emergenza è divenuta la forma specifica del capitalismo nell’epoca del liberismo, un sistema che consente e produce un’economia predatoria.

Questo anche nella sua versione all’amatriciana, che abbiamo visto all’opera a La Maddalena, a L’Aquila, nel Piano Carceri, nei tentativi di privatizzazione della Protezione civile, della Difesa, persino dei Beni culturali e, ora, dei beni demaniali.

L’assalto ai beni comuni, la politica delle “cricche” e delle cosche affaristiche non è una nuova Tangentopoli: è il secondo tempo di una Tangentopoli che non si è mai interrotta e che è tracimata dalla sfera della politica a quella dello Stato e dell’intero corpo sociale.

5) Si è sedimentata ed è divenuta dominante una cultura dell’individualismo e dell’egoismo proprietario, che trova ora nel Libro Bianco governativo la sua sistematizzazione.

La nuova morale corrente è divenuta: guai ai deboli. Si vuole affermare nel mondo del lavoro e nella società intera la legge del più forte come regola generale. Si vogliono sostituire i diritti sociali con le logiche fintamente filantropiche: il dono al posto dei diritti, l’elemosina invece delle garanzie.

Il Libro Bianco del governo è una teorizzazione compiuta di tale visione, che riporta le relazioni sociali e produttive al paternalismo autoritario di inizi Novecento, peraltro, ora, poco paternalista e molto autoritario. Come dimostra, da ultimo, la politica aggressiva scelta dalla FIAT, i licenziamenti politici e il costante tentativo di indebolire e dividere il sindacato.

6) I diritti umani sono letteralmente scomparsi dalle agende politiche e dalle attenzioni mediatiche.

Alla bulimia delle merci corrisponde l’anoressia dei diritti. Crisi economica, ricerca di nuovi equilibri geopolitici e nuova corsa agli armamenti hanno contributo a chiudere nel cassetto i propositi di multilateralismo e di riaffermazione dei diritti umani come priorità. Guantánamo permane come realtà e come minaccioso simbolo. I migranti, anziché come cittadini globali, sono considerati e trattati come nuovi schiavi: Rosarno è una ferita che si è dimenticata ma che non si rimargina.
E l’Italia continua – con un misto di indifferenza e di protervia – a non voler inserire nel codice penale il reato di tortura, come richiesto dalle Nazioni Unite.

7) La guerra continua a essere uno dei motori privilegiati dell’“Internazionale degli affari”, un criminale e distorto modello di sviluppo.

La spesa militare, che ha superato ormai i 1.500 miliardi di dollari annui, in un solo decennio è cresciuta del 45%. Risorse che vanno largamente a beneficio delle grandi corporation della sicurezza, perché anche il mestiere della guerra si è privatizzato: in Iraq ogni tre soldati uno è un mercenario. Due decenni fa il rapporto era di uno a 60.
L’export bellico italiano nel 2009 ha avuto un balzo del 61%.
Il nostro Paese vende molte armi, ma anche molto spende in armi: nel programma intergovernativo di riarmo spenderà almeno 15 miliardi per il cacciabombardiere F35, 2 miliardi per la portaerei Cavour, mentre ha un bilancio per la Difesa che supera i 20 miliardi, una spesa pro capite superiore a quella della Germania.

8) Gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio si sono persi lungo la strada.

A cominciare dal primo, che voleva dimezzati entro il 2015 gli affamati nel mondo. I quali nel 2009 hanno invece superato il miliardo di persone: 100 milioni in più dell’anno precedente, la cifra più alta da 40 anni a questa parte.
Oltre che nelle tradizionali aree povere, la sottoalimentazione è in crescita anche nei Paesi ricchi: nel 2009 è salita del 15,4%.
Uno sterminio silenzioso e dimenticato, mentre si prevede che entro il 2015 moriranno da 200 mila a 400 mila bambini in più all’anno per malnutrizione.

9) L’ambiente e la questione climatica non mostrano significativi passi in avanti.

Seppure finalmente spesso al centro dell’attenzione, ambiente e superriscaldamento del pianeta non trovano vere e concrete misure di salvaguardia. Se non a parole. Mentre i fatti rimangono quelli della devastazioni, come quella petrolifera provocata dalla BP nel Golfo del Messico. La stessa green economy rischia di essere intesa come nuovo fronte per gli affari, come nuova occasione di shock economy, anziché come diverso e necessario modello di sviluppo.

10) Il riequilibrio di poteri nella governance globale risulta inceppato.

In passato, e in parte tuttora, la politica, i governi erano sodali e complici della finanza d’avventura. La crisi del 2008 ha messo in crisi quel modello, quello dei Dick Cheney. Ma la stagione delle regole e del controllo pubblico appare lontana e incerta.

Ed è anche perciò che diventa sempre più necessario impegnarsi a fondo, ognuno con i suoi strumenti e possibilità, in quella preliminare e fondamentale battaglia che è la battaglia culturale, per recuperare voce ma anche parole, capacità di decifrare la realtà e – di nuovo – di proporre alternative.

Al sedicesimo congresso della CGIL, il segretario Guglielmo Epifani ha posto l’accento su di un principio: «Non lasciare indietro nessuno e ripartire dagli ultimi».

È un’indicazione programmatica esattamente rovesciata rispetto a quell’enfasi sulla competizione come motore e come finalità che è invece diventata il vangelo che governo, Confindustria, ma anche gran parte del sistema cultural-mediatico recita ogni giorno.
Si tratta di due approcci diversi, di due visioni inconciliabili, di due principi opposti.

Noi crediamo che la prima visione sia profondamente sbagliata, produttrice di grandi ingiustizie e nuove diseguaglianze. Mentre la seconda – per quanto debole e talvolta anche troppo attardata su vecchie categorie – è l’unica in grado di dare nuove speranze per il futuro.

Un futuro che, per essere raggiunto, ha prima necessità di essere immaginato, ha bisogno di intelligenza critica, di analisi, di idee e di progettualità.
Il nostro Rapporto, cui partecipano le maggiori associazioni italiane impegnate quotidianamente su questi temi, dalla CGIL all’Arci, ad ActionAid, Antigone, Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza, Fondazione Basso, Forum Ambientalista, Gruppo Abele, Legambiente, vuole essere un modesto contributo a questo sforzo, necessario e corale.

Nessun commento:

Posta un commento