Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia

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lunedì 13 dicembre 2010

La crisi economica aumenta le disuguaglianze

Lo tsunami della crisi economica si sta abbattendo sui paesi che meno hanno contribuito a scatenarla. A questo ritmo, l'obiettivo di sradicare la fame e la povertà entro il 2015 rischia di rimanere un miraggio per la maggior parte dei paesi nel mondo. Lo denuncia la rete internazionale Social Watch nel rapporto “People First” diffuso in questi giorni. “Studiando l'impatto sociale della crisi a livello internazionale, emerge che a pagarne le conseguenze più dure sono i paesi impoveriti e le persone più vulnerabili, molte delle quali sono nuovi poveri”, afferma Jason Nardi, portavoce del Social Watch Italia. “Fra le prime vittime del crollo dei mercati finanziari vi sono i più poveri che, spendendo dal 50 all’80% del loro reddito in beni alimentari, risentono maggiormente dell'aumento del costo delle derrate agricole. Ma anche le donne, spesso impiegate in lavori precari o a cottimo, con minori salari e più bassi livelli di tutela sociale”. Tramite l’Indice delle Capacità di Base (BCI), il rapporto analizza lo stato di salute e il livello dell’istruzione elementare di ciascun paese. I risultati sono preoccupanti: al 2009, quasi la metà dei paesi analizzati (42,1%) ha un valore dell'Indice BCI basso, molto basso o critico. La maggioranza della popolazione mondiale vive in paesi in cui i principali indicatori sociali sono immobili o progrediscono troppo lentamente per raggiungere un livello di vita accettabile nel prossimo decennio. “Le cifre rivelano una situazione di disuguaglianza drammatica in tutto il mondo, sebbene i dati elaborati si riferiscano a un periodo in cui la crisi economica doveva ancora produrre i suoi effetti più profondi”, afferma Jason Nardi. “La crisi finanziaria offre un'opportunità storica per ripensare i processi decisionali in politica economica attraverso un approccio basato sui diritti umani”.

Il BCI è un indice alternativo che definisce la povertà non in termini di reddito, ma in base alla possibilità di godere di alcuni diritti fondamentali. In particolare, l’indice è costruito attraverso l'analisi di alcuni fattori determinanti per lo sviluppo di un paese: la percentuale di bambini che arriva alla quinta elementare, la sopravvivenza fino ai cinque anni di età e la percentuale di nascite assistite da personale qualificato. A livello mondiale, emerge che nel 18% dei paesi è in atto una regressione in alcuni casi accelerata. Tra questi, il 41% fa parte dell’Africa subsahariana. Un dato preoccupante per una regione che già in precedenza registrava i valori più bassi. L'Asia meridionale sta invece progredendo rapidamente, pur partendo da valori molto bassi, mentre in America Latina e nei Caraibi non si registrano miglioramenti. Al ritmo di sviluppo attuale, solo Europa e Nord America potrebbero raggiungere entro il 2015 valori accettabili dell'indice. Ciò significa che, in mancanza di cambiamenti sostanziali, per tale data gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio concordati a livello internazionale non verranno raggiunti.

Lo scenario desta ancor più preoccupazione se si considera che solo Danimarca, Norvegia, Svezia, Olanda e Lussemburgo hanno rispettato gli obiettivi delle Nazioni Unite, destinando almeno lo 0,7% del Pil all’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (Aps). Nonostante le ripetute promesse del nostro governo, si prevede che l'Aiuto Pubblico allo Sviluppo in Italia subirà un drammatico taglio, scendendo dallo 0,2% del PIL a meno dello 0,17%. Al pari della Grecia e di poco al di sopra della Repubblica Ceca, l'Italia si ritrova così agli ultimi posti tra i paesi industrializzati.

Le differenze tra uomo e donna non si riducono, mentre cresce la distanza tra i paesi più virtuosi e quelli in cui la discriminazione è maggiore. Lo rivela l'Indice di Parità di Genere (GEI), sviluppato e calcolato per il 2009 dal Social Watch. Il GEI analizza la disparità tra i sessi, classificando 157 paesi in una scala in cui 100 indica la completa uguaglianza tra donne e uomini.

I valori più alti nell'Indice di Parità di Genere sono attribuiti alla Svezia (88 punti). Seguono Finlandia e Ruanda - entrambi con 84 punti nonostante l'enorme differenza in termini di ricchezza tra i due paesi. Poco al di sotto si classificano Norvegia (83), Bahamas (79), Danimarca (79) e Germania (78). L’indice dimostra quindi che un alto livello di reddito non è sinonimo di maggiore uguaglianza e che anche i paesi poveri possono raggiungere livelli di parità molto elevati, sebbene uomini e donne vivano in condizioni non facili. In questa speciale classifica, l’Italia scende rispetto al 2008 dal 70° al 72° posto, con un valore di 64 punti, collocandosi subito dopo paesi come Grecia, Slovenia, Cipro e Repubblica Dominicana (66). Confrontando il dato dell’Italia con la media europea (72), emerge il ritardo del nostro paese nel raggiungere un’effettiva uguaglianza di genere.

“L’indice della parità di genere rivela se una società sta evolvendo verso una maggiore equità di genere o rimane ferma. La mancata riduzione del divario nei diritti tra uomo e donna conferma la miopia dei governi. La distinzione tra paesi del cosiddetto Sud del mondo e quelli del Nord sviluppato è sempre più sfumata”, afferma Jason Nardi, portavoce del Social Watch Italia. “La promozione della parità tra i sessi è uno degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio: i nostri dati dimostrano che quell’obiettivo invece di avvicinarsi si sta allontanando”. Nelle prime 50 posizioni dell’indice sono compresi i due terzi dei paesi dell’Unione Europea, ad esclusione di paesi come Irlanda, Slovacchia, Repubblica Ceca, Grecia e Italia. Tra i primi 50, c’è inoltre una significativa rappresentanza di paesi in via di sviluppo, tra i quali Filippine, Colombia, Tanzania e Thailandia. L’insufficiente progresso nella riduzione della disparità di genere ha portato, in molte realtà, a una crescente polarizzazione: mentre nei paesi dove l'uguaglianza è maggiore si registra una tendenza verso il miglioramento, gli Stati con livelli di discriminazione più elevati evolvono in modo negativo. É il caso dell'America Latina e dei Caraibi, da una parte, e dell'Asia Orientale e del Pacifico, dall'altra. Crisi economica: donne più vulnerabili

La situazione di estrema disuguaglianza tra uomo e donna è stata aggravata dall'attuale crisi economica. Le donne, infatti, sono più esposte alla recessione globale perché hanno minore controllo della proprietà e delle risorse, sono più numerose nei lavori precari o a cottimo, percepiscono minori salari e godono di livelli di tutela sociale più bassi. L'ONU riferisce che il tasso globale di disoccupazione femminile potrebbe arrivare al 7,4%, contro il 7,0% di quella maschile. Ciononostante, il Social Watch ricorda che la crisi non presenta soltanto sfide, ma anche l’opportunità di cambiare l'architettura finanziaria globale e definire politiche innovative, basate sull’equità e sul rispetto dei diritti.

L'indice GEI è composto da una serie di indicatori della disparità di genere che coprono tre dimensioni: l'istruzione, la partecipazione all'attività economica e l'empowerment (concessione di pieni poteri alle donne). L'analisi del divario nei tassi di alfabetizzazione e di iscrizione a scuola dei diversi paesi mostra che i progressi registrati nella sfera dell'istruzione sono di gran lunga maggiori rispetto a quelli registrati nelle altre dimensioni della parità di genere. Nell'accesso agli spazi decisionali e nell'esercizio del potere, invece, la disuguaglianza tra uomini e donne è più evidente: non c'è un solo paese dove le donne abbiano le stesse opportunità degli uomini di partecipare ai processi economici o socio-decisionali. I progressi nella partecipazione all'attività economica registrati nel 2008, infine, sono stati completamente azzerati nel 2009. In particolare nella regione dell'Africa subsahariana.

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