Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

lunedì 24 gennaio 2011

Dagli operai della Fiat una chance alla sinistra

intervista di Stefano Galieni a Roberta Fantozzi

A distanza di una settimana dal voto di Mirafiori sono successe molte cose.

E’ vero, ma da quel voto si deve partire e si deve continuare a sottolinearne il valore, rifiutando i tentativi di ridimensionarne la portata, di farlo cancellare dal rumore caotico della comunicazione mediatica. Come è stato sottolineato, a Mirafiori anche recententemente le mobilitazioni erano state più difficili che altrove, più pesante è l’apparato di controllo, più alta l’età media dei lavoratori. Quel risultato, dentro il ricatto micidiale messo in campo, è la dimostrazione del livello di consapevolezza e di disponibilità alla lotta che esiste nelle fabbriche di questo paese. La consapevolezza che siamo ad un passaggio “storico” in cui dentro la più grande crisi del dopoguerra, il tentativo è quello di determinare una regressione micidiale nella materialità della condizione di lavoro e nei diritti di chi lavora, facendo tabula rasa tanto delle relazioni industriali quanto della Costituzione. La disponibilità alla lotta è quella che si è determinata nel maturare di questa consapevolezza, nell’intreccio con il ruolo svolto dalla Fiom: l’investimento di fiducia guadagnato sul campo dalla Fiom in ogni passaggio di questi difficilissimi mesi, che la identificano come “il sindacato” e anche di più. Giacchè è evidente che soprattutto a partire dalla manifestazione del 16 ottobre, la capacità di mettere in connessione i movimenti, di presentare una piattaforma complessivamente alternativa ne determinano nei fatti un ruolo di supplenza politica: ad una politica che sta dalla parte sbagliata o che, se sta dalla parte giusta, non ha il livello di efficacia che sarebbe necessario.

L’attacco in atto va avanti.

Le dichiarazioni di Federmeccanica a cui sono seguite quelle di Confindustria esplicitano, senza più veli, qual è l’obiettivo “di sistema”, un obiettivo del tutto comprensibile fin dalla vicenda dell’accordo separato sul sistema contrattuale, a cui certo la Fiat ha impresso un’accelerazione estrema. E’ incredibile che a fronte di Pomigliano si sia detto che quella sarebbe stata un’eccezione e che anche dopo si sia pensato che in fondo la logica delle newco riguardava i grandi gruppi multinazionali ma non il complesso delle aziende, come ha provato a riaffermare il direttore generale di Federmeccanica. Il contratto aziendale sostitutivo di quello nazionale, significa la rottura di ogni garanzia per i lavoratori e una macelleria nelle piccole imprese dove il sindacato è più debole o inesistente. Aziendalizzazione e individualizzazione dei rapporti di lavoro sono gli obiettivo espliciti, perseguiti tanto da Federmeccanica e Confindustria, quanto dal Governo e dalla legislazione sul lavoro che è stata approvata. Basta pensare al Collegato Lavoro e alla spinta che dà all’individualizzazione del rapporto di lavoro. Diceva una compagna all’ultimo attivo nazionale, che c’è da scommettere sul fatto che i lavoratori che saranno riassunti individualmente dalla newco, nel contratto troveranno anche la clausola compromissoria: quella che rinvia per ogni controversia all’arbitrato e impedisce di accedere alla magistratura. Mentre per altro verso la bozza di Statuto dei Lavori, rende i diritti che formalmente non tocca, derogabili a seconda della congiuntura economica: i diritti diventano per legge variabili dipendenti del mercato! Aziendalizzazione e individualizzazione dei rapporti di lavoro e insieme tabula rasa dei diritti individuali e collettivi, sanciti dalle leggi e dalla Costituzione. I luoghi di lavoro e la società, trasformati in caserme, in cui chi lavora è ridotto a braccia in competizione con altre braccia: senza autonomia, possibilità di organizzazione collettiva, diritti. Invece di dare diritti a chi è precario, quello che sta avvenendo è il tentativo di generalizzare, peggiorandola, la condizione di ricatto che la precarietà impone già oggi drammaticamente a milioni di persone.

Come si fa a contrastare un attacco di questa portata?

Ci sono più leve che vanno agite. Giustamente la Fiom ha detto da subito che, se a partire dal voto di Mirafiori non si riapriva la trattativa, avrebbe percorso ogni via, compresa quella giudiziaria. Il diktat di Mirafiori e quello di Pomigliano, offrono ampia materia, poiché ancora esistono leggi e Costituzione. Non applicazione della normativa sulla cessione di ramo d’azienda - alla base di tutta l’operazione newco - malattia, diritto di sciopero e libertà di associazione sindacale: c’è n’è per tutti i gusti! Poi, c’è la lotta sindacale e politica. Lo sciopero e le manifestazioni del 28 saranno importantissime ed è estremamente positivo che su quella data ci sia stata la convergenza dei sindacati di base, mentre è squadernata l’esigenza che la Cgil proclami lo sciopero generale. Non c’è una via che non metta in campo un conflitto determinato e durevole, per cui esistono tuttavia tutte le condizioni, come dimostra proprio quella straordinaria disponibilità alla lotta presente nel voto di Mirafiori e prima di Pomigliano, nella crescente resistenza che si è determinata in questo paese. Come dimostra anche il movimento nuovo di studenti e precari. Alla gestione di destra della crisi, costituente di un modello sociale che scardina la sostanza della Costituzione va opposto un movimento costituente di un altro modello sociale. Del resto in molti si muovono, si moltiplicano le risposte: da Uniti contro la crisi, alla costituzione di Lavoro e Libertà, all’appello di Micromega. Ci sono le condizioni per la costruzione di un movimento politico di massa contro il ritorno all’800 e per un’alternativa.

E la politica?

Il PD ha mostrato il punto a cui è arrivata la sua mutazione. Nella coesistenza paralizzante delle diverse linee è evidente non solo quanto pesa non aver rimesso in discussione l’impianto social-liberista, ma i pezzi di interesse materiale che a quel partito concretamente fanno riferimento. Si conferma la giustezza della nostra analisi sull’impossibilità di una prospettiva di governo con quel partito ed è squadernata la necessità di ricostruire una rappresentanza politica del mondo del lavoro. Una sfida per noi dentro un processo di ricostruzione del massimo possibile di rapporti unitari a sinistra, con l’arco di forze che a Mirafiori ha detto NO. Costruzione di rapporti unitari, da accelerare in un quadro politico quanto mai opaco in cui è possibile che la caduta del governo sia all’ordine del giorno e questo è un’obiettivo decisivo, ma nel frattempo si registra dentro il PD la consueta presenza di opzioni diverse e, a dare retta all’intervista di Enrico Letta di qualche giorno fa, la priorità grave della ricerca di alleanze con il terzo polo.
Ricostruire la rappresentanza politica del mondo del lavoro e con questo obiettivo tessere il massimo di rapporti unitari, significa interrogarsi su quale progetto, quali fili da tirare, nella crisi e nelle specifiche caratteristiche del capitalismo italiano.

Ci sono a mio avviso quattro nodi ineludibili.
Il primo è la democrazia, perché democrazia significa quale assetto dei poteri e dunque quale peso degli interessi nella società. La necessità di una legge sulla democrazia sindacale, sul modello della proposta della Fiom, va insieme alla necessità di superare il bipolarismo. Le due cose si tengono più di quanto non si sottolinei. Alla necessità della riappropriazione dei lavoratori delle scelte sulla propria condizione di lavoro, corrisponde la necessità della riappropriazione dei cittadini del terreno della rappresentanza politica: oggi inibita dal maggioritario, cioè dal fatto che si costruiscono coalizioni forzose in cui il principale criterio è prendere un voto più degli altri, nell’omologazione degli schieramenti. Del resto il bipolarismo nasce per rendere impermeabile la sfera istituzionale dal conflitto sociale.
Il secondo è la necessità di ricomporre il mondo del lavoro. Con le sue implicazioni sul terreno della contrattazione e delle tipologie dei rapporti di lavoro. Riunificazione delle categorie, drastica riduzione del numero dei rapporti di lavoro e riaffermazione della centralità del rapporto a tempo indeterminato, riconduzione dell’area del falso lavoro autonomo alle tutele del lavoro dipendente.
Il terzo è un’iniziativa per una radicale redistribuzione delle ricchezze, in un paese in cui la sperequazione è a livelli insostenibili. Se nei quindici paesi Ocse più ricchi la quota di salario sul Pil è diminuita di 10 punti tra il 1976 e il 2006, in Italia è diminuita di 15, a favore delle rendite. E dunque patrimoniale, tassazione delle rendite, contrasto all’evasione.
Il quarto è indirizzare le risorse alla produzione pubblica di beni collettivi: politiche industriali, conoscenza, welfare. Politiche industriali: perché la bassa produttività del lavoro in Italia è conseguenza del “piccolo è bello” degli anni passati, e dell’assenza di investimenti in innovazione di prodotto, che radicalizzano la competizione sui settori saturi. Perché la crisi ecologica rende sovraordinante la riconversione dell’economia e delle filiere industriali. Politiche pubbliche: di un pubblico da rinnovare nel segno della trasparenza e della partecipazione, per ricostruire una capacità di intervento in economia che metta in discussione lo strapotere del capitalismo globalizzato. Conoscenza: per riqualificare l’apparato produttivo, ma anche per una società di donne e uomini liberi. Estensione del welfare: sia sul terreno del reddito sociale che dell’ampliamento della sfera dei servizi, in un paese in cui giovani e donne sperimentano una condizione significativamente peggiore del resto dell’Europa.

Non è un programma irrealistico nella situazione che viviamo?

Sappiamo bene che i rapporti di forza sono assai distanti dalla possibilità di realizzare domattina questi obiettivi e che i processi, non ultimo la pesante involuzione del quadro europeo, stanno andando nella direzione opposta. Quello che va costruito nel senso comune è intanto la consapevolezza che quelle politiche distruggono la società e radicalizzano la crisi. Il modello aziendalista delle relazioni industriali degli Stati Uniti che si vuole importare in Italia, con la pesante compressione dei salari e dei diritti che ha determinato, è una causa della crisi e non può perciò essere la soluzione. Questo dovremmo essere in grado di fissare. E fa un certo effetto che il Fondo Monetario Internazionale si accorga in un rapporto di fine settembre scorso, che la disoccupazione è insostenibile come lo è la crescita delle disuguaglianze, che la crisi è da domanda e le esportazioni non possono sostituire la domanda interna, che i paesi che hanno introdotto maggiore flessibilità del lavoro stanno pagando un prezzo più alto in termini di disoccupazione, che politiche fiscali restrittive generalizzate compromettono la ripresa. Questo non certo perché, per citare Wallerstein, l’FMI, sia diventato “il portavoce della sinistra mondiale”. Ma è evidente che c’è un’instabilità altissima determinata dalla crisi ed è altrettanto evidente che individuare un programma complessivo serve a ricostruire un diverso senso comune e dunque le condizioni soggettive indispensabile per una possibilità di cambiamento.
Aggiungo un ultima considerazione, ultima non per importanza. C’è la necessità di costruire un quadro che tenga insieme queste proposte. Credo che dovrebbe essere oggetto di discussione assai maggiore a sinistra quello che veniva richiamato nell’appello di questa estate dei 250 economisti e che Emiliano Brancaccio in particolare ha più volte esplicitato: la fine dell’egemonia del libero scambismo, non attraverso la ricetta di politiche protezionistiche classiche, che pure vengono attivate - se è vero come è vero che negli ultimi due anni sono state assunte 332 nuove misure protezionistiche a livello internazionale - ma l’idea che sia legittimo ripristinare meccanismi di controllo e limitazione dei movimenti di capitali, sul terreno finanziario, degli investimenti e degli scambi di merci, laddove non ci sia una remunerazione sufficiente del lavoro. Una proposta estendibile anche al campo delle protezioni sociali e ambientali, e traducibile anche tecnicamente in un meccanismo definito. Se la globalizzazione neoliberista è stata la libertà dei capitali di mettere in campo un gigantesco processo di dumping salariale e fiscale andando in giro per il mondo dove era più conveniente, è questo assunto che deve essere messo in discussione.

Come si coniuga un progetto di questo tipo con il “qui e ora”?

Io credo che servano idee lunghe - come è indispensabile attrezzare la resistenza su scala europea - ed insieme servano anche pratiche corte. Avere un progetto è indispensabile per stare dentro la costruzione del conflitto e dei movimenti. E ci sono segnali positivi, anche per quel che ci riguarda. Questo partito che si è speso generosamente nella costruzione del 16 ottobre, è in campo con forza anche ora per il 28 di gennaio. Dall’impegno dei compagni di Torino a Mirafiori, ai 130 banchetti organizzati nel Veneto per sostenere il 28, alle tantissime iniziative in corso. E sta cambiando la propria pelle. Mi ha colpito un comitato politico in Emilia dedicato interamente alle vertenze, alla costruzione di movimento, alle pratiche sociali. Tanti giovani bravissimi, e racconti carichi anche di emotività. Come quando un compagno ha raccontato che i soldi raccolti facendo arancia metalmenccanica per sostenere una vertenza, sono stati dati da quei lavoratori ai lavoratori migranti impiegati da un altra ditta, in quella fabbrica, per le pulizie. Come dire rompere sul campo le divisioni e , nella ritessitura di solidarietà, rovesciare l’immaginario del capro espiatorio. Progetto, conflitto, costruzione di un campo politico e sociale della sinistra di alternativa.


da Liberazione.

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