
La spesa militare italiana è tutt’altro che trasparente, spezzettata com’è nei bilanci di diversi dipartimenti. Lo scrive lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) nel suo rapporto annuale e lo rimarcano i ricercatori dell’organizzazione Sbilanciamoci in “Economia a mano armata”, il libro bianco sulle spese militari presentato a Roma alla Fondazione Basso.
“Questo conferma ciò che denunciamo da  tempo, ovvero che il bilancio della Difesa italiana sia difficilmente  comprensibile e quindi poco trasparente, in primo luogo perché spese  riconducibili alla Difesa sono collocate in altri capitoli di bilancio  dello Stato, come le spese per i sistemi d’arma finanziate dal ministero  dello Sviluppo economico e le missioni internazionali a carico del  ministero dell’Economia”.
Per effetto delle manovre estive per  ripianare il debito dello Stato con la legge di Stabilità del 2012 il  bilancio della Difesa è passato dai 20,5 miliardi del 2011 ai 19,9  miliardi. La cifra totale delle spese militari tuttavia raggiunge i 23  miliardi se si considerano anche gli 1,7 miliardi destinati ai sistemi  d’arma e gli 1,4 miliardi per le missioni all’estero. “Le spese militari  sono spese scomode, per questo si tende a nasconderle, in tutti i  Paesi”, ha spiegato Massimo Paolicelli, presidente dell’Associazione  Obiettori non violenti. Per esempio, secondo quanto riferito dal  ministero i fondi al “Funzione difesa” sono pari allo 0,84 per cento del  Pil (contro una percentuale che, nel 2004, era dello 1,01 e che  attualmente negli altri Paesi europei è, in media, dell’1,61 per cento).  Dato da cui sono però escluse la funzione sicurezza, ossia i compiti  dei carabinieri che sono la quarta forza armata; le funzioni esterne,  come il trasporto idrico per le isole minori e i voli di Stato; il  trattamento di ausiliaria.
L’Italia spende tanto e spende male.  Come sottolineato da Paolicelli, le Forze armate stanno diventando uno  “stipendificio”, per citare le parole dell’ex capo di Stato maggiore  della Difesa, generale Vincenzo Camporini, Soprattutto perché chi dà gli  ordini è più numeroso di chi li riceve: 95mila graduati per 83mila  militari di truppa e su tutti 476 tra generali e ammiragli. Per dare il  senso della sproporzione gli Stati Uniti hanno 900 generali per 1,5  milioni di militari. Oppure, ed è il caso degli F-35, si distolgono  fondi che potrebbero essere usati in altro modo per l’acquisto di  armamenti che sono stati bersaglio di critiche tecniche che ne  contestano l’efficacia.
Tutto ciò si inserisce in uno scenario  globale in cui, per la crisi, la spesa militare è rimasta quasi  invariata rispetto all’anno precedente: nel 2011 si stima abbia  raggiunto i 1.738 miliardi di dollari ossia il 2,5 per cento del Pil  mondiale. Stati Uniti, Cina, Russia, Gran Bretagna e Francia – i membri  permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – occupano in  quest’ordine i primi cinque posti nella classifica dei Paesi con la  spesa militare più alta, stilata dal Sipri. Segue il Giappone, mentre  l’Italia scivola all’undicesimo posto, superata dal Brasile, con una spesa che  l’istituto di Stoccolma stima in 34,5 miliardi di dollari (27 miliardi  di euro).
Altro esempio di come i dati varino per la poca trasparenza.
Tuttavia  – dati del 2010 – l’Italia è ben salda tra i primi dieci in altre due  classifica. La prima è quella delle maggiori imprese produttrici di  armi, con Finmeccanica al nono posto forte di un volume d’affari di 14  miliardi di dollari. L’Italia è infine nona tra i Paesi esportatori di  armi, terza se si prendono in considerazione soltanto i Paesi  dell’Unione europea. Come per i partner europei anche per Roma, si legge  nel dossier di Sbilanciamoci, tra gli acquirenti di armi “made in  Italy” figurano “governi autoritari di nazioni con alti livelli di spese  militari”, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, o in cui ci  sono “grosse limitazioni alle libertà civili e democratiche”, è il caso  dell’Algeria e della Libia.
“Dalla crisi si esce con un nuovo modello di sviluppo di cui fa integralmente parte la riconversione civile dell’economia militare”, scrive Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci, nel suo intervento. Le proposte per farlo ci sono. Tra queste: la riduzione di 3 miliardi di spese militari con una riduzione degli organici e un’integrazione dentro la cornice europea e Onu; una riduzione dei programmi d’arma a partire dal no all’acquisto degli F-35; un no ai militari nelle città destinando gli stessi fondi, 72 milioni di euro, per pagare gli straordinari delle forze di pubblica sicurezza. E ancora la destinazione a uso sociale delle caserme dismesse, la riconversione dell’industria militare e lo stanziamento di 200 milioni di euro per il Servizio civile nazionale, contro gli attuali 68 milioni, per investire in programmi e formazione.

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